Angoscia e disperazione
A
differenza degli animali, mere macchine guidate dagli istinti, dal regno della
necessità, gli uomini non sono determinati dalla loro natura biologica, ma
vivono un’esistenza di libertà e possibilità. La categoria su cui Kierkegaard
costruisce la sua filosofia è quella
della possibilità, intesa, ancora una volta, in polemica con la
filosofia della necessità di Hegel.
La
filosofia di Hegel è una filosofia della necessità a causa del suo carattere
essenzialmente logico: lo stesso succedersi dialettico dei concetti presenta un
automatismo determinato dal meccanismo della contraddizione e dell'Aufhebung. In questo quadro rientrava bene allora una
concezione della libertà che da un lato, in senso pienamente idealistico,
veniva identificata con l'autocoscienza, con la semplice consapevolezza di non
essere determinati da nulla di esterno, e che dall'altro veniva ammessa solo in
quanto identica con la superiore necessità dello spirito (si pensi all'astuzia
della ragione).
Ben altra
è invece la nozione kierkegaardiana
di libertà. Ed è altra proprio perché si fonda sulla nozione di possibilità, di scelta, di rischio, di paradosso. Il concetto kierkegaardiano di possibilità apre, quindi, ampi
spazi alla libertà, alla scelta, al rischio, ma proprio perciò anche al
fallimento, alla perdizione, all’annientamento e quindi alla disperazione. Kierkegaard
stesso definisce la possibilità “come
la più pesante di tutte le categorie”, in quanto “nella
possibilità tutto è ugualmente possibile”: ed è proprio questa “onnipotenza della possibilità” ciò che
genera un universale sentimento di angoscia.
L’angoscia è la connotazione emotivo-esistenziale della possibilità[1]; è quella situazione emotiva che si
prova di fronte a un nulla che può però diventare tutto, di fronte a una
minaccia ignota e indeterminata, che se solo fosse nota o determinata verrebbe
appunto ridimensionata, controllata, si trasformerebbe cioè in paura,
provocando una reazione e una strategia di difesa. È paralizzante e generatrice
di inquietudine ma differisce dalla paura che si riferisce sempre ad un oggetto
determinato. Al contrario, l’angoscia non ha un oggetto determinato ed è
strettamente connessa alla libertà dell’uomo e alla scelta che egli deve in
ogni caso compiere. L'angoscia è la condizione propria dell'uomo di fronte
al potere (possibilità) infinito e difficilmente gestibile che gli offre la sua
libertà. Da un lato dunque la possibilità sembrerebbe aprire uno spazio di
libertà rivitalizzante, sembrerebbe consentire un ampio margine di libertà perché,
a differenza della necessità, in essa tutto è possibile, tutte le alternative
sono aperte. Dall'altro lato però questa onnipossibilità e questo ampio margine
di libertà e di scelta si convertono in un incubo fatalistico, come il peso di
una maledizione che Kierkegaard, anche da un punto di vista biografico, ha
visto pendere sulla sua famiglia. Per questo essa è la categoria più pesante in quanto, se tutto è possibile,
occorre fare appello al nostro senso di responsabilità, occorre sapere usare
bene tali spazi di libertà e di scelta che essa ci spalanca; ma è pesante anche
in un senso diverso, fatalistico appunto, perché se tutto è possibile la nostra
condizione e la nostra sorte sono estremamente vacillanti, possono sempre
mutare e rovesciarsi improvvisamente, ci manca un saldo terreno sotto i piedi.
Al punto che, oppressi dal peso di una responsabilità che non sappiamo reggere,
di un'angoscia e di una libertà che sono sproporzionate rispetto alla nostra
finitezza, quasi imploriamo una superiore necessità a cui affidarci. Questa
inquietudine si potrebbe placare solo in Dio ma, in quanto liberi, possiamo
anche scegliere altro, scegliere di vivere lontano da Lui. Una scelta in tal
senso porta al peccato nel senso in
cui viene comunemente inteso. Ma al di là del peccato come scelta, il peccato è
connaturato all’esistenza stessa: è il peso della colpa derivante dal peccato
originale da cui scaturisce la
disperazione. Con questa espressione Kierkegaard indica l’impossibilità
di essere autenticamente noi stessi, in quanto tale impossibilità si radica
nella struttura stessa del nostro io, della nostra identità. La disperazione è
la “malattia mortale”, “un eterno morire
senza morire”, “è l’assenza della speranza di poter vivere”, “il vivere la morte dell’io”. È l’insuperabile
incapacità da parte dell’io di risolvere la problematicità del suo rapporto con
l’infinito. Se l’angoscia nasce dal timore del peccato, la disperazione è l’esperienza del peccato stesso. Si
potrebbe allora concludere che il
permanere nella «possibilità infinita» è per l'uomo l'origine della «disperazione
della possibilità» (“alla fine è come
se tutto fosse possibile, ma è proprio questo il momento in cui l'abisso ha
ingoiato l'io”), se questa non trova un ancoraggio nella necessità.
Ciò non
significa certo ritornare alle filosofie panteistiche della necessità, come quelle
di Spinoza o di Hegel, perché non meno disperante è vivere sotto il segno della
necessità che esclude ogni possibilità. Si tratta solo di ricomprendere la
possibilità e la libertà che essa spalanca all'interno di una cornice che possa
salvaguardarle entrambe: ciò che salva è in altri termini la fede nell'idea che
«per Dio tutto è possibile», ovvero che la libertà di Dio è assoluta. E l'idea
per cui tutto sia possibile perde quel carattere di angosciosa, fatale,
irrazionale minaccia, perché tale onnipossibilità è gestita ovvero limitata,
agli occhi di chi ha fede, dall'amore di Dio, a cui possiamo affidarci con
serenità.
Potrebbe questa sembrare una riedizione della concezione idealistica della
libertà come identica alla necessità: il fatto è che per Kierkegaard una
possibilità (e una libertà) affidata solo a se stessa, senza salvaguardia
teologica, degenera nel suo contrario. Tutto sembra allora ruotare attorno alla
fede e a una corretta concezione di Dio.
La disperazione può essere incosciente,
quando si pensa di essere felici godendo dei piaceri della vita, oppure cosciente. In questo secondo caso, può
essere il punto di partenza del cammino verso la fede, ma anche il presupposto
del rifiuto totale di Dio e della salvezza: la disperazione “demoniaca” dell’ateo.
Angoscia e disperazione sono dimensioni esistenziali inevitabili e persino
auspicabili: ci inducono a cercare Dio e ad abbracciare la fede. Esse offrono
all’individuo la possibilità di prendere coscienza della sua finitezza, di
interrogarsi sulla sua vita, di capire che all’origine del senso di privazione è
la mancanza di Dio. La disperazione è quindi la malattia mortale, ma bisogna
anche riconoscere che “non averla mai
avuta (non aver mai fatto esperienza di peccato) è la peggiore disgrazia”: la salvezza non può prescindere dal
peccato. Solo la fede permette di uscire da questa condizione di stallo e di
disperazione perché essa impone all’uomo il riconoscimento della propria
insufficienza, della propria limitazione, della propria dipendenza da Dio e
indica in Questo la meta in cui riconoscersi, la persona a cui affidarsi. L’uomo
di fede da un lato sembrerebbe avere un ruolo con la sua volontà e il senso di
responsabilità, ma dall’altra ha la consapevolezza che l’uomo di fronte a Dio è
nulla e che la fede stessa gli proviene da Dio, il quale è differenza assoluta,
differenza infinta rispetto ad ogni realtà finita, e dunque a Dio e non all’uomo
spetta l’iniziativa del rapporto.
[1] La successiva filosofia
esistenzialistica, sviluppatasi nel corso del Novecento ad opera di autori come
Karl Barth 0886-1968), Martin Heidegger (1889-1976), Karl Jaspers (1883-1969),
Jean Paul Sartre (1905-1980), partirà proprio da una riflessione su questa
coppia di concetti kierkegaardiani.
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