Il
socialismo
Nel corso dei primi decenni
dell’‘800, in Inghilterra vennero compiuti i primi passi verso il
raggiungimento di una legislazione sociale. Erano provvedimenti ancora modesti,
che non cambiarono di molto la situazione della classe operaia. D’altra parte,
negli altri paesi del continente europeo la questione delle condizioni di
lavoro e di vita proletaria non fu addirittura nemmeno sollevata. Di fronte
alla lentezza (o alla totale indifferenza) con cui i governi davano risposta ai problemi sociali che stavano emergendo,
cominciò ad un certo momento a diffondersi tra alcuni gruppi di intellettuali
democratici e radicali, specie in Francia, in Inghilterra e in Germania, la
convinzione che fosse necessario un mutamento profondo della società. L’obiettivo
divenne quello della costruzione di una società di tipo nuovo, che eliminasse
per sempre l’ingiustizia, lo sfruttamento e la miseria. Non si trattò comunque
di un’unica corrente di pensiero. Le ipotesi avanzate sui tempi e sui modi
della trasformazione, così come i progetti di costruzione della nuova società,
furono diversi tra loro. Tuttavia i due motivi di fondo furono l’esigenza del
cambiamento e l’aspirazione a forme di egualitarismo e di comunione dei beni.
Questi motivi delinearono la nascita di un nuovo pensiero politico e sociale,
autonomo dal liberalismo più avanzato e dal radicalismo democratico, detto
socialismo o comunismo. Le parole "socialista" e
"socialismo" cominciarono a diffondersi nella pubblicistica politica
negli anni Venti e Trenta dell'Ottocento, quasi contemporaneamente in Francia e
in Inghilterra, i paesi che sperimentarono per primi le profonde trasformazioni
economiche, politiche e sociali che segnarono la nascita della moderna società
industriale. In Inghilterra furono i seguaci di Robert Owen i primi a definirsi socialisti, mentre in Francia la
parola fu adottata intorno alla metà del secolo da Pierre Leroux per indicare
una concezione etica e politica che si opponeva all'individualismo. Se
l'individualismo era la caratteristica essenziale della società borghese e
capitalista, basata sui diritti dell'individuo, sulla proprietà privata e
sull'economia di mercato, il socialismo si caratterizzò fin dall'inizio, oltre
che per la denuncia dei mali prodotti dal capitalismo, come un progetto generale
di riorganizzazione della società, in cui forme alternative di organizzazione del
lavoro rendessero possibili nuove relazioni fra gli uomini basate sulla
solidarietà e la cooperazione, invece che sulla competizione.
I socialisti non furono i soli a
schierarsi contro l'individualismo della società borghese. Altri autori posero
l'accento sugli effetti negativi prodotti dalla Rivoluzione francese e dalla
rivoluzione industriale, che minacciavano a loro avviso di disgregare il corpo
sociale; ma l'ideale di società che costoro avevano in mente era quello della
società gerarchica e paternalistica dell'Antico Regime. Poiché guardavano al
passato, questi autori vengono definiti "reazionari".
I socialisti si mossero nella
direzione opposta. Non rifiutarono la società industriale, di cui anzi
esaltarono le enormi possibilità, impensabili nella società agraria e feudale, di
accrescere la ricchezza e i beni di consumo; rifiutarono le forme in cui questa
veniva realizzandosi: i mali che affliggevano la società europea non derivavano
dall'industrialismo in sé, ma dall'organizzazione capitalistica della nuova
economia. Nella nascente società industriale vedevano una contraddizione di
fondo: un accrescimento di ricchezze senza precedenti si accompagnava con il
progressivo impoverimento di masse sempre più vaste. Nel denunciare i mali del
presente (le gravissime ingiustizie, la pratica dello sfruttamento, la
ricchezza sfacciata della borghesia e la miseria degradante del proletariato),
i socialisti prefigurarono, disegnando a tavolino, una società futura in cui i
benefici dell'industria andassero a vantaggio dell'intera comunità. Di qui il
nome di "socialisti utopisti", coniato per loro da Marx ed Engels, con
cui comunemente vengono indicati. La consapevolezza che l'industria stesse
aprendo un'epoca nuova della storia distingue i primi socialisti anche dalle
forme di comunismo che si erano presentate nella cultura occidentale, dalla Repubblica di Platone in
poi: queste guardavano al mito dell'età dell'oro, in cui si viveva in perfetta
comunione dei beni, prima che l'istituzione della proprietà privata rompesse i
legami di solidarietà tra gli uomini e la concordia sociale. I socialisti
scelsero invece di confrontarsi con i temi dell'organizzazione del lavoro e dell'industrialismo,
ponendo all'ordine del giorno la "questione sociale". Quando, intorno
alla metà dell'Ottocento, il comunismo, come forma radicale di mutamento della
società, fece la sua ricomparsa in Europa riproponendo l'abolizione della
proprietà privata, ciò avvenne in un contesto completamente trasformato.
Owen, i
socialisti ricardiani e il cooperativismo
Alle
origini del socialismo in Inghilterra, la patria della rivoluzione industriale,
c'è un'originale figura di imprenditore e di riformatore che le circostanze
della vita avevano posto nella condizione migliore per interpretare quanto
stava accadendo. Prima di diventare proprietario della filanda di New Lanarck,
che sarebbe divenuta la sede principale dei suoi esperimenti sociali, Robert Owen (l771-1858) aveva lavorato come
impiegato nell'industria tessile, vale a dire proprio in quella branca
dell'attività economica da cui aveva preso avvio la rivoluzione industriale.
Aveva così avuto modo di conoscere direttamente le drammatiche condizioni di
vita di una nuova figura di lavoratore: l'operaio.
Questa esperienza lo aveva convinto della profonda ingiustizia di un sistema
che legava l'accrescimento della ricchezza nazionale allo sfruttamento dei
nuovi poveri: individui privati della terra e degli strumenti di lavoro
dall'accumulazione capitalistica e costretti per sopravvivere a piegarsi ai
ritmi massacranti del regime di fabbrica. L'economia politica aveva individuato
in quella realtà il perno del modo di produzione industriale, e la morale
corrente la giustificava in base al presupposto che ciascuno è responsabile del
proprio destino: pertanto i poveri non dovevano ad altri che a se stessi, alla
loro mancanza di iniziativa e di forza di carattere, la condizione di indigenza
in cui si trovavano.
A questa
concezione, che assolveva l'egoismo degli imprenditori da ogni responsabilità per
i mali della condizione operaia, Owen ne contrappose un'altra, ricavata, nel
corso della sua formazione di autodidatta, dagli scritti di un autore di
ispirazione libertaria e fortemente critico della società del tempo, William Godwin (1756-1836). Negli anni
a cavallo tra Settecento e Ottocento questi aveva sfidato l’opinione prevalente nell’establishmant inglese, schierato contro la Rivoluzione francese, rilanciando tesi maturate
oltremanica nell'ambito
dell'Illuminismo: il carattere degli uomini non dipende dalla
volontà degli individui, ma è plasmato dalle circostanze esterne, la più
potente delle quali è
l'organizzazione sociale. Più tardi John Stuart Mill avrebbe criticato la teoria oweniana sulla
formazione del carattere, in quanto, a suo avviso, tendeva a escludere la responsabilità dell'individuo; ma Owen non si
preoccupava tanto degli aspetti
filosofici del problema della libertà, quanto di denunciare come i mali che si accompagnano sempre alla povertà, e che
allora affliggevano in particolare le masse dei lavoratori, andassero addebitati all'egoismo dei suoi "colleghi"
imprenditori e alle classi dirigenti
in genere. Alla base della triste condizione dei poveri c'era una visione della società che Owen definiva profondamente
«immorale», perché fondata sulla concorrenza sfrenata e sull’avidità di
guadagno.
Forte
delle sue convinzioni, Owen fece del suo opificio di New Lanarck una comunità
in cui sperimentare una nuova organizzazione industriale, migliorando le
condizioni di lavoro, garantendo salari adeguati, riducendo gli orari di lavoro
e, soprattutto, sottraendo i minori al lavoro di fabbrica e offrendo loro
opportunità di istruzione. Con questo utopistico laboratorio sociale si cercò di rimuovere gli aspetti degradanti della condizione operaia, come l'alcolismo, la criminalità, la prostituzione. Non c'era nulla di rivoluzionario in tutto ciò, né
Owen intese mai appellarsi alla lotta di classe: il suo scopo era quello di
dimostrare che un'organizzazione diversa del lavoro non era affatto
incompatibile con la produttività dell'impresa, anzi tendeva ad accrescere la
ricchezza nazionale. Credeva che l'esempio di New Lanarck potesse riproporsi in
istituzioni analoghe, da lui denominate «Villaggi della cooperazione», fino a
modificare sostanzialmente lo stato di cose esistente. La sua utopia mirava
all'avvento di un «nuovo mondo morale», affidato a criteri di giustizia e alle
capacità rigeneratrici dell'educazione.
Se
l'aspirazione a una rifondazione etica della società caratterizzava in senso
filantropico la concezione di Owen, un altro aspetto della sua riflessione
andava in senso più propriamente socialista. La nuova economia poneva il lavoro
come fonte principale di ricchezza: se questo era vero, allora il senso di
giustizia avrebbe voluto che la ricchezza prodotta dal lavoro fosse
ridistribuita più equamente tra i possessori di capitale e i lavoratori. I
lavoratori producevano molto più di quello che era loro necessario per vivere;
e se erano ridotti in condizioni di povertà ciò dipendeva dal sistema della
concorrenza, che accresceva sempre più la differenza tra quello che l'operaio
produceva e il salario che riceveva.
Partendo
da premesse analoghe, altri autori giunsero a sostenere il diritto dei
lavoratori all'intero prodotto del lavoro, e lo fecero sviluppando in senso
decisamente anticapitalistico le tesi di David Ricardo (1772-1823), il più
autorevole esponente dell'economia politica classica; perciò questi autori
vengono definiti socialisti ricardiani. Nei suoi Principi di economia politica (Principles
qf Political Econorny, 1817), Ricardo, per descrivere i meccanismi della nuova economia di
mercato, aveva ripreso una tesi prefigurata a suo tempo da Locke e sviluppata in seguito da Adam Smith (1723-1790), secondo la quale il lavoro è la fonte e l'unità di
misura del valore, e aveva aggiunto che nel processo produttivo, oltre al
lavoro, rientrava tra i fattori determinanti anche il capitale, frutto a sua
volta di lavoro precedente. Per fissare il valore delle merci occorreva,
secondo Ricardo, tener conto non solo del lavoro direttamente impiegato dagli
operai per produrle, ma anche del lavoro accumulato, ossia il capitale, grazie
al quale i capitalisti mettevano a disposizione gli strumenti della produzione
e i mezzi di sostentamento degli operai. Il profitto era la ricompensa che i capitalisti
ottenevano per la funzione da loro svolta nella produzione. Per autori come
Thomas Hodgskin (1787-1869) e William Thompson (1785-1833), i maggiori
rappresentanti del socialismo ricardiano, le conclusioni raggiunte da Ricardo
potevano reggere solo accettando il presupposto della proprietà privata dei
mezzi di produzione su cui si basava la società capitalistica. Proprio la
teoria ricardiana stava a dimostrare il carattere improduttivo del capitale,
capace di trasferire valore, ma non di crearlo. Se il lavoro era la fonte del
valore, il profitto del capitalista non era altro che lavoro operaio non
pagato, di cui il capitalista si appropriava non per la funzione da lui svolta
nel processo produttivo, ma grazie alla sua posizione sociale dominante. Una
nuova aristocrazia, quella dei capitalisti, si affiancava così alla vecchia aristocrazia
terriera per negare agli operai il diritto al prodotto del loro lavoro.
Il socialismo in Francia
Le
origini: Babeuf
La
situazione francese, al passaggio del secolo, presentava caratteristiche
diverse da quelle dell'Inghilterra. L'industrializzazione, che stava
rapidamente cambiando la società inglese, era ancora di là da venire, ma gli
sconvolgimenti prodotti dalla Rivoluzione e, soprattutto, l'aspirazione
all'uguaglianza che i principi del 1789 portavano con sé
suscitarono fermenti destinati ad andare ben oltre i confini della nascente
società borghese. Di questi fermenti si fecero portavoce l’abate e filosofo Ètienne-Gabriel Morelly (di cui si
ignorano i dati biografici) e il giornalista originario della Piccardia, François-Noel Babeuf (1760-1797).
Il primo prospetto nel Codice della natura (1755) una società integralmente comunista, fondata
Il primo prospetto nel Codice della natura (1755) una società integralmente comunista, fondata
Ø sull’eliminazione della proprietà privata,
Ø sulla totale comunanza di beni,
Ø sull’obbligatorietà del lavoro da assegnare
in base alle possibilità fisiche di ciascuno,
Ø sul mantenimento di tutti i cittadini a
spese del tesoro comune sulla base delle oggettive necessità di ogni individuo.
Con Babeuf,
l’utopia socialista fece un salto di qualità. Già militante giacobino, alla
caduta di Robespierre e all'avvento del governo moderato del Direttorio tentò,
con la cosiddetta congiura degli Eguali (maggio 1796), di rilanciare e portare
alle conseguenze estreme gli ideali egualitari della Rivoluzione, realizzando
compiutamente l'uguaglianza sociale, senza la quale l'uguaglianza politica
restava un'illusione. Il suo anarchismo si fondava sul netto rifiuto di ogni principio di autorità e di organizzazione statale presente e futura, in quanto intravedeva proprio nelle strutture statali accentratrici l'origine di ogni oppressione e ingiustizia sociale. Babeuf è annoverato tra gli antesignani del socialismo,
ma sarebbe più corretto dire del comunismo, perché, nella società a cui avrebbe
dovuto dar vita la congiura, l'ideale giacobino di una ripartizione equa della
proprietà lasciava il posto alla soppressione della proprietà in
ogni sua forma, all'instaurazione della comunione dei beni e al godimento
comune dei frutti della terra. Con Babeuf ci fu per la prima volta un tentativo
concreto di trasferire l’utopia del terreno intellettuale e ideale a quello
politico. L'orizzonte del progetto rivoluzionario degli Eguali era quello della
vecchia società agraria e artigianale, e il linguaggio di cui si servirono era ancora quello del comunismo preindustriale,
vagheggiato in alcune utopie dell'epoca dei Lumi: Babeuf non parla di operai e
capitalisti, ma di ricchi e poveri, patrizi e plebei, e riesuma per sé dalla storia
della repubblica romana il nome di battaglia di
Gracco (Gracchus), il «tribuno del popolo»
che si batté contro l'oppressione dei plebei da parte del patriziato. in coerenza col suo pensiero, egli individua nelle masse agricole affamate, estranee a ogni forma di politicizzazione e lontane dal patriottismo, il vero interlocutore del programma rivoluzionario. Per
realizzare la nuova società Babeuf, fedele al modello giacobino, confidò nell’azione
di una minoranza di cospiratori, interpreti della causa del popolo, pronti ad
assumere in suo nome il potere e a instaurare, nella fase di transizione, una
dittatura rivoluzionaria destinata ad annullare le disuguaglianze. La congiura
fallì, e Babeuf finì sulla ghigliottina, ma quella esperienza fu descritta da
un suo seguace, l'italiano Filippo Buonarroti (1761-1837), in un celebre saggio
intitolato Cospirazione per l'eguaglianza
detta di Babeuf (Conspiration pour
l'Égalité dite de Babeuf, 1828). In tal modo venne trasmesso all'Ottocento il messaggio di Babeuf, e
non pochi studiosi vi hanno visto il luogo
di nascita di un modello che si sarebbe riproposto in seguito, in contesti
assai diversi, nella Comune di Parigi
(1871) e nelle teorizzazioni di Marx e di Lenin sulla rivoluzione comunista: il modello della presa del
potere da parte di una minoranza rivoluzionaria e della dittatura del proletariato.
Industrialismo
e socialismo: Saint-Simon
Dalla
Rivoluzione aveva tratto un insegnamento diametralmente opposto un altro autore
francese, passato anche lui attraverso le varie fasi di quella vicenda,
ClaudeHenri Rouvroy, conte di Saint-Simon
(1760-1825). Pur se discendente da una famiglia di antica nobiltà, anche
Saint-Simon era pronto a riconoscere il carattere epocale della Rivoluzione
francese, ma di quel processo sottolineò soprattutto il carattere distruttivo,
il fatto cioè che la rivoluzione aveva posto fine per sempre all'Antico Regime
e all'organizzazione sociale che l'aveva caratterizzato. Tutto quello che la
Rivoluzione doveva fare, l'aveva fatto: si trattava ora di ricostruire.
Operando nell'età
della Restaurazione, Saint-Simon comprese con acuto senso storico che era
impossibile riportare in vita le vecchie istituzioni: il compito che si
prospettava alle nuove classi dirigenti era invece quello di favorire l'avvento
della nuova organizzazione sociale basata sull'industria e sui commerci, che in
Francia aveva cominciato a muovere i primi passi sotto Napoleone. Il suo
pensiero si basava sulla totale fiducia nella scienza e nella tecnica, ritenute
fonti primarie di progresso sociale. L'esempio da seguire era quello
dell'Inghilterra, che aveva vinto il confronto con la Francia rivoluzionaria e
napoleonica anche grazie alla superiorità del suo apparato produttivo.
Saint-Simon conosceva le opere dell'economista francese Jean-Baptiste Say
(1767-1832), che all'inizio dell'Ottocento aveva contribuito a diffondere in
Francia le teorie economiche di Adam Smith; da lui Saint-Simon aveva imparato
che l'elemento fondamentale che distingueva la nuova società da quelle del passato
era costituito dal lavoro e dalla produzione industriale. In particolare, il lavoro doveva essere di tutti per tutti, senza azzerare le differenze tra i ruoli, ma questi dovevano essere determinati secondo le capacità e l'impegno di ciascuno. La formula doveva essere: "A ciascuno secondo le sue capacità, a ogni capacità secondo il lavoro compito". Lavoro e capacità si sarebbero espressi solo con lo sviluppo dell'industria, considerata la "fonte unica di tutte le ricchezze e di tutte le proprietà".
È difficile
dire quanto ci fosse di socialista nella visione di Saint-Simon. Anche secondo
lui si era in presenza di un conflitto che divideva la società in due gruppi
contrapposti, ma non si trattava più dei ricchi contro i poveri, di cui aveva
parlato Babeuf, né si trattava ancora del conflitto tra capitalisti e
lavoratori, di cui cominciavano a parlare i primi socialisti inglesi. Per
Saint-Simon la società si divideva in «oziosi» e «produttori», i «calabroni» e
le «api», di cui parlò in una famosa parabola. I calabroni erano i ceti
parassitari della vecchia aristocrazia feudale, in cerca di riscatto sotto la
Restaurazione; le api rappresentavano tutti coloro che erano impegnati nel
mondo della produzione: industriali, tecnici, scienziati, intellettuali,
lavoratori. La cooperazione tra queste forze, resa indispensabile dall'obiettivo
comune della produzione, costituiva il modello per riorganizzare organicamente la
società dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione. Il conflitto dunque non si situava
per Saint-Simon all'interno della nascente società industriale, ma tra questa e
quanto restava ancora del vecchio ordine. Saint-Simon riteneva che il governo
dei politici, non adeguato alla nuova società, dovesse essere sostituito da un
governo di scienziati e industriali, animati da un nuovo spirito di fratellanza, in grado di garantire benessere a tutta la società, al
di là della miope ricerca del puro utile individuale. Con l'ascesa al potere
dei settori più avanzati del ceto produttivo e l'instaurazione dell'ordine
industriale, l'antagonismo del passato avrebbe lasciato il posto a una nuova
forma di solidarietà, da cui avrebbe tratto vantaggio soprattutto quella che
egli definiva «la classe più numerosa e più povera». Il segreto era riuscire a
stabilire una stretta collaborazione tra capitale e lavoro all’interno di una
nuova società in cui l’interesse sociale doveva prevalere su quello individuale
in vista di un’organizzazione scientifica del lavoro e di un miglioramento
delle condizioni delle classi meno abbienti. Il riferimento alle condizioni
della «classe più numerosa e più povera» si fece sempre più insistente nei suoi
ultimi scritti, quando Saint-Simon dovette constatare che la Francia non era
l'Inghilterra e l'invito alle classi dirigenti affinché adottassero la nuova
filosofia industriale era sostanzialmente caduto nel vuoto. Riformulò la sua visione
della società in termini più accessibili alla mentalità corrente, facendo leva sui
sentimenti e arricchendola di significati etici e religiosi. Parlò di un Nuovo cristianesimo (Nouveau Christianisme, 1825) come di una
forma di religione liberata da ogni incrostazione dogmatica e incentrata
sull'autentico comandamento del cristianesimo delle origini: «Dio ha detto: Gli uomini devono comportarsi come fratelli
gli uni verso gli altri». Quella regola di condotta imponeva che la società
fosse organizzata in modo da
risultare la più vantaggiosa per il maggior numero, migliorando «nel modo più rapido e più completo possibile
l'esistenza fisica e morale della classe più numerosa». L'aspetto cooperativistico
e solidaristico dell'organizzazione industriale diventava così un vero e proprio imperativo etico, che la nuova
religione aveva il compito di diffondere.
Dietro l'appello religioso del nuovo cristianesimo si può leggere la
crescente consapevolezza che anche le nuove relazioni industriali, se non
ispirate moralmente, potevano comportare una forma di sfruttamento dei più
deboli. Proprio in questa direzione alcuni dei seguaci di Saint-Simon
svilupparono l'insegnamento del maestro dopo la sua morte. Se per Saint-Simon
il contrasto fondamentale era tra società industriale e società feudale, per i
sansimoniani l'antagonismo si trasferiva all’interno del nuovo sistema
industriale, e il rapporto tra capitalista e lavoratore era individuato come la
nuova forma di sfruttamento. Uno sfruttamento esercitato sui lavoratori dal
capitalista ozioso e parassita, grazie alla posizione di privilegio di cui
godeva nella società: anche il capitalista, non meno dei proprietari terrieri,
poteva rientrare dunque nella categoria dei
«calabroni». L'istituto su cui si fondava questa forma di sfruttamento era, per
i seguaci di Saint-Simon, quello della proprietà ereditaria: non erano contrari
alla proprietà privata, ma si espressero contro ogni proprietà che non
derivasse direttamente dal lavoro. Per questo auspicarono nei loro scritti
l'avocazione delle ricchezze ereditarie allo Stato, affinché potessero essere
impiegate dai nuovi ceti dirigenti nei lavori utili alla società e allo
sviluppo industriale. Il futuro della nascente società industriale era troppo importante
perché venisse lasciato al capriccio dell'iniziativa individuale e alla logica liberistica
del laissez-faire. Solo facendo del capitalista
un lavoratore come gli altri organicamente inserito nel processo produttivo, si
poteva evitare il riproporsi di quell'antagonismo che aveva caratterizzato le
precedenti epoche storiche, e dar vita a una società basata sull'associazione e
sulla solidarietà.
Fourier e la rivalutazione delle passioni
La critica
della società borghese, così come si veniva configurando in seguito alla
rivoluzione industriale e alla Rivoluzione francese, è il tratto che
caratterizzava l’opera di un altro riformatore sociale francese, considerato
tra gli antesignani del socialismo, Charles Fourier (1772-1837). Autodidatta,
Fourier trasse ispirazione dalla legge newtoniana della gravitazione per
teorizzare una ricomposizione della società in base alla «forza attrattiva»
esercitata dalle passioni. Le passioni e i desideri rappresentano la natura
autentica dell'uomo, la quale tende di per sé «alla concordia e all'unità
sociale». Ma la nuova civiltà borghese, attraverso la coercizione sociale e
l'organizzazione del lavoro, mira a reprimere le passioni, imprimendo un corso «artificiale»
ai rapporti tra gli uomini: è un «mondo alla rovescia», in cui il lavoro è
trasformato in un'attività noiosa e alienante mentre la concorrenza tra individui e
gruppi sociali impedisce ai lavoratori di partecipare ai benefici. I rimedi per
uscire dal «caos» in cui versava la società erano gli stessi a cui faceva
riferimento Saint-Simon ed erano gli elementi che caratterizzavano la modernità:
il lavoro e l'industria, le scienze, il perfezionamento delle tecniche e delle
arti. Ma, a differenza di Saint-Simon, Fourier non credeva che la
trasformazione dovesse essere promossa dall'iniziativa di un'élite di industriali, scienziati e intellettuali che riordinasse la società
dall'alto: odiava le organizzazioni gerarchiche, credeva
nella libertà e nell'irriducibile diversità degli individui.
Neppure
lui credeva nelle virtù taumaturgiche di una rivoluzione, ma era anche convinto
che la confisca della proprietà ereditaria, auspicata dai sansimoniani in vista
di una produzione più razionale e centralizzata, fosse qualcosa da evitare, in
quanto andava contro un desiderio radicato nella natura umana. L'unica
possibilità di ricreare l'armonia perduta, costruendo una nuova «associazione»,
stava nel lasciare libero corso ai desideri e alle vocazioni individuali,
facendo sì che le passioni ritrovassero la loro espressione «naturale».
Non
diversamente dagli altri teorici del socialismo nascente, Fourier era
consapevole del ruolo centrale esercitato dal lavoro nella nuova economia e
nella produzione della ricchezza. Era anche convinto che il lavoro fosse lo
strumento principale di realizzazione dei talenti individuali, e proprio per
questo riteneva indispensabile creare condizioni più favorevoli di quelle
imposte dall'organizzazione capitalistica: non più costrittivo, il lavoro
doveva diventare «attraente». In altre parole, Fourier avanzò l'ipotesi di porre rimedio alla disumanità della civiltà dell'industria e delle grandi metropoli con l'istituzione di piccole comunità in grandi complessi di edifici sociali, residenziale e produttivamente autosufficienti, detti falansteri (in francese phalanstèr, dal greco phalanx, "gruppo", "schiera"), adatti alla vita collettiva ed eretti su un appezzamento di terreno di circa 400 ettari. Ciascuno di essi doveva essere costituito da un gruppo di 1600 persone di entrambi i sessi e di ogni condizione sociale. Tali gruppi, pienamente
autosufficienti di lavoratori liberamente associati, potevano svolgere tutte le
attività indispensabili non sulla base di una rigida divisione del lavoro imposta dall'alto, ma della libera scelta dei lavoratori stessi: ciascuno poteva scegliere il proprio lavoro in base alla sua specializzazione e alla sua inclinazione (attrazione professionale), passando periodicamente, anche nell'arco di una stessa
giornata, da un'occupazione all'altra, da quelle manuali a quelle intellettuali
e artistiche. Nel progettare i
falansteri, Fourier prese in considerazione tutti gli aspetti della vita della
comunità: dalle terre da coltivare ai laboratori e alle officine, dalle mense
comuni agli appartamenti per le famiglie dei lavoratori, con particolare
attenzione ai luoghi preposti all'educazione dei
giovani. Il lavoro di tutti, premessa indispensabile per aderire alla comunità,
sarebbe stato retribuito in base al rendimento,
ai talenti e al capitale investito, in modo da eliminare ogni forma di
espropriazione e di sfruttamento. Il lavoro "liberato" mediante
l'autogestione comunitaria di risorse ed energie avrebbe portato a un aumento
della produzione, impensabile nell'anarchia del libero mercato, e il lavoratore
sarebbe passato dalla condizione di mera sussistenza, in cui era ridotto dal
sistema salariale concorrenziale, a una di benessere e di pieno soddisfacimento
dei propri bisogni materiali e intellettuali. Le idee di Fourier restarono però sulla carta: la mancanza di mezzi finanziari gli impedì infatti di far avanzare il suo progetto.
Gli sviluppi del socialismo in Inghilterra e in Francia
Le
diverse soluzioni proposte per far fronte alle contraddizioni e alle
disuguaglianze prodotte dall'economia capitalistica convergevano su un punto:
la centralità del lavoro nella nascente società industriale. Partendo da questa
consapevolezza, i seguaci dei primi teorici del socialismo elaborarono programmi
di intervento sociale e strategie politiche da cui presero forma le varie
scuole del socialismo ottocentesco.
Sviluppando
in senso "operaistico" le idee di Owen, Thompson si fece promotore del
movimento cooperativo, incoraggiando iniziative volte a rendere i lavoratori indipendenti
dal dominio del capitale e dimostrando così, sul terreno delle realizzazioni
pratiche, il principio del diritto dei lavoratori all'intero prodotto del
lavoro. Investendo i loro risparmi nelle cooperative, per procurarsi terra,
fabbricati e macchinari indispensabili alla produzione, e reinvestendo gli
utili così ottenuti, i lavoratori si sarebbero messi nelle condizioni non solo
di entrare in concorrenza con le industrie private, ma anche di dimostrare la
praticabilità di un'organizzazione di vita comunitaria come quella auspicata da
Owen.
La
crescita del cooperativismo andò di pari passo in Inghilterra con la formazione
dei sindacati (Trade Unions),
organizzazioni di lotte tese a migliorare le condizioni di lavoro e a ottenere
salari più alti a spese del profitto dei capitalisti. Il sindacalismo operaio poté
svilupparsi a partire dal 1824, quando una dura campagna di agitazioni fuori e dentro
il Parlamento portò alla revoca delle leggi contro le coalizioni (Combination Acts), che erano state emanate tra il 1799 e il 1800 ai tempi della Rivoluzione francese per reprimere ogni forma di protesta
organizzata. Le origini cooperativistiche e sindacalistiche del movimento operaio
inglese contribuirono al maturare di quella tendenza essenzialmente pragmatica che
da allora avrebbe caratterizzato il socialismo nella patria della rivoluzione
industriale. Alla fine
del secolo un gruppo di intellettuali teorizzò una forma di socialismo finalizzata a trasformare le strutture della società capitalistica
dall'interno, per piccoli passi, attraverso una
serie graduale di riforme sempre più avanzate. Si denominarono «fabiani», alludendo alla prudente tattica militare che aveva permesso a
Quinto Fabio Massimo (soprannominato per questo cunctator, "il temporeggiatore") di salvare
Roma dalla minaccia di Annibale. Grazie
all'apporto della potente organizzazione delle Trade Unions, i fabiani
contribuirono nel 1900 alla fondazione del Partito laburista.
L'idea
delle cooperative di produzione come forme di associazione operaia in grado di
dare una risposta al conflitto tra imprenditori e operai, avviando con
iniziative dal basso la socializzazione dei mezzi di produzione, fu abbracciata
in Francia da diversi seguaci di Saint-Simon e di Fourier.
I progetti di pianificazione economica dei sansimoniani e la visione societaria
dei fourieristi avvicinarono al socialismo, tra gli altri, Louis Blanc (1811-1882). Questi
mise al centro della sua opera, L'organizzazione del lavoro (Organisation du travail, 1839), un'idea nuova, l'idea del
diritto al lavoro, destinata a suscitare larga eco tra le masse operaie e a diventare una delle
parole d'ordine della sollevazione parigina del 1848. Negato dal sistema
concorrenziale, che faceva della disoccupazione crescente lo strumento
principale dello sfruttamento capitalistico, il diritto al lavoro, "che era per lui un diritto universale di cui lo Stato doveva farsi carico" (Salvadori) veniva
rivendicato come la piena realizzazione, nella nuova realtà
industriale, dello spirito di emancipazione che aveva animato la Dichiarazione
dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Secondo Blanc, era compito dello
Stato, quale "regolatore supremo della produzione" e trasformato in senso pienamente democratico dall'adozione del suffragio universale,
- eliminare la libera concorrenza, da lui ritenuta dannosa in quanto determinava la tendenza a una continua riduzione dei salari e a un crescente impiego delle macchine con la conseguente diminuzione delle possibilità di lavoro;
- porre le condizioni per la piena occupazione e il miglioramento del sistema salariale attraverso l'istituzione di fabbriche nazionali (o sociali, ateliers sociaux), cioè cooperative di operai, a cui lo Stato stesso doveva finanziare con forti prestiti senza interessi, per lasciarne poi la gestione, una volta avviata la produzione, agli operai stessi e ai dirigenti da loro scelti. Esse rappresentavano il primo gradino di una progressiva socializzazione (cioè messa in comune) dei mezzi di produzione.
Blanqui e l'elite rivoluzionaria
Auguste Blanqui (1805-1881) era invece convinto che solo dalla violenza rivoluzionaria sarebbe nata la nuova società. Sul modello giacobino e cospiratorio già sperimentato da Babeuf e Buonarroti, egli riteneva che si dovesse selezionare un ristretto e disciplinato gruppo di rivoluzionari: le masse si sarebbero mobilitate spontaneamente e avrebbero seguito la pattuglia di avanguardia, attratte dal suo messaggio egualitario. Oltre al metodo di lotta di tipo cospirativo, ripropose il principio della "dittatura del proletariato", come fase iniziale della nuova società comunista. La nuova società, a sfondo sostanzialmente agrario, avrebbe ridistribuito equamente la terra e realizzato un rigido comunismo di beni.
Socialismo e anarchia: Proudhon
Auguste Blanqui (1805-1881) era invece convinto che solo dalla violenza rivoluzionaria sarebbe nata la nuova società. Sul modello giacobino e cospiratorio già sperimentato da Babeuf e Buonarroti, egli riteneva che si dovesse selezionare un ristretto e disciplinato gruppo di rivoluzionari: le masse si sarebbero mobilitate spontaneamente e avrebbero seguito la pattuglia di avanguardia, attratte dal suo messaggio egualitario. Oltre al metodo di lotta di tipo cospirativo, ripropose il principio della "dittatura del proletariato", come fase iniziale della nuova società comunista. La nuova società, a sfondo sostanzialmente agrario, avrebbe ridistribuito equamente la terra e realizzato un rigido comunismo di beni.
Socialismo e anarchia: Proudhon
Nettamente contrario all'intervento dello Stato fu invece Pierre-Joseph
Proudhon (1809-1865), noto come uno dei padri fondatori del socialismo
anarchico e libertario. Tra i suoi contributi più significativi vi è l'aver
rovesciato completamente il significato di una parola, "anarchia",
fino allora caratterizzata in senso spregiativo come mancanza di governo,
assenza di regole e, perciò, sinonimo di caos, trasformandola in un ideale di
emancipazione a cui si sarebbe ispirata una parte considerevole del movimento
operaio. Proudhon credeva nei principi di libertà e giustizia propugnati dalla
Rivoluzione francese, ma non riteneva che potessero essere imposti dall'alto,
dal potere politico. L'unico limite che poneva alla libertà era quello della
«reciprocità», vale a dire il riconoscimento da parte di ognuno della libertà
dell'altro. Definì «anarchia positiva» l'unica società in grado di realizzare
la libertà: «non è né libertà subordinata all'ordine, come nella monarchia
costituzionale, né libertà imprigionata nell'ordine. È libertà esente da ogni
ceppo, superstizione, pregiudizio, sofisticheria, usura, autorità: è libertà
reciproca, non libertà limitata; la libertà non è figlia ma madre dell'ordine».
Rispondendo alla domanda che dà il titolo al suo primo saggio, Che cos'è la
proprietà? (Qu'est-ce que la proprieté?, 1840), Proudhon coniò la frase che
sarebbe diventata il grido di battaglia dei socialisti: «la proprietà è un
furto». Al di là dell'aspetto propagandistico che le garantì il successo,
occorre tuttavia precisare che con quell'espressione Proudhon intendeva
condannare anzitutto il diritto proprietario che assicurava ad alcuni il
possesso delle risorse, negandolo a tutti gli altri: non, dunque, la proprietà
in sé era in discussione, ma l'appropriazione da parte dei capitalisti della
ricchezza prodotta collettivamente dal lavoro degli operai. Rifiutando nello
stesso tempo la proprietà pubblica dei mezzi di produzione auspicata dai
teorici del comunismo, Proudhon articolò la sua anarchia positiva come una
federazione di individui e gruppi autogestiti di produttori, partecipanti
ognuno per la sua parte al possesso delle risorse. Questi gruppi federati
avrebbero scambiato tra loro le merci prodotte, non sulla base dei prezzi di mercato,
determinati dalla legge concorrenziale della domanda e dell'offerta, ma secondo
il criterio stabilito dalla media del tempo di lavoro occorso per produrle.
Al «mutualismo» (questo il termine da lui
usato), basato sul libero contratto e sulla solidarietà, Proudhon affidava la
soluzione delle contraddizioni economiche della società capitalista e il superamento della sua forma statuale autoritaria. L'emancipazione economica
del mondo del lavoro avrebbe portato con sé anche la trasformazione dei
rapporti politici: la dissoluzione dello Stato nella società anarchica sarebbe
stata la conseguenza principale dell'autogestione e delle forme di organizzazione realizzate sul terreno economico. Il forte accento
antistatalistico indusse Proudhon a polemizzare sia con la concezione gerarchica del socialismo dei sansimoniani, basata sul ruolo
dirigente degli esperti, sia con Blanc, che affidava allo Stato, per quanto
trasformato in senso democratico, un ruolo centrale nella
vita economica, sia infine con il comunismo di Marx, di cui Proudhon paventava il centralismo burocratico. L'aspro confronto tra il comunismo marxista e l'anarchismo di Proudhon e del suo seguace, il russo Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876), avrebbe segnato
profondamente la storia della Prima Internazionale, l'associazione fondata a
Londra nel 1864 dai rappresentanti dei lavoratori delle
principali nazioni europee per coordinare lo sviluppo del movimento operaio. Principale bersaglio della polemica di Bakunin era il patriottismo e lo sforzo dei democratici mazziniani di anteporre alla lotta sociale quella politica per il compimento dell'unità. Proudhon ebbe una grande influenza sul movimento operaio francese, anche se le sue teorie, basate sulla difesa dell'artigianato e del piccolo possesso individuale, esprimevano piuttosto le aspirazioni e i timori della piccola borghesia minacciata dalla rivoluzione industriale che non gli interessi del proletariato di fabbrica.
Il socialismo dall'utopia alla scienza
Il
socialismo, come teoria e come programma di azione, fece le sue prime prove
durante le giornate del Quarantotto parigino: sia Blanc sia Proudhon svolsero
una parte importante nelle diverse fasi della rivoluzione parigina, che si
concluse con la repressione sanguinosa della sollevazione operaia del giugno.
Gli esiti della vicenda portarono in primo piano l'esigenza di riorganizzare le
fila del movimento operaio. Da allora il comunismo, nell'originale
rielaborazione che ne dettero Marx ed Engels, si affiancò al socialismo come
strumento di emancipazione del mondo del lavoro, fino a trasformare i due termini in sinonimi. Nel Manifesto del partito comunista (1848) i
due teorici del comunismo riconobbero la funzione svolta dagli antesignani del socialismo, ma ne individuarono al contempo i limiti nella
dimensione ideale e utopica dei loro progetti,
prospettando le vie di quello che sembrava loro dover essere il suo
superamento. Più tardi Engels, adoperando una formula che avrebbe avuto grande fortuna, presentò questo superamento come «il
passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza», dove
con "scienza" intendeva la comprensione del movimento reale
della storia, comprensione senza la quale il socialismo era destinato a restare poco più che il grido di dolore degli sfruttati.
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