venerdì 22 febbraio 2013

Il socialismo utopistico (da A. La Vergata e integrazioni da Brancati)



Il socialismo
Nel corso dei primi decenni dell’‘800, in Inghilterra vennero compiuti i primi passi verso il raggiungimento di una legislazione sociale. Erano provvedimenti ancora modesti, che non cambiarono di molto la situazione della classe operaia. D’altra parte, negli altri paesi del continente europeo la questione delle condizioni di lavoro e di vita proletaria non fu addirittura nemmeno sollevata. Di fronte alla lentezza (o alla totale indifferenza) con cui i governi davano risposta ai  problemi sociali che stavano emergendo, cominciò ad un certo momento a diffondersi tra alcuni gruppi di intellettuali democratici e radicali, specie in Francia, in Inghilterra e in Germania, la convinzione che fosse necessario un mutamento profondo della società. L’obiettivo divenne quello della costruzione di una società di tipo nuovo, che eliminasse per sempre l’ingiustizia, lo sfruttamento e la miseria. Non si trattò comunque di un’unica corrente di pensiero. Le ipotesi avanzate sui tempi e sui modi della trasformazione, così come i progetti di costruzione della nuova società, furono diversi tra loro. Tuttavia i due motivi di fondo furono l’esigenza del cambiamento e l’aspirazione a forme di egualitarismo e di comunione dei beni. Questi motivi delinearono la nascita di un nuovo pensiero politico e sociale, autonomo dal liberalismo più avanzato e dal radicalismo democratico, detto socialismo o comunismo. Le parole "socialista" e "socialismo" cominciarono a diffondersi nella pubblicistica politica negli anni Venti e Trenta dell'Ottocento, quasi contemporaneamente in Francia e in Inghilterra, i paesi che sperimentarono per primi le profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali che segnarono la nascita della moderna società industriale. In Inghilterra furono i seguaci di Robert Owen i primi a definirsi socialisti, mentre in Francia la parola fu adottata intorno alla metà del secolo da Pierre Leroux per indicare una concezione etica e politica che si opponeva all'individualismo. Se l'individualismo era la caratteristica essenziale della società borghese e capitalista, basata sui diritti dell'individuo, sulla proprietà privata e sull'economia di mercato, il socialismo si caratterizzò fin dall'inizio, oltre che per la denuncia dei mali prodotti dal capitalismo, come un progetto generale di riorganizzazione della società, in cui forme alternative di organizzazione del lavoro rendessero possibili nuove relazioni fra gli uomini basate sulla solidarietà e la cooperazione, invece che sulla competizione.
I socialisti non furono i soli a schierarsi contro l'individualismo della società borghese. Altri autori posero l'accento sugli effetti negativi prodotti dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale, che minacciavano a loro avviso di disgregare il corpo sociale; ma l'ideale di società che costoro avevano in mente era quello della società gerarchica e paternalistica dell'Antico Regime. Poiché guardavano al passato, questi autori vengono definiti "reazionari".
I socialisti si mossero nella direzione opposta. Non rifiutarono la società industriale, di cui anzi esaltarono le enormi possibilità, impensabili nella società agraria e feudale, di accrescere la ricchezza e i beni di consumo; rifiutarono le forme in cui questa veniva realizzandosi: i mali che affliggevano la società europea non derivavano dall'industrialismo in sé, ma dall'organizzazione capitalistica della nuova economia. Nella nascente società industriale vedevano una contraddizione di fondo: un accrescimento di ricchezze senza precedenti si accompagnava con il progressivo impoverimento di masse sempre più vaste. Nel denunciare i mali del presente (le gravissime ingiustizie, la pratica dello sfruttamento, la ricchezza sfacciata della borghesia e la miseria degradante del proletariato), i socialisti prefigurarono, disegnando a tavolino, una società futura in cui i benefici dell'industria andassero a vantaggio dell'intera comunità. Di qui il nome di "socialisti utopisti", coniato per loro da Marx ed Engels, con cui comunemente vengono indicati. La consapevolezza che l'industria stesse aprendo un'epoca nuova della storia distingue i primi socialisti anche dalle forme di comunismo che si erano presentate nella cultura occidentale, dalla Repubblica di Platone in poi: queste guardavano al mito dell'età dell'oro, in cui si viveva in perfetta comunione dei beni, prima che l'istituzione della proprietà privata rompesse i legami di solidarietà tra gli uomini e la concordia sociale. I socialisti scelsero invece di confrontarsi con i temi dell'organizzazione del lavoro e dell'industrialismo, ponendo all'ordine del giorno la "questione sociale". Quando, intorno alla metà dell'Ottocento, il comunismo, come forma radicale di mutamento della società, fece la sua ricomparsa in Europa riproponendo l'abolizione della proprietà privata, ciò avvenne in un contesto completamente trasformato.

Owen, i socialisti ricardiani e il cooperativismo
Alle origini del socialismo in Inghilterra, la patria della rivoluzione industriale, c'è un'originale figura di imprenditore e di riformatore che le circostanze della vita avevano posto nella condizione migliore per interpretare quanto stava accadendo. Prima di diventare proprietario della filanda di New Lanarck, che sarebbe divenuta la sede principale dei suoi esperimenti sociali, Robert Owen (l771-1858) aveva lavorato come impiegato nell'industria tessile, vale a dire proprio in quella branca dell'attività economica da cui aveva preso avvio la rivoluzione industriale. Aveva così avuto modo di conoscere direttamente le drammatiche condizioni di vita di una nuova figura di lavoratore: l'operaio. Questa esperienza lo aveva convinto della profonda ingiustizia di un sistema che legava l'accrescimento della ricchezza nazionale allo sfruttamento dei nuovi poveri: individui privati della terra e degli strumenti di lavoro dall'accumulazione capitalistica e costretti per sopravvivere a piegarsi ai ritmi massacranti del regime di fabbrica. L'economia politica aveva individuato in quella realtà il perno del modo di produzione industriale, e la morale corrente la giustificava in base al presupposto che ciascuno è responsabile del proprio destino: pertanto i poveri non dovevano ad altri che a se stessi, alla loro mancanza di iniziativa e di forza di carattere, la condizione di indigenza in cui si trovavano.
A questa concezione, che assolveva l'egoismo degli imprenditori da ogni responsabilità per i mali della condizione operaia, Owen ne contrappose un'altra, ricavata, nel corso della sua formazione di autodidatta, dagli scritti di un autore di ispirazione libertaria e fortemente critico della società del tempo, William Godwin (1756-1836). Negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento questi aveva sfidato l’opinione prevalente nell’establishmant inglese, schierato contro la Rivoluzione francese, rilanciando tesi maturate oltremanica nell'ambito dell'Illuminismo: il carattere degli uomini non dipende dalla volontà degli individui, ma è plasmato dalle circostanze esterne, la più potente delle quali è l'organizzazione sociale. Più tardi John Stuart Mill avrebbe criticato la teoria oweniana sulla formazione del carattere, in quanto, a suo avviso, tendeva a escludere la responsabilità dell'individuo; ma Owen non si preoccupava tanto degli aspetti filosofici del problema della libertà, quanto di denunciare come i mali che si accompagnano sempre alla povertà, e che allora affliggevano in particolare le masse dei lavoratori, andassero addebitati all'egoismo dei suoi "colleghi" imprenditori e alle classi dirigenti in genere. Alla base della triste condizione dei poveri c'era una visione della società che Owen definiva profondamente «immorale», perché fondata sulla concorrenza sfrenata e sull’avidità di guadagno.
Forte delle sue convinzioni, Owen fece del suo opificio di New Lanarck una comunità in cui sperimentare una nuova organizzazione industriale, migliorando le condizioni di lavoro, garantendo salari adeguati, riducendo gli orari di lavoro e, soprattutto, sottraendo i minori al lavoro di fabbrica e offrendo loro opportunità di istruzione. Con questo utopistico laboratorio sociale si cercò di rimuovere gli aspetti degradanti della condizione operaia, come l'alcolismo, la criminalità, la prostituzione. Non c'era nulla di rivoluzionario in tutto ciò, né Owen intese mai appellarsi alla lotta di classe: il suo scopo era quello di dimostrare che un'organizzazione diversa del lavoro non era affatto incompatibile con la produttività dell'impresa, anzi tendeva ad accrescere la ricchezza nazionale. Credeva che l'esempio di New Lanarck potesse riproporsi in istituzioni analoghe, da lui denominate «Villaggi della cooperazione», fino a modificare sostanzialmente lo stato di cose esistente. La sua utopia mirava all'avvento di un «nuovo mondo morale», affidato a criteri di giustizia e alle capacità rigeneratrici dell'educazione.
Se l'aspirazione a una rifondazione etica della società caratterizzava in senso filantropico la concezione di Owen, un altro aspetto della sua riflessione andava in senso più propriamente socialista. La nuova economia poneva il lavoro come fonte principale di ricchezza: se questo era vero, allora il senso di giustizia avrebbe voluto che la ricchezza prodotta dal lavoro fosse ridistribuita più equamente tra i possessori di capitale e i lavoratori. I lavoratori producevano molto più di quello che era loro necessario per vivere; e se erano ridotti in condizioni di povertà ciò dipendeva dal sistema della concorrenza, che accresceva sempre più la differenza tra quello che l'operaio produceva e il salario che riceveva.
Partendo da premesse analoghe, altri autori giunsero a sostenere il diritto dei lavoratori all'intero prodotto del lavoro, e lo fecero sviluppando in senso decisamente anticapitalistico le tesi di David Ricardo (1772-1823), il più autorevole esponente dell'economia politica classica; perciò questi autori vengono definiti socialisti ricardiani. Nei suoi Principi di economia politica (Principles qf Political Econorny, 1817), Ricardo, per descrivere i meccanismi della nuova economia di mercato, aveva ripreso una tesi prefigurata a suo tempo da Locke e sviluppata in seguito da Adam Smith (1723-1790), secondo la quale il lavoro è la fonte e l'unità di misura del valore, e aveva aggiunto che nel processo produttivo, oltre al lavoro, rientrava tra i fattori determinanti anche il capitale, frutto a sua volta di lavoro precedente. Per fissare il valore delle merci occorreva, secondo Ricardo, tener conto non solo del lavoro direttamente impiegato dagli operai per produrle, ma anche del lavoro accumulato, ossia il capitale, grazie al quale i capitalisti mettevano a disposizione gli strumenti della produzione e i mezzi di sostentamento degli operai. Il profitto era la ricompensa che i capitalisti ottenevano per la funzione da loro svolta nella produzione. Per autori come Thomas Hodgskin (1787-1869) e William Thompson (1785-1833), i maggiori rappresentanti del socialismo ricardiano, le conclusioni raggiunte da Ricardo potevano reggere solo accettando il presupposto della proprietà privata dei mezzi di produzione su cui si basava la società capitalistica. Proprio la teoria ricardiana stava a dimostrare il carattere improduttivo del capitale, capace di trasferire valore, ma non di crearlo. Se il lavoro era la fonte del valore, il profitto del capitalista non era altro che lavoro operaio non pagato, di cui il capitalista si appropriava non per la funzione da lui svolta nel processo produttivo, ma grazie alla sua posizione sociale dominante. Una nuova aristocrazia, quella dei capitalisti, si affiancava così alla vecchia aristocrazia terriera per negare agli operai il diritto al prodotto del loro lavoro.

Il socialismo in Francia

Le origini: Babeuf
La situazione francese, al passaggio del secolo, presentava caratteristiche diverse da quelle dell'Inghilterra. L'industrializzazione, che stava rapidamente cambiando la società inglese, era ancora di là da venire, ma gli sconvolgimenti prodotti dalla Rivoluzione e, soprattutto, l'aspirazione all'uguaglianza che i principi del 1789 portavano con sé suscitarono fermenti destinati ad andare ben oltre i confini della nascente società borghese. Di questi fermenti si fecero portavoce l’abate e filosofo Ètienne-Gabriel Morelly (di cui si ignorano i dati biografici) e il giornalista originario della Piccardia, François-Noel Babeuf (1760-1797). 
Il primo prospetto nel Codice della natura (1755) una società integralmente comunista, fondata
Ø  sull’eliminazione della proprietà privata,
Ø  sulla totale comunanza di beni,
Ø  sull’obbligatorietà del lavoro da assegnare in base alle possibilità fisiche di ciascuno,
Ø  sul mantenimento di tutti i cittadini a spese del tesoro comune sulla base delle oggettive necessità di ogni individuo.
Con Babeuf, l’utopia socialista fece un salto di qualità. Già militante giacobino, alla caduta di Robespierre e all'avvento del governo moderato del Direttorio tentò, con la cosiddetta congiura degli Eguali (maggio 1796), di rilanciare e portare alle conseguenze estreme gli ideali egualitari della Rivoluzione, realizzando compiutamente l'uguaglianza sociale, senza la quale l'uguaglianza politica restava un'illusione. Il suo anarchismo si fondava sul netto rifiuto di ogni principio di autorità e di organizzazione statale presente e futura, in quanto intravedeva proprio nelle strutture statali accentratrici l'origine di ogni oppressione e ingiustizia sociale. Babeuf è annoverato tra gli antesignani del socialismo, ma sarebbe più corretto dire del comunismo, perché, nella società a cui avrebbe dovuto dar vita la congiura, l'ideale giacobino di una ripartizione equa della proprietà lasciava il posto alla soppressione della proprietà in ogni sua forma, all'instaurazione della comunione dei beni e al godimento comune dei frutti della terra. Con Babeuf ci fu per la prima volta un tentativo concreto di trasferire l’utopia del terreno intellettuale e ideale a quello politico. L'orizzonte del progetto rivoluzionario degli Eguali era quello della vecchia società agraria e artigianale, e il linguaggio di cui si servirono era ancora quello del comunismo preindustriale, vagheggiato in alcune utopie dell'epoca dei Lumi: Babeuf non parla di operai e capitalisti, ma di ricchi e poveri, patrizi e plebei, e riesuma per sé dalla storia della repubblica romana il nome di battaglia di Gracco (Gracchus), il «tribuno del popolo» che si batté contro l'oppressione dei plebei da parte del patriziato. in coerenza col suo pensiero, egli individua nelle masse agricole affamate, estranee a ogni forma di politicizzazione e lontane dal patriottismo, il vero interlocutore del programma rivoluzionario. Per realizzare la nuova società Babeuf, fedele al modello giacobino, confidò nell’azione di una minoranza di cospiratori, interpreti della causa del popolo, pronti ad assumere in suo nome il potere e a instaurare, nella fase di transizione, una dittatura rivoluzionaria destinata ad annullare le disuguaglianze. La congiura fallì, e Babeuf finì sulla ghigliottina, ma quella esperienza fu descritta da un suo seguace, l'italiano Filippo Buonarroti (1761-1837), in un celebre saggio intitolato Cospirazione per l'eguaglianza detta di Babeuf (Conspiration pour l'Égalité dite de Babeuf, 1828). In tal modo venne trasmesso all'Ottocento il messaggio di Babeuf, e non pochi studiosi vi hanno visto il luogo di nascita di un modello che si sarebbe riproposto in seguito, in contesti assai diversi, nella Comune di Parigi (1871) e nelle teorizzazioni di Marx e di Lenin sulla rivoluzione comunista: il modello della presa del potere da parte di una minoranza rivoluzionaria e della dittatura del proletariato. 

Industrialismo e socialismo: Saint-Simon 
Dalla Rivoluzione aveva tratto un insegnamento diametralmente opposto un altro autore francese, passato anche lui attraverso le varie fasi di quella vicenda, ClaudeHenri Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825). Pur se discendente da una famiglia di antica nobiltà, anche Saint-Simon era pronto a riconoscere il carattere epocale della Rivoluzione francese, ma di quel processo sottolineò soprattutto il carattere distruttivo, il fatto cioè che la rivoluzione aveva posto fine per sempre all'Antico Regime e all'organizzazione sociale che l'aveva caratterizzato. Tutto quello che la Rivoluzione doveva fare, l'aveva fatto: si trattava ora di ricostruire.
Operando nell'età della Restaurazione, Saint-Simon comprese con acuto senso storico che era impossibile riportare in vita le vecchie istituzioni: il compito che si prospettava alle nuove classi dirigenti era invece quello di favorire l'avvento della nuova organizzazione sociale basata sull'industria e sui commerci, che in Francia aveva cominciato a muovere i primi passi sotto Napoleone. Il suo pensiero si basava sulla totale fiducia nella scienza e nella tecnica, ritenute fonti primarie di progresso sociale. L'esempio da seguire era quello dell'Inghilterra, che aveva vinto il confronto con la Francia rivoluzionaria e napoleonica anche grazie alla superiorità del suo apparato produttivo. Saint-Simon conosceva le opere dell'economista francese Jean-Baptiste Say (1767-1832), che all'inizio dell'Ottocento aveva contribuito a diffondere in Francia le teorie economiche di Adam Smith; da lui Saint-Simon aveva imparato che l'elemento fondamentale che distingueva la nuova società da quelle del passato era costituito dal lavoro e dalla produzione industriale. In particolare, il lavoro doveva essere di tutti per tutti, senza azzerare le differenze tra i ruoli, ma questi dovevano essere determinati secondo le capacità e l'impegno di ciascuno. La formula doveva essere: "A ciascuno secondo le sue capacità, a ogni capacità secondo il lavoro compito". Lavoro e capacità si sarebbero espressi solo con lo sviluppo dell'industria, considerata la "fonte unica di tutte le ricchezze e di tutte le proprietà".  
È difficile dire quanto ci fosse di socialista nella visione di Saint-Simon. Anche secondo lui si era in presenza di un conflitto che divideva la società in due gruppi contrapposti, ma non si trattava più dei ricchi contro i poveri, di cui aveva parlato Babeuf, né si trattava ancora del conflitto tra capitalisti e lavoratori, di cui cominciavano a parlare i primi socialisti inglesi. Per Saint-Simon la società si divideva in «oziosi» e «produttori», i «calabroni» e le «api», di cui parlò in una famosa parabola. I calabroni erano i ceti parassitari della vecchia aristocrazia feudale, in cerca di riscatto sotto la Restaurazione; le api rappresentavano tutti coloro che erano impegnati nel mondo della produzione: industriali, tecnici, scienziati, intellettuali, lavoratori. La cooperazione tra queste forze, resa indispensabile dall'obiettivo comune della produzione, costituiva il modello per riorganizzare organicamente la società dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione. Il conflitto dunque non si situava per Saint-Simon all'interno della nascente società industriale, ma tra questa e quanto restava ancora del vecchio ordine. Saint-Simon riteneva che il governo dei politici, non adeguato alla nuova società, dovesse essere sostituito da un governo di scienziati e industriali, animati da un nuovo spirito di fratellanza, in grado di garantire benessere a tutta la società, al di là della miope ricerca del puro utile individuale. Con l'ascesa al potere dei settori più avanzati del ceto produttivo e l'instaurazione dell'ordine industriale, l'antagonismo del passato avrebbe lasciato il posto a una nuova forma di solidarietà, da cui avrebbe tratto vantaggio soprattutto quella che egli definiva «la classe più numerosa e più povera». Il segreto era riuscire a stabilire una stretta collaborazione tra capitale e lavoro all’interno di una nuova società in cui l’interesse sociale doveva prevalere su quello individuale in vista di un’organizzazione scientifica del lavoro e di un miglioramento delle condizioni delle classi meno abbienti. Il riferimento alle condizioni della «classe più numerosa e più povera» si fece sempre più insistente nei suoi ultimi scritti, quando Saint-Simon dovette constatare che la Francia non era l'Inghilterra e l'invito alle classi dirigenti affinché adottassero la nuova filosofia industriale era sostanzialmente caduto nel vuoto. Riformulò la sua visione della società in termini più accessibili alla mentalità corrente, facendo leva sui sentimenti e arricchendola di significati etici e religiosi. Parlò di un Nuovo cristianesimo (Nouveau Christianisme, 1825) come di una forma di religione liberata da ogni incrostazione dogmatica e incentrata sull'autentico comandamento del cristianesimo delle origini: «Dio ha detto: Gli uomini devono comportarsi come fratelli gli uni verso gli altri». Quella regola di condotta imponeva che la società fosse organizzata in modo da risultare la più vantaggiosa per il maggior numero, migliorando «nel modo più rapido e più completo possibile l'esistenza fisica e morale della classe più numerosa». L'aspetto cooperativistico e solidaristico dell'organizzazione industriale diventava così un vero e proprio imperativo etico, che la nuova religione aveva il compito di diffondere. Dietro l'appello religioso del nuovo cristianesimo si può leggere la crescente consapevolezza che anche le nuove relazioni industriali, se non ispirate moralmente, potevano comportare una forma di sfruttamento dei più deboli. Proprio in questa direzione alcuni dei seguaci di Saint-Simon svilupparono l'insegnamento del maestro dopo la sua morte. Se per Saint-Simon il contrasto fondamentale era tra società industriale e società feudale, per i sansimoniani l'antagonismo si trasferiva all’interno del nuovo sistema industriale, e il rapporto tra capitalista e lavoratore era individuato come la nuova forma di sfruttamento. Uno sfruttamento esercitato sui lavoratori dal capitalista ozioso e parassita, grazie alla posizione di privilegio di cui godeva nella società: anche il capitalista, non meno dei proprietari terrieri, poteva rientrare dunque nella categoria dei «calabroni». L'istituto su cui si fondava questa forma di sfruttamento era, per i seguaci di Saint-Simon, quello della proprietà ereditaria: non erano contrari alla proprietà privata, ma si espressero contro ogni proprietà che non derivasse direttamente dal lavoro. Per questo auspicarono nei loro scritti l'avocazione delle ricchezze ereditarie allo Stato, affinché potessero essere impiegate dai nuovi ceti dirigenti nei lavori utili alla società e allo sviluppo industriale. Il futuro della nascente società industriale era troppo importante perché venisse lasciato al capriccio dell'iniziativa individuale e alla logica liberistica del laissez-faire. Solo facendo del capitalista un lavoratore come gli altri organicamente inserito nel processo produttivo, si poteva evitare il riproporsi di quell'antagonismo che aveva caratterizzato le precedenti epoche storiche, e dar vita a una società basata sull'associazione e sulla solidarietà. 

Fourier e la rivalutazione delle passioni
La critica della società borghese, così come si veniva configurando in seguito alla rivoluzione industriale e alla Rivoluzione francese, è il tratto che caratterizzava l’opera di un altro riformatore sociale francese, considerato tra gli antesignani del socialismo, Charles Fourier (1772-1837). Autodidatta, Fourier trasse ispirazione dalla legge newtoniana della gravitazione per teorizzare una ricomposizione della società in base alla «forza attrattiva» esercitata dalle passioni. Le passioni e i desideri rappresentano la natura autentica dell'uomo, la quale tende di per sé «alla concordia e all'unità sociale». Ma la nuova civiltà borghese, attraverso la coercizione sociale e l'organizzazione del lavoro, mira a reprimere le passioni, imprimendo un corso «artificiale» ai rapporti tra gli uomini: è un «mondo alla rovescia», in cui il lavoro è trasformato in un'attività noiosa e alienante mentre la concorrenza tra individui e gruppi sociali impedisce ai lavoratori di partecipare ai benefici. I rimedi per uscire dal «caos» in cui versava la società erano gli stessi a cui faceva riferimento Saint-Simon ed erano gli elementi che caratterizzavano la modernità: il lavoro e l'industria, le scienze, il perfezionamento delle tecniche e delle arti. Ma, a differenza di Saint-Simon, Fourier non credeva che la trasformazione dovesse essere promossa dall'iniziativa di un'élite di industriali, scienziati e intellettuali che riordinasse la società dall'alto: odiava le organizzazioni gerarchiche, credeva nella libertà e nell'irriducibile diversità degli individui.
Neppure lui credeva nelle virtù taumaturgiche di una rivoluzione, ma era anche convinto che la confisca della proprietà ereditaria, auspicata dai sansimoniani in vista di una produzione più razionale e centralizzata, fosse qualcosa da evitare, in quanto andava contro un desiderio radicato nella natura umana. L'unica possibilità di ricreare l'armonia perduta, costruendo una nuova «associazione», stava nel lasciare libero corso ai desideri e alle vocazioni individuali, facendo sì che le passioni ritrovassero la loro espressione «naturale».
Non diversamente dagli altri teorici del socialismo nascente, Fourier era consapevole del ruolo centrale esercitato dal lavoro nella nuova economia e nella produzione della ricchezza. Era anche convinto che il lavoro fosse lo strumento principale di realizzazione dei talenti individuali, e proprio per questo riteneva indispensabile creare condizioni più favorevoli di quelle imposte dall'organizzazione capitalistica: non più costrittivo, il lavoro doveva diventare «attraente». In altre parole, Fourier avanzò l'ipotesi di porre rimedio alla disumanità della civiltà dell'industria e delle grandi metropoli con l'istituzione di piccole comunità in grandi complessi di edifici sociali, residenziale e produttivamente autosufficienti, detti falansteri (in francese phalanstèr, dal greco phalanx, "gruppo", "schiera"), adatti alla vita collettiva ed eretti su un appezzamento di terreno di circa 400 ettari. Ciascuno di essi doveva essere costituito da un gruppo di 1600 persone di entrambi i sessi e di ogni condizione sociale.  Tali gruppi, pienamente autosufficienti di lavoratori liberamente associati, potevano svolgere tutte le attività indispensabili non sulla base di una rigida divisione del lavoro imposta dall'alto, ma della libera scelta dei lavoratori stessi: ciascuno poteva scegliere il proprio lavoro in base alla sua specializzazione e alla sua inclinazione (attrazione professionale), passando periodicamente, anche nell'arco di una stessa giornata, da un'occupazione all'altra, da quelle manuali a quelle intellettuali e artistiche. Nel progettare i falansteri, Fourier prese in considerazione tutti gli aspetti della vita della comunità: dalle terre da coltivare ai laboratori e alle officine, dalle mense comuni agli appartamenti per le famiglie dei lavoratori, con particolare attenzione ai luoghi preposti all'educazione dei giovani. Il lavoro di tutti, premessa indispensabile per aderire alla comunità, sarebbe stato retribuito in base al rendimento, ai talenti e al capitale investito, in modo da eliminare ogni forma di espropriazione e di sfruttamento. Il lavoro "liberato" mediante l'autogestione comunitaria di risorse ed energie avrebbe portato a un aumento della produzione, impensabile nell'anarchia del libero mercato, e il lavoratore sarebbe passato dalla condizione di mera sussistenza, in cui era ridotto dal sistema salariale concorrenziale, a una di benessere e di pieno soddisfacimento dei propri bisogni materiali e intellettuali. Le idee di Fourier restarono però sulla carta: la mancanza di mezzi finanziari gli impedì infatti di far avanzare il suo progetto.


Gli sviluppi del socialismo in Inghilterra e in Francia
Le diverse soluzioni proposte per far fronte alle contraddizioni e alle disuguaglianze prodotte dall'economia capitalistica convergevano su un punto: la centralità del lavoro nella nascente società industriale. Partendo da questa consapevolezza, i seguaci dei primi teorici del socialismo elaborarono programmi di intervento sociale e strategie politiche da cui presero forma le varie scuole del socialismo ottocentesco.
Sviluppando in senso "operaistico" le idee di Owen, Thompson si fece promotore del movimento cooperativo, incoraggiando iniziative volte a rendere i lavoratori indipendenti dal dominio del capitale e dimostrando così, sul terreno delle realizzazioni pratiche, il principio del diritto dei lavoratori all'intero prodotto del lavoro. Investendo i loro risparmi nelle cooperative, per procurarsi terra, fabbricati e macchinari indispensabili alla produzione, e reinvestendo gli utili così ottenuti, i lavoratori si sarebbero messi nelle condizioni non solo di entrare in concorrenza con le industrie private, ma anche di dimostrare la praticabilità di un'organizzazione di vita comunitaria come quella auspicata da Owen.
La crescita del cooperativismo andò di pari passo in Inghilterra con la formazione dei sindacati (Trade Unions), organizzazioni di lotte tese a migliorare le condizioni di lavoro e a ottenere salari più alti a spese del profitto dei capitalisti. Il sindacalismo operaio poté svilupparsi a partire dal 1824, quando una dura campagna di agitazioni fuori e dentro il Parlamento portò alla revoca delle leggi contro le coalizioni (Combination Acts), che erano state emanate tra il 1799 e il 1800 ai tempi della Rivoluzione francese per reprimere ogni forma di protesta organizzata. Le origini cooperativistiche e sindacalistiche del movimento operaio inglese contribuirono al maturare di quella tendenza essenzialmente pragmatica che da allora avrebbe caratterizzato il socialismo nella patria della rivoluzione industriale. Alla fine del secolo un gruppo di intellettuali teorizzò una forma di socialismo finalizzata a trasformare le strutture della società capitalistica dall'interno, per piccoli passi, attraverso una serie graduale di riforme sempre più avanzate. Si denominarono «fabiani», alludendo alla prudente tattica militare che aveva permesso a Quinto Fabio Massimo (soprannominato per questo cunctator, "il temporeggiatore") di salvare Roma dalla minaccia di Annibale. Grazie all'apporto della potente organizzazione delle Trade Unions, i fabiani contribuirono nel 1900 alla fondazione del Partito laburista.
L'idea delle cooperative di produzione come forme di associazione operaia in grado di dare una risposta al conflitto tra imprenditori e operai, avviando con iniziative dal basso la socializzazione dei mezzi di produzione, fu abbracciata in Francia da diversi seguaci di Saint-Simon e di Fourier.
I progetti di pianificazione economica dei sansimoniani e la visione societaria dei fourieristi avvicinarono al socialismo, tra gli altri, Louis Blanc (1811-1882). Questi mise al centro della sua opera, L'organizzazione del lavoro (Organisation du travail, 1839), un'idea nuova, l'idea del diritto al lavoro, destinata a suscitare larga eco tra le masse operaie e a diventare una delle parole d'ordine della sollevazione parigina del 1848. Negato dal sistema concorrenziale, che faceva della disoccupazione crescente lo strumento principale dello sfruttamento capitalistico, il diritto al lavoro, "che era per lui un diritto universale di cui lo Stato doveva farsi carico" (Salvadori) veniva rivendicato come la piena realizzazione, nella nuova realtà industriale, dello spirito di emancipazione che aveva animato la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Secondo Blanc, era compito dello Stato, quale "regolatore supremo della produzione" e trasformato in senso pienamente democratico dall'adozione del suffragio universale, 

  • eliminare la libera concorrenza, da lui ritenuta dannosa in quanto determinava la tendenza a una continua riduzione dei salari e a un crescente impiego delle macchine con la conseguente diminuzione delle possibilità di lavoro;
  • porre le condizioni per la piena occupazione e il miglioramento del sistema salariale attraverso l'istituzione di fabbriche nazionali (o sociali, ateliers sociaux), cioè cooperative di operai, a cui lo Stato stesso doveva finanziare con forti prestiti senza interessi, per lasciarne poi la gestione, una volta avviata la produzione, agli operai stessi e ai dirigenti da loro scelti. Esse rappresentavano il primo gradino di una progressiva socializzazione (cioè messa in comune) dei mezzi di produzione. 
Gli ateliers avrebbero potuto così acquistare macchinari e materie prime come gli industriali privati. Blanc prevedeva per queste fabbriche forti profitti che avrebbero permesso agli operai di aumentare i salari partecipando agli utili: in tal modo essi sarebbero stati stimolati a un maggiore impegno nel lavoro, mentre le loro condizioni di vita sarebbero notevolmente migliorate. Questo modo di affidare allo Stato una funzione determinante nell'affrancamento del lavoro dallo sfruttamento capitalistico ha fatto individuare in Blanc uno dei precursori del  socialismo democratico moderno.
Blanqui e l'elite rivoluzionaria
Auguste Blanqui (1805-1881) era invece convinto che solo dalla violenza rivoluzionaria sarebbe nata la nuova società. Sul modello giacobino e cospiratorio già sperimentato da Babeuf e Buonarroti, egli riteneva che si dovesse selezionare un ristretto e disciplinato gruppo di rivoluzionari: le masse si sarebbero mobilitate spontaneamente e avrebbero seguito la pattuglia di avanguardia, attratte dal suo messaggio egualitario. Oltre al metodo di lotta di tipo cospirativo, ripropose il principio della "dittatura del proletariato", come fase iniziale della nuova società comunista. La nuova società, a sfondo sostanzialmente agrario, avrebbe ridistribuito equamente la terra e realizzato un rigido comunismo di beni.

Socialismo e anarchia: Proudhon 
Nettamente contrario all'intervento dello Stato fu invece Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), noto come uno dei padri fondatori del socialismo anarchico e libertario. Tra i suoi contributi più significativi vi è l'aver rovesciato completamente il significato di una parola, "anarchia", fino allora caratterizzata in senso spregiativo come mancanza di governo, assenza di regole e, perciò, sinonimo di caos, trasformandola in un ideale di emancipazione a cui si sarebbe ispirata una parte considerevole del movimento operaio. Proudhon credeva nei principi di libertà e giustizia propugnati dalla Rivoluzione francese, ma non riteneva che potessero essere imposti dall'alto, dal potere politico. L'unico limite che poneva alla libertà era quello della «reciprocità», vale a dire il riconoscimento da parte di ognuno della libertà dell'altro. Definì «anarchia positiva» l'unica società in grado di realizzare la libertà: «non è né libertà subordinata all'ordine, come nella monarchia costituzionale, né libertà imprigionata nell'ordine. È libertà esente da ogni ceppo, superstizione, pregiudizio, sofisticheria, usura, autorità: è libertà reciproca, non libertà limitata; la libertà non è figlia ma madre dell'ordine».
Rispondendo alla domanda che dà il titolo al suo primo saggio, Che cos'è la proprietà?  (Qu'est-ce que la proprieté?, 1840), Proudhon coniò la frase che sarebbe diventata il grido di battaglia dei socialisti: «la proprietà è un furto». Al di là dell'aspetto propagandistico che le garantì il successo, occorre tuttavia precisare che con quell'espressione Proudhon intendeva condannare anzitutto il diritto proprietario che assicurava ad alcuni il possesso delle risorse, negandolo a tutti gli altri: non, dunque, la proprietà in sé era in discussione, ma l'appropriazione da parte dei capitalisti della ricchezza prodotta collettivamente dal lavoro degli operai. Rifiutando nello stesso tempo la proprietà pubblica dei mezzi di produzione auspicata dai teorici del comunismo, Proudhon articolò la sua anarchia positiva come una federazione di individui e gruppi autogestiti di produttori, partecipanti ognuno per la sua parte al possesso delle risorse. Questi gruppi federati avrebbero scambiato tra loro le merci prodotte, non sulla base dei prezzi di mercato, determinati dalla legge concorrenziale della domanda e dell'offerta, ma secondo il criterio stabilito dalla media del tempo di lavoro occorso per produrle.
Al «mutualismo» (questo il termine da lui usato), basato sul libero contratto e sulla solidarietà, Proudhon affidava la soluzione delle contraddizioni economiche della società capitalista e il superamento della sua forma statuale autoritaria. L'emancipazione economica del mondo del lavoro avrebbe portato con sé anche la trasformazione dei rapporti politici: la dissoluzione dello Stato nella società anarchica sarebbe stata la conseguenza principale dell'autogestione e delle forme di organizzazione realizzate sul terreno economico. Il forte accento antistatalistico indusse Proudhon a polemizzare sia con la concezione gerarchica del socialismo dei sansimoniani, basata sul ruolo dirigente degli esperti, sia con Blanc, che affidava allo Stato, per quanto trasformato in senso democratico, un ruolo centrale nella vita economica, sia infine con il comunismo di Marx, di cui Proudhon paventava il centralismo burocratico. L'aspro confronto tra il comunismo marxista e l'anarchismo di Proudhon e del suo seguace, il russo Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876), avrebbe segnato profondamente la storia della Prima Internazionale, l'associazione fondata a Londra nel 1864 dai rappresentanti dei lavoratori delle principali nazioni europee per coordinare lo sviluppo del movimento operaio. Principale bersaglio della polemica di Bakunin era il patriottismo e lo sforzo dei democratici mazziniani di anteporre alla lotta sociale quella politica per il compimento dell'unità. Proudhon ebbe una grande influenza sul movimento operaio francese, anche se le sue teorie, basate sulla difesa dell'artigianato e del piccolo possesso individuale, esprimevano piuttosto le aspirazioni e i timori della piccola borghesia minacciata dalla rivoluzione industriale che non gli interessi del proletariato di fabbrica.


Il socialismo dall'utopia alla scienza
Il socialismo, come teoria e come programma di azione, fece le sue prime prove durante le giornate del Quarantotto parigino: sia Blanc sia Proudhon svolsero una parte importante nelle diverse fasi della rivoluzione parigina, che si concluse con la repressione sanguinosa della sollevazione operaia del giugno. Gli esiti della vicenda portarono in primo piano l'esigenza di riorganizzare le fila del movimento operaio. Da allora il comunismo, nell'originale rielaborazione che ne dettero Marx ed Engels, si affiancò al socialismo come strumento di emancipazione del mondo del lavoro, fino a trasformare i due termini in sinonimi. Nel Manifesto del partito comunista (1848) i due teorici del comunismo riconobbero la funzione svolta dagli antesignani del socialismo, ma ne individuarono al contempo i limiti nella dimensione ideale e utopica dei loro progetti, prospettando le vie di quello che sembrava loro dover essere il suo superamento. Più tardi Engels, adoperando una formula che avrebbe avuto grande fortuna, presentò questo superamento come «il passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza», dove con "scienza" intendeva la comprensione del movimento reale della storia, comprensione senza la quale il socialismo era destinato a restare poco più che il grido di dolore degli sfruttati.

lunedì 11 febbraio 2013

Riforma protestante e Riforma cattolica (da A. La Vergata)


Riforma protestante e Riforma cattolica
Non solo umanisti come Erasmo, ma anche teologi, laici devoti, settori del clero e degli ordini religiosi denunciavano, soprattutto nell'Europa settentrionale, la corruzione e l'inadeguatezza culturale del clero, l'ignoranza religiosa e la superstizione del popolo, l'intreccio tra ministero episcopale, interessi politici ed economici. Il Papato era bersaglio di critiche per il suo stile di vita mondano e raffinato, privo di scrupoli in politica e disimpegnato sul terreno religioso. Molti chiedevano una profonda riforma sia nella gerarchia sia nel popolo cristiano. La mancata risposta a questi appelli diede carattere esplosivo alla Riforma protestante.
La Riforma protestante è l'insieme delle vicende che, nella prima metà del Cinquecento, condusse alla divisione della cristianità occidentale. L'Europa settentrionale aderì al protestantesimo, soprattutto nelle confessioni luterana e calvinista, mentre l'Europa meridionale restò in prevalenza cattolica. La Riforma tentò di restituire al cristianesimo la purezza delle origini: lo fece ponendo la Bibbia come fondamento esclusivo di un nuovo modo di intendere la fede.
La Controriforma è la reazione cattolica alla minaccia protestante. Consistette sia in un insieme di misure repressive, sia in una più rigorosa definizione della dottrina e della disciplina della Chiesa. La Chiesa di Roma, respingendo il riferimento esclusivo alle Scritture tipico dei protestanti, riaffermò il ruolo della «Tradizione» e della gerarchia ecclesiastica. L'espressione "Riforma cattolica" indica il rinnovamento interno (non riducibile alla lotta antiprotestante) della Chiesa cattolica in quel periodo.
La separazione tra cattolici e protestanti ha segnato profondamente la cultura e la storia del nostro continente e, di riflesso, del mondo intero. Solo negli ultimi decenni, grazie al movimento ecumenico, la Chiesa cattolica e le Chiese nate dalla Riforma hanno ripreso il dialogo e ritrovato un certo grado di accordo teologico.

Lutero
Protagonista della prima fase della Riforma fu il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero (Martin Luther, 1483-1546). Solo la fede, secondo Lutero, può rendere l'uomo giusto agli occhi di Dio, consentendogli di giungere alla salvezza. Il contenuto fondamentale della fede è l'annuncio centrale del Nuovo Testamento: Gesù, il Figlio di Dio, è morto e risorto per espiare i nostri peccati. Chi crede questo è giusto e salvo. A "giustificare", cioè a rendere giusti, non sono le opere, neppure le penitenze straordinarie (digiuni, veglie, mortificazioni corporali) dei monaci. Dio solo può farlo, mediante la grazia (dal latino gratis, che indica un dono concesso senza nulla in cambio), ovvero il Suo agire misericordioso. La giustificazione mediante la fede proposta da Lutero intendeva riaffermare la centralità della grazia, secondo la prospettiva originaria del Nuovo Testamento.
Il 31 ottobre 1517 Lutero affisse a Wittenberg le celebri 95 tesi «sull'efficacia delle indulgenze». La gerarchia ecclesiastica aveva la facoltà di usare il cosiddetto "tesoro della Chiesa" (i meriti di Cristo e dei santi) a beneficio dei vivi e dei morti, per abbreviare o annullare le pene del Purgatorio: erano queste le «indulgenze». La loro predicazione degenerava talvolta in forme grossolane, in cui la Chiesa sembrava disporre a proprio piacimento della misericordia divina e, per così dire, delle chiavi dell'Aldilà, anche dietro versamento di denaro. Lutero criticava duramente tutto ciò. Le sue tesi furono presto tradotte in tedesco e, grazie alla stampa, diffuse in tutta la Germania.
Ebbero vasto consenso, anche per ragioni teologicamente meno profonde, perché facevano appello al radicato malumore verso la ricchezza e la corruzione del clero. Le reazioni della Chiesa romana indussero Lutero a credere che non questo o quel cattivo papa, ma il Papato in quanto tale era non solo estraneo, ma anche radicalmente ostile al cristianesimo: il papa era l'Anticristo in persona, l'oscura figura profetizzata da vari testi biblici (il libro del profeta Daniele, i brani apocalittici dei Vangeli e di Paolo). Nel 1521 Lutero fu scomunicato. Lutero auspicava un ritorno alla Chiesa delle origini e metteva in discussione l'intera struttura gerarchica della Chiesa tardomedievale. Non respingeva indiscriminatamente la tradizione (i concili antichi, i Padri, soprattutto l'amato Agostino), ma la subordinava in modo assoluto alla Parola di Dio (che annuncia la grazia): essa era l'unico fondamento della Chiesa. Il protestantesimo avrebbe poi codificato questo messaggio nella formula sola gratia, sola fide, sola Scriptura ("con la sola grazia, con la sola fede, con la sola Bibbia"): la salvezza non ha altro fondamento che la grazia di Dio, accolta dalla fede e rivelata attraverso la Bibbia. Questa non richiede interpreti ufficiali (la gerarchia ecclesiastica), perché è chiara di per sé, è «interprete di se stessa»: per comprenderne il senso il credente è illuminato dallo Spirito Santo.
Lutero rilesse in questa chiave i sacramenti, con esiti radicali: dei sette codificati dalla Chiesa medievale solo due, il battesimo e la cena del Signore (l’eucaristia), reggevano il vaglio della Scrittura e risultavano biblicamente fondati. La cena andava somministrata anche ai laici sotto le due specie del pane e del vino, prima riservate al clero (come era già stato sostenuto cent'anni prima dal riformatore boemo Jan Hus, mandato al rogo dal concilio di Costanza nel 1415)[1]. Il sacramento dell'ordine doveva essere abolito: le Chiese della Riforma avrebbero continuato a consacrare pastori, ma il ministero non avrebbe fatto di loro dei mediatori di tipo sacerdotale.
Per Lutero la Chiesa è, infatti, «apostolica» quando è fedele all'insegnamento degli apostoli, non per la continuità ininterrotta dei vescovi sin dall'età apostolica. È «cattolica» perché è presente in tutto il mondo e professa la vera fede, non perché subordinata al papa, del cui primato la Bibbia non parla (Lutero lo riconduce all'ideologia imperiale dell'antica Roma). Il dissenso non era dunque contro la Chiesa, ma sulla concezione di Chiesa. La nuova Chiesa fu detta evangelica (poi "luterana", con un termine che a Lutero non sarebbe piaciuto). II termine "protestante" risale alla protestatio ("solenne dichiarazione", dal verbo latino protestari) di fedeltà «alla Parola di Dio» che i principi sostenitori di Lutero presentarono all'imperatore Carlo V alla dieta di Spira del 1529. Stando all'etimologia, non esprime dunque una "contestazione", ma la volontà di professare senza compromessi e distorsioni l'essenziale della fede (evangelo della grazia).
La traduzione della Bibbia in tedesco fatta da Lutero, un capolavoro letterario, fu lo strumento essenziale per mettere la Scrittura nelle mani di ogni credente. Ma occorreva innanzitutto saper leggere: la Riforma in Germania promosse così una rete capillare di «scuole cristiane». Per trasmettere i fondamenti elementari del cristianesimo al popolo Lutero compose catechismi, spiegazioni semplici e sistematiche della fede in domande e risposte. Per superare il carattere "magico" e oscuro della messa cattolica in latino, passò al tedesco e promosse la partecipazione dei fedeli attraverso il canto. Lui stesso compose, spesso su melodie popolari, numerosi inni. Lo scopo di queste iniziative era riaffermare la dignità del semplice cristiano laico. Lutero respingeva l'ideale medievale di perfezione del monachesimo: la «maledetta tonaca» per lui non copriva altro che ipocrisia e autogiustificazione. Ciascuno infatti risponde alla chiamata o vocazione di Dio compiendo il proprio compito o «professione» nel mondo, per umile che sia. Prendendo lui stesso moglie nel 1525, Lutero faceva più che una scelta privata: inaugurava un nuovo modello di vita cristiana nel mondo. La Riforma attuò, ancora all’interno della cristianità medievale, una secolarizzazione cristiana. La fede restava l'anima di una società sottratta al controllo della Chiesa di Roma, ma anche al fascino dell'ideale clericale e monastico del Medioevo.
Lutero bollò con parole di fuoco la ragione e la filosofia, a cominciare dall'«empio maestro» Aristotele, che voleva bandire dalle università. Ma gli strumenti filosofici e lo stesso Aristotele furono ben presto reintegrati nella nuova teologia dall'amico e collega prediletto di Lutero, Filippo Melantone (nome grecizzato di Philipp Schwarzerd, 1497-1560), protagonista della riorganizzazione del sistema universitario in Germania. La polemica di Lutero prendeva di mira in primo luogo i «sofisti», i teologi scolastici, accusati di una proterva speculazione razionalistica su Dio. Questa ragione, metafisica e teologizzante, aveva messo «sotto la panca» il modo biblico di parlare di Dio (narrativo e storico) e si dimostrava cieca di fronte a Lui. Ma la ragione come tale restava - per decreto divino - una valida guida nel mondo terreno, nella vita familiare, sociale, economica. Proprio nella Germania protestante del primo Ottocento si sarebbe sviluppata una spregiudicata critica biblica di tipo razionalista, che sarebbe giunta a ridurre a mito verità fondamentali della fede, come la credenza in Cristo uomo-Dio e la sua risurrezione.
Lutero emancipò la politica dalle ingerenze ecclesiastiche, ma continuò a concepirla secondo il modello a lui più familiare: i principati feudali. Ostile alla partecipazione popolare al governo, nel 1525 condannò aspramente la rivolta contadina che scosse dalle fondamenta il mondo tedesco e incoraggiò la durissima repressione dei prìncipi. Pur non essendo insensibile alle richieste sociali dei contadini, provava orrore per l'insurrezione contro l'autorità stabilita da Dio. Di fatto, nel mondo luterano (Germania e Scandinavia) prìncipi e sovrani, venuta meno la guida papale, subentrarono ai vescovi nel controllo della Chiesa. Lutero si era battuto non per la libertà politica, ma per la libertà del cristiano, per il suo affrancamento spirituale dal peso opprimente del peccato e dalle «leggi arbitrarie» (indulgenze, diritto canonico, privilegi ecclesiastici) della «Chiesa del papa». Non era poco, in un'epoca in cui peccato e reato erano la stessa cosa e in molti campi (matrimonio, economia, finanza, scuola, università) la Chiesa esercitava un'influenza enorme. La Riforma trasformò il mondo interiore e l'esperienza ecclesiale (e di riflesso la vita quotidiana) di milioni di uomini e donne. Ma il suo esito immediato non fu certo la libertà politica o l'emancipazione personale in senso moderno.

La Riforma in Svizzera: Zwingli e Calvino
Nella diffusione della Riforma, la Svizzera ebbe un ruolo cruciale, inizialmente attraverso la predicazione del prete e umanista Huldrych Zwingli (1484- 1531), che introdusse a Zurigo una riforma molto più radicale di quella di Lutero. Zwingli concepiva la riforma della Chiesa come un rinnovamento dell'intera società cristiana: per questo si batté, ad esempio, contro la povertà e il mestiere del soldato mercenario, espediente allora comune, in Svizzera, per guadagnarsi da vivere nelle misere aree montane. Eliminò dal culto ogni aspetto che ricordasse la «superstizione papista» (così i protestanti chiamavano il cattolicesimo romano), compresi le immagini sacre, la musica e il canto. La fede, infatti, per Zwingli doveva nascere dall'ascolto della nuda Parola, non inquinata da pratiche che la Bibbia condanna come idolatria, ossia falso culto della divinità.
Ben più vasta e duratura fu l'influenza della riforma promossa dal francese Giovanni Calvino (Jean Calvin, 1509-1564). Dopo studi umanistici e giuridici, Calvino si accostò alle idee di Lutero e, al seguito di Guillaume Farel (1489-1565), introdusse la Riforma a Ginevra. Eliminò dalla Chiesa ogni traccia di gerarchia non attestata dalla Bibbia, stabilendo come unici ministri i pastori, gli anziani (laici autorevoli) e i diaconi (addetti a servizi assistenziali). A differenza di Lutero, non conservò la struttura esterna della messa cattolica, ma la sostituì con un culto evangelico fondato sul solo ascolto della Parola e sulla predicazione. Condannò severamente il culto dei santi e proibì qualunque raffigurazione del divino: statue e affreschi furono ovunque rimossi dalle chiese calviniste, trasformate in aule disadorne, adatte all'ascolto della sola Parola, senza distrazioni.
I capisaldi della teologia di Calvino, esposti nell'opera Istituzione della religione cristiana (Institutio religionis christianae, 1536), sono la gloria di Dio e la predestinazione. La creazione è il teatro in cui si manifestano l'onnipotenza e la saggezza del Creatore; ogni opera di Dio ne tesse le lodi, in particolare l'uomo, creato a sua immagine. Tuttavia il peccato originale ha completamente guastato l'immagine divina nell'uomo: lasciato a se stesso, egli è nel peccato. Dio solo, dall'eternità, ha stabilito chi, credendo in Gesù Cristo, sarà salvo e chi sarà dannato. Non solo lo sa (ne ha prescienza), ma è anche la causa diretta della salvezza degli uni e della dannazione degli altri: apre il cuore di un uomo alla grazia, indurisce quello di un altro. All'obiezione che questo è ingiusto, Calvino risponde che Dio è Dio, e Lui solo stabilisce ciò che è bene e ciò che è male. La distinzione fra bene e male, quindi, non esiste prima di Dio e indipendentemente da Lui come qualcosa a cui Egli si debba conformare. Buono e giusto è ciò che Dio vuole, per quanto incomprensibile possa apparire alla limitata ragione umana.
Calvino condivide le tesi sostenute da Lutero nel De servo arbitrio (Sull'arbitrio schiavo, 1525), ampia replica al De libero arbitrio (1524) in cui Erasmo da Rotterdam difendeva la libertà umana. Per ambedue i riformatori, l'uomo è spinto da Dio a scegliere volontariamente - benché non liberamente - la salvezza o la dannazione per lui decretate. Insistendo sulla predestinazione, la Riforma si opponeva totalmente alla visione antropocentrica dell'Umanesimo: al centro di tutto è la gloria di Dio, non la dignità dell'uomo. E nelle mani di Dio i riformatori volevano riportare interamente il destino dell'uomo, sottraendolo sia alla mediazione della Chiesa sia all'impegno morale individuale.
Il calvinismo considera le opere umane irrilevanti per la salvezza. Eppure non generò nei credenti passività o fatalismo, ma un forte impegno ad agire nel mondo. Una vita moralmente buona, ordinata, operosa, produttiva è infatti un segno (non una causa) dell'elezione, cioè della scelta, da parte di Dio: Dio trasforma l'intera vita dei suoi eletti non solo giustificandoli, ma anche santificandoli, come singoli e come comunità. Questa trasformazione doveva essere visibile: a tal fine Calvino attuò a Ginevra una profonda riforma della società cristiana, combattendo l'analfabetismo e la sporcizia, e assoggettando a restrizioni e divieti le taverne, il ballo, il teatro, le vesti considerate troppo sgargianti o provocanti, il parlare osceno e, al di sopra di tutto, la bestemmia (per un calvinista è bestemmia il solo nominare il nome di Dio senza la dovuta reverenza).
Estremo rigore Calvino mostrò anche nella lotta contro l'eresia, culminata nel rogo, da lui approvato, del medico e teologo spagnolo Michele Serveto (Miguel Servet, 1511-1553), colpevole di negare la Trinità. Tuttavia, nello stesso mondo protestante non mancarono critiche. L'umanista Sébastien Castellion (1525-1563), nell'opuscolo Se si debbano perseguitare gli eretici (De haereticis an sint persequendi, 1554), obiettò che l'incertezza della conoscenza umana intorno a Dio impone che si ammettano diverse opinioni. L'idea della tolleranza, allora sottoscritta da una ristretta minoranza, era destinata a un grande futuro.
Ginevra divenne il prototipo della città rinnovata dalla fede, la «repubblica dei santi», un ideale che eserciterà un'influenza profonda sulla storia politica. Come Lutero, Calvino era l'antitesi del rivoluzionario: l'obbedienza era per lui il dovere fondamentale del cristiano. Ma il più dinamico contesto urbano e commerciale in cui viveva lo spinse a una maggiore apertura verso le forme repubblicane e soprattutto a porre un preciso limite all'autorità politica, in nome dei superiori diritti di Dio. In casi estremi, pensava Calvino, per il cristiano è lecito, anzi doveroso, insorgere contro un'autorità apertamente idolatra.
In base a questi principi il calvinismo ispirò teorie politiche antiassolutistiche e fornì la giustificazione religiosa di rivoluzioni che scoppiarono tra Sei e Settecento in Olanda, Scozia, Inghilterra (e nelle sue colonie americane). Ovunque i calvinisti – dai puritani inglesi in lotta contro la monarchia ai valdesi italiani, che aderirono alla Riforma nel 1532 - mostrarono grande combattività e tenacia anche in condizioni avverse, convinti di essere predestinati dal Signore a lottare in questo mondo per la Sua gloria.

La riforma radicale: gli anabattisti
Una riforma di carattere ben più radicale fu promossa da numerosi movimenti religiosi. Data la profonda compenetrazione tra istituzioni politiche e religiose, le nuove interpretazioni della fede avevano spesso conseguenze sociali e politiche rivoluzionarie. È il caso degli «anabattisti». Con questo termine generale (derivato dal greco: significa "battezzati di nuovo") ci si riferisce ai gruppi che negavano il valore del battesimo dei neonati, in quanto incapaci di intendere e di volere, e ripetevano il battesimo da adulti, convinti che la fede fosse una scelta consapevole, che solo una persona matura può compiere. Gli anabattisti concepivano la Chiesa come una comunità di eletti, una minoranza santa e separata dalla massa dei miscredenti, dei papisti e dei protestanti di diverso orientamento, tutti destinati alla perdizione.
In quanto «santi di Dio» si consideravano estranei allo Stato, istituzione pagana. Attribuivano grande importanza alla santificazione che Dio opera nei suoi eletti: i cristiani non vivono come tutti, ma accolgono alla lettera il messaggio radicale del discorso della montagna di Gesù (Matteo 5-7): di qui, spesso, il ripudio della violenza, sino al rifiuto del servizio nell'esercito e dello stesso potere dei magistrati; di qui anche il rifiuto di prestare giuramento, che era il vincolo di lealtà politica proprio della società feudale. Taluni gruppi anabattisti, come quelli che nel 1535 furono annientati nella città tedesca di Munster, respingevano anche la proprietà privata, in nome della comunione dei beni della Chiesa primitiva.
Per questa carica eversiva gli anabattisti, anche i più miti, furono perseguitati senza pietà in tutta Europa. Nasceva così una tradizione: minoritaria del protestantesimo, che avrebbe portato sino ai giorni nostri alcune istanze etiche centrali del cristianesimo delle origini: la nonviolenza e un egualitarismo radicale capace di andare oltre le barriere della condizione sociale e persino del genere. In alcuni gruppi, infatti, le donne furono ammesse al ministero ecclesiastico, che solo qualche decennio fa è stato aperto alle donne da luterani e riformati, ed è tuttora negato dalla Chiesa cattolica.

Controriforma e Riforma cattolica
Alla minaccia protestante la Chiesa cattolica reagì con la Controriforma. Il termine indica l'insieme delle iniziative con cui contrastò la diffusione del protestantesimo nei secoli XVI e XVII. Fu attuata sia attraverso misure repressive sia attraverso una più rigorosa definizione della dottrina e della disciplina della Chiesa. Poiché l'attività della Chiesa non si ridusse alla repressione, è meglio parlare di «Riforma cattolica», intendendo con questa espressione il suo rinnovamento interno, non riducibile alla lotta antiprotestante. Già da tempo, infatti, molti cattolici invocavano una profonda riforma nelle gerarchie e nel popolo cristiano.
Il concilio di Trento, celebrato tra il 1545 e il 1563 con lunghe interruzioni, segnò l'avvio della Controriforma e diede un impulso decisivo al rinnovamento della Chiesa. Determinò in misura rilevante il destino della Chiesa nei secoli successivi, per molti aspetti sino a oggi. La sfida dei protestanti costrinse la Chiesa romana a ridefinire profondamente la propria identità. I decreti (le decisioni conciliari) di Trento chiarirono punti dogmatici (sulla dottrina della fede) e fornirono direttive disciplinari (relative all'organizzazione ecclesiastica).
In campo dogmatico il concilio riaffermò il valore della Tradizione come tramite della Rivelazione accanto alla Bibbia, in opposizione alla sola Scriptura protestante. La Rivelazione di Dio in senso stretto non ha altra fonte che la Bibbia, ma il senso della Bibbia deve essere spiegato ai fedeli dalla gerarchia ecclesiastica (il papa, i vescovi, il clero), che si attiene alle autorevoli interpretazioni bibliche del passato (concili, papi, Padri della Chiesa). Senza la Tradizione, proclamò il concilio, la Bibbia sarebbe muta o, peggio, in balla di interpretazioni arbitrarie. Fu dunque deciso di riconfermare la validità della Vulgata di san Girolamo (una traduzione latina della Bibbia della fine del IV secolo) come testo ufficiale della Sacra Scrittura, sebbene la filologia umanistica ne avesse ampiamente mostrato le imperfezioni.
Dopo Trento la lettura del testo sacro da parte dei laici fu, se non apertamente sconsigliata, quantomeno guardata con sospetto. Già il latino costituiva un'invalicabile barriera per la stragrande maggioranza dei cristiani; ma anche per i colti la lettura autonoma della Bibbia era insolita o pericolosa. Basti pensare al caso di Galileo, colpito da censura ecclesiastica non solo per la sua adesione al copernicanesimo, ma anche per la sua pretesa di suggerire, da semplice laico, alcuni criteri di esegesi biblica. Le stesse lingue e letterature dei paesi cattolici attinsero meno del mondo protestante alla Scrittura come fonte di narrazioni, forme espressive, metafore. Il saldo controllo esercitato dalla gerarchia sull'interpretazione del testo bloccò alla radice lo sviluppo nel mondo cattolico di forme di radicalismo politico-religioso, che furono invece frequenti nel mondo protestante[2].
In opposizione alla dottrina protestante della giustificazione per fede, il concilio di Trento riaffermò la doppia radice della giustificazione: sia la fede sia le opere. Il credente collabora alla salvezza e acquisisce un merito, che consiste innanzitutto nella libera adesione alla fede e, successivamente, nelle opere buone che compie. Come i protestanti, i padri conciliari riconoscevano come finte prima della salvezza la grazia di Dio, ma riaffermavano il libero arbitrio (negato tanto da Lutero quanto da Calvino): il battesimo cancella ogni traccia del peccato originale, reintegrando l'uomo nell'innocenza che fu di Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden.
Il concilio confermò anche i sette sacramenti. Riaffermò poi l'ordine come autentico sacramento istituito da Cristo, contro la negazione protestante della distinzione tra clero e laici. Nella dottrina dell'eucaristia approvò la teoria tomista della transustanziazione: la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino e il ministero sacerdotale si sostengono reciprocamente; solo la consacrazione compiuta dal prete rende attuale in ogni messa il sacrificio della Croce.
Il concilio non sposò una determinata scuola filosofica o teologica, ma i suoi decreti dogmatici (cioè le decisioni sulla dottrina della fede) influenzarono profondamente l'orientamento della Chiesa nei secoli successivi. Fu confermata l'adesione alla prospettiva tomista, nella quale fede e ragione erano distinte, ma armonizzabili. La fede, a sua volta, era affidata alla vigilanza della Chiesa, la quale si riservava così un preciso ruolo culturale, almeno nel definire i quadri generali entro cui la «retta ragione» dovrebbe operare. Questo modello (ovviamente aggiornato) è giunto sino a noi: ne è un esempio un documento ufficiale come l'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II (1998).
Per contrastare la diffusione dell'eresia la Chiesa istituì l'Indice dei libri proibiti (1559), un elenco delle opere teologiche, filosofiche, scientifiche e letterarie giudicate eretiche o immorali, che erano vietate ai cattolici e destinate al rogo. li tribunale dell'Inquisizione, con sede centrale a Roma e rinnovato rispetto all'Inquisizione medievale, ebbe il compito di individuare e giudicare gli eretici. Fu riaffermata la legittimità della venerazione dei santi, che i protestanti respingevano come idolatria. Nello stesso tempo aumentava il controllo della Chiesa sulla devozione popolare, perché non degenerasse in forme di superstizione magica. Alla venerazione dei santi era legata la devozione alle immagini sacre, parimenti confermata.
In opposizione al richiamo esclusivo alla Parola, caratteristico degli evangelici, il concilio valorizzava soprattutto il linguaggio figurativo. Nell'età della Controriforma, la Chiesa cattolica si fece committente di innumerevoli opere d'arte (chiese, affreschi, statue) volte a celebrare la gloria di Dio e della Chiesa attraverso un'esteriorità "teatrale" che i protestanti - in modo particolare i calvinisti - respingevano.
Il concilio riaffermò l'obbligo del celibato. Istituì i seminari, convitti per la formazione culturale e religiosa dei futuri preti. La Chiesa si garantiva in tal modo un clero dotato di un buon grado di preparazione filosofica e teologica (su fondamenti tomisti), e soprattutto fedele alle direttive della gerarchia. In società in cui non di rado più del 90% della popolazione era analfabeta, si formava una classe di intellettuali destinati a essere punto di riferimento e mediatori di conoscenze anche nelle aree più remote. Il clero fu una delle strutture portanti della società cattolica europea, anche quando (nel Settecento e nell'Ottocento) parte di esso fu coinvolta nell'elaborazione e nella diffusione di idee illuministiche e liberali, più o meno in contrasto con la dottrina ufficiale della Chiesa.
Un contributo decisivo alla repressione delle eresie e alla Riforma cattolica venne dal nuovo ordine della Compagnia di Gesù (i gesuiti), fondato nel 1540 dallo spagnolo Ignazio di Loyola (149 1-1 556), che volle farne le "truppe scelte" della Chiesa, da schierare in prima linea nella lotta contro gli eretici e nella conquista di anime al cattolicesimo.
Al rifiuto protestante dell'obbedienza alla gerarchia, i gesuiti risposero aggiungendo ai tre voti religiosi (povertà, castità, obbedienza) quello dell'obbedienza totale al pontefice romano. Rigorosa formazione ascetica e accurata preparazione filosofica e teologica caratterizzarono sin dagli inizi la Compagnia di Gesù. La sua predicazione, coordinata con l'azione militare degli Stati cattolici, riconquistò alla Chiesa di Roma intere regioni passate al protestantesimo (in Austria, nella Germania meridionale e nell'Europa orientale).
I gesuiti si distinsero anche nelle missioni in Asia e nelle Americhe, dove si impegnarono a guadagnare a Cristo i "pagani". Nelle terre più lontane da Roma avviarono esperienze profondamente innovative: tradussero nelle lingue locali anche i testi liturgici, compiendo audaci tentativi - non sempre graditi a Roma - di presentare la fede cristiana in termini culturali accettabili nella visione del mondo di altri popoli (Cina, Giappone, nativi americani).
In Europa si concentrarono sulla formazione delle classi dirigenti, soprattutto attraverso la scuola superiore e l'università. Nei convitti gesuitici i figli dei nobili e dell'alta borghesia ricevevano una solida preparazione culturale di tipo umanistico e religioso, per diventare, una volta adulti, una classe dirigente docile alla gerarchia. Attraverso la confessione e la direzione spirituale, i gesuiti esercitarono un'influenza profonda sugli stessi sovrani cattolici. Grande importanza ebbero le università gesuitiche, in cui fu sviluppato il pensiero di Tommaso d'Aquino; furono centri di alta cultura, soprattutto nelle scienze.
La Riforma cattolica conobbe altre forme di rinnovamento “dal basso", ben prima dei decreti di Trento. Sorsero nuovi ordini religiosi (i teatini, i fatebenefratelli, i barnabiti, i somaschi), mentre altri venivano rinnovati (come i cappuccini, sorti dalla riforma dell'ordine francescano).
Essi diedero impulso all'evangelizzazione, tanto nella predicazione popolare quanto nelle missioni, e alle attività caritative. Nei paesi cattolici l'assistenza a poveri, malati, orfani, vedove, soggetti marginali o, come si direbbe oggi, "devianti" rimase a lungo affidata quasi esclusivamente alla Chiesa.

Riforma Controriforma e filosofia
Le controversie teologiche e i conflitti politici e sociali che le accompagnarono non potevano non avere conseguenze importanti sulla filosofia, la quale aveva da sempre affrontato il tema del rapporto fra Dio e l'uomo. Innanzitutto, il confine fra teologia e filosofia era a quei tempi ancora più incerto di oggi. In secondo luogo, l'intolleranza che tali conflitti fomentarono e le guerre di religione che insanguinarono l'Europa fecero sorgere sia in campo cattolico sia soprattutto in campo protestante il desiderio di una concordia fra i cristiani fondata sulla ragionevolezza comune a tutti gli uomini e le prime idee sulla tolleranza religiosa.
Gli eventi politici imposero nuovi elementi alla riflessione dei filosofi sullo Stato e le forme del governo e della convivenza. La rivendicazione protestante della libertà del credente nel rapporto con la Scrittura stimolò lo sviluppo di una nuova disciplina, la critica biblica, con la conseguenza di una continua rilettura e interpretazione del testo sacro come fonte di riflessione filosofica.
Aspetti decisivi della filosofia e della cultura in paesi come la Germania e la Gran Bretagna non sarebbero comprensibili se si prescinde dalle conseguenze della Riforma. Allo stesso modo, la presenza della Chiesa cattolica, la Controriforma e la Riforma cattolica condizionarono la vita culturale nei paesi, fra cui in primo luogo l'Italia, dove il protestantesimo fu represso. Nacque allora la figura dell'intellettuale, cattolico o protestante, costretto a emigrare in cerca della libertà che gli era negata in patria.


Cattolici e protestanti oggi
I rapporti tra la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti, per secoli segnati da fiera ostilità (in particolare durante le guerre di religione dei secoli XVI e XVII), hanno conosciuto negli ultimi decenni una profonda trasformazione. La novità più rilevante è il movimento ecumenico: in una parola, le grandi Chiese storiche (cattolica, protestanti, ortodosse) sono passate dalle reciproche condanne al dialogo, nello sforzo di recuperare l'unità visibile. Il movimento ecumenico è sorto in ambito protestante e qui ha raccolto i primi successi: nel 1948 è nato il Consiglio ecumenico delle Chiese, che raccoglie ben 317 Chiese protestanti e ortodosse e dialoga con la Chiesa cattolica. Alcune tappe meritano di essere ricordate: riformati e luterani, per secoli divisi da divergenze dottrinali, con la «Concordia di Leuenberg» (1973) sono arrivati al pieno riconoscimento reciproco. L'ingresso ufficiale della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico si può far coincidere con il decreto Unitatis Redintegratio (Ricomposizione dell'unità) del Concilio Vaticano II (1964). Nel 1999 cattolici e luterani hanno sottoscritto ad Augusta (Germania) una dichiarazione di accordo sulla giustificazione, la questione cruciale che divise le Chiese all'epoca della Riforma.
Ma sulla strada dell'unità restano ostacoli molto gravi: innanzi tutto, i diversi modi d'intendere l'autorità esercitata dalla Chiesa e in particolare il ruolo del papa; i sacramenti; l'impostazione talvolta divergente su grandi questioni morali (in prima linea la sessualità e la bioetica). Nella Chiesa cattolica prevale tuttora la tendenza a scendere nei particolari nelle prescrizioni etiche, mentre le Chiese protestanti storiche preferiscono fare appello alla coscienza individuale. Il quadro si complica ulteriormente se si considerano i movimenti neoconservatori in pieno sviluppo sia in ambito cattolico sia nel mondo protestante (evangelicali, pentecostali)[3]: per quanto divisi sul piano dottrinale e poco o per nulla interessati al dialogo ecumenico, questi movimenti sono infatti accomunati dal rifiuto del mondo moderno e dal conservatorismo in campo morale .



[1] La controversia sull'eucaristia
Seppure concordi nell'esigenza di un rinnovamento della cristianità, i riformatori erano divisi fra loro su questioni liturgiche e teologiche. La controversia più importante fu quella sull'eucaristia. Lutero manteneva la dottrina cattolica della presenza reale, fisica, di Cristo nella santa cena. Mentre però Tommaso d'Aquino sosteneva che le sostanze del pane e del vino si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo (transustanziazione, ovvero trasformazione di una sostanza in un'altra), Lutero affermava che il pane e il vino restano tali, pur divenendo anche il corpo e il sangue di Cristo (consustanziazione, cioè fusione di due sostanze in una). Per Zwingli, invece, la santa cena è solo una memoria simbolica della passione di Gesù. In un incontro del 1529, i due riformatori si scontrarono aspramente su questo solo punto. Calvino rifiutò sia il simbolismo assoluto di Zwingli sia la concezione di Lutero, che gli sembrava troppo vicina a quella cattolica: Cristo risorto è in cielo, pensava, non nell'ostia; nella cena è presente in modo spirituale. Queste divergenze, che oggi potrebbero sembrare sottigliezze, divisero per secoli le Chiese luterane dalle "riformate" (termine, quest'ultimo, che indica la tradizione calvinista e non tutte le Chiese sorte dalla Riforma), e furono causa di conflitti anche politici. Si trattava, infine, di questioni di rilevanza filosofica, oltre che teologica. La dottrina della transustanziazione si fondava infatti sulla distinzione aristotelica fra sostanza e accidenti. Una distinzione che avrebbe fatto sembrare pericolosa per la fede la teoria galileiana della materia.
[2] Fondamentalismo
L’assenza di un'autorità centrale ha favorito nel protestantesimo forme di religiosità molto diverse fra loro, alcune molto aperte agli sviluppi della cultura non religiosa, altre molto meno, altre infine nettamente ostili, come quelle che tuttora contrappongono all'evoluzionismo l'interpretazione letterale del racconto biblico della creazione. Un tentativo di porre un limite all'''anarchia interpretativa" che ha caratterizzato spesso il rapporto fra le confessioni protestanti e la Bibbia è rappresentato dal cosiddetto «fondamentalismo»; una difesa dei principi tradizionali ("biblici") contro il movimento iniziato con la critica biblica tedesca. Il termine deriva dai Fundamentals (I fondamenti), una serie di trattati di vari autori che furono pubblicati negli Stati Uniti fra il 1910 e il 1915 su vari temi religiosi, fra cui il rapporto fra scienza e fede e fra cristianesimo ed evoluzionismo. Gli autori rappresentavano una vasta gamma di opinioni, spesso in contrasto fra loro. Alcuni sostenevano posizioni molto intransigenti. Da allora il termine designa comunemente, anche se non correttamente, un integralismo religioso (non solo cristiano) che si attiene all'interpretazione letterale dei testi sacri e si oppone agli sviluppi della scienza e della cultura che li mettono in discussione. Alcuni gruppi fondamentalisti americani sono diventati noti in tutto il mondo per le loro prese di posizione intransigenti, non di rado accompagnate da atti violenti, su problemi come l'aborto, i diritti delle donne, l'omosessualità.
[3] Evangelici, evangelicali, pentecostali
Il termine "evangelico", riferito a Chiese o gruppi di credenti, è sinonimo di "protestante". In Italia sono presenti diverse comunità evangeliche: innanzitutto, i valdesi; inoltre, i metodisti, sorti nella seconda metà del XVIII secolo per iniziativa del pastore anglicano John Wesley e ampiamente presenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti; i battisti, eredi sia di spunti della tradizione anabattista, sia delle Chiese riformate, e presenti nel nostro paese in seguito a missioni anglosassoni successive all'unità d'Italia; i luterani; i quaccheri (quakers), come vengono chiamati i membri della "Società degli Amici" (Society of Friends), nata in Inghilterra nel XVII secolo, una comunità caratterizzata dal rifiuto delle rigidità dogmatiche, dal misticismo e dalla tolleranza; l'Esercito della Salvezza, di origine britannica,dedito in modo particolare all'assistenza sociale; e, infine, diverse"Chiese libere" non radicate in una specifica tradizione protestante e sorte nel nostro paese dopo l'unità, in alcuni casi direttamente al seguito delle armate garibaldine. L’aggettivo "evangelicale" (in inglese evangelican non indica alcuna Chiesa in particolare, ma una corrente ampiamente diffusa nel mondo evangelico, che si contraddistingue per l'adesione letterale ai contenuti biblici,la difesa dei dogmi tradizionali erosi dallo studio scientifico della Bibbia, il conservatorismo morale e un grande impegno nell'evangelizzazione, spesso mediante un forte appello all'emotività religiosa. Gli evangelicali si definiscono di solito semplicemente "evangelici", il che può dare adito a equivoci. I pentecostali devono il loro nome al dono dello Spirito Santo fatto agli apostoli durante la festività ebraica della Pentecoste (in Atti degli apostoli, 2,1-5): aspetto centrale di questo movimento, sorto negli Stati Uniti già ai primi del Novecento e oggi in notevole espansione in tutto il mondo, è infatti il rinnovamento interiore operato dallo Spirito. Le tendenze evangelicali e pentecostali si sposano spesso (ma non sempre) con posizioni conservatrici in campo sociale e politico.