domenica 31 marzo 2013

Kierkegaard: angoscia e disperazione


Angoscia e disperazione
A differenza degli animali, mere macchine guidate dagli istinti, dal regno della necessità, gli uomini non sono determinati dalla loro natura biologica, ma vivono un’esistenza di libertà e possibilità. La categoria su cui Kierkegaard costruisce la sua filosofia è quella della possibilità, intesa, ancora una volta, in polemica con la filosofia della necessità di Hegel.
La filosofia di Hegel è una filosofia della necessità a causa del suo carattere essenzialmente logico: lo stesso succedersi dialettico dei concetti presenta un automatismo determinato dal meccanismo della contraddizione e dell'Aufhebung. In questo quadro rientrava bene allora una concezione della libertà che da un lato, in senso pienamente idealistico, veniva identificata con l'autocoscienza, con la semplice consapevolezza di non essere determinati da nulla di esterno, e che dall'altro veniva ammessa solo in quanto identica con la superiore necessità dello spirito (si pensi all'astuzia della ragione).
Ben altra è invece la nozione kierkegaardiana di libertà. Ed è altra proprio perché si fonda sulla nozione di possibilità, di scelta, di rischio, di paradosso. Il concetto kierkegaardiano di possibilità apre, quindi, ampi spazi alla libertà, alla scelta, al rischio, ma proprio perciò anche al fallimento, alla perdizione, all’annientamento e quindi alla disperazione. Kierkegaard stesso definisce la possibilità “come la più pesante di tutte le categorie”, in quanto “nella possibilità tutto è ugualmente possibile”: ed è proprio questa “onnipotenza della possibilità” ciò che genera un universale sentimento di angoscia.
L’angoscia è la connotazione emotivo-esistenziale della possibilità[1]; è quella situazione emotiva che si prova di fronte a un nulla che può però diventare tutto, di fronte a una minaccia ignota e indeterminata, che se solo fosse nota o determinata verrebbe appunto ridimensionata, controllata, si trasformerebbe cioè in paura, provocando una reazione e una strategia di difesa. È paralizzante e generatrice di inquietudine ma differisce dalla paura che si riferisce sempre ad un oggetto determinato. Al contrario, l’angoscia non ha un oggetto determinato ed è strettamente connessa alla libertà dell’uomo e alla scelta che egli deve in ogni caso compiere. L'angoscia è la condizione propria dell'uomo di fronte al potere (possibilità) infinito e difficilmente gestibile che gli offre la sua libertà. Da un lato dunque la possibilità sembrerebbe aprire uno spazio di libertà rivitalizzante, sembrerebbe consentire un ampio margine di libertà perché, a differenza della necessità, in essa tutto è possibile, tutte le alternative sono aperte. Dall'altro lato però questa onnipossibilità e questo ampio margine di libertà e di scelta si convertono in un incubo fatalistico, come il peso di una maledizione che Kierkegaard, anche da un punto di vista biografico, ha visto pendere sulla sua famiglia. Per questo essa è la categoria più pesante in quanto, se tutto è possibile, occorre fare appello al nostro senso di responsabilità, occorre sapere usare bene tali spazi di libertà e di scelta che essa ci spalanca; ma è pesante anche in un senso diverso, fatalistico appunto, perché se tutto è possibile la nostra condizione e la nostra sorte sono estremamente vacillanti, possono sempre mutare e rovesciarsi improvvisamente, ci manca un saldo terreno sotto i piedi. Al punto che, oppressi dal peso di una responsabilità che non sappiamo reggere, di un'angoscia e di una libertà che sono sproporzionate rispetto alla nostra finitezza, quasi imploriamo una superiore necessità a cui affidarci. Questa inquietudine si potrebbe placare solo in Dio ma, in quanto liberi, possiamo anche scegliere altro, scegliere di vivere lontano da Lui. Una scelta in tal senso porta al peccato nel senso in cui viene comunemente inteso. Ma al di là del peccato come scelta, il peccato è connaturato all’esistenza stessa: è il peso della colpa derivante dal peccato originale da cui scaturisce la disperazione. Con questa espressione Kierkegaard indica l’impossibilità di essere autenticamente noi stessi, in quanto tale impossibilità si radica nella struttura stessa del nostro io, della nostra identità. La disperazione è la “malattia mortale”, “un eterno morire senza morire”, “è l’assenza della speranza di poter vivere”, “il vivere la morte dell’io”. È l’insuperabile incapacità da parte dell’io di risolvere la problematicità del suo rapporto con l’infinito. Se l’angoscia nasce dal timore del peccato, la disperazione è l’esperienza del peccato stesso. Si potrebbe allora concludere che il permanere nella «possibilità infinita» è per l'uomo l'origine della «disperazione della possibilità» (“alla fine è come se tutto fosse possibile, ma è proprio questo il momento in cui l'abisso ha ingoiato l'io”), se questa non trova un ancoraggio nella necessità.
Ciò non significa certo ritornare alle filosofie panteistiche della necessità, come quelle di Spinoza o di Hegel, perché non meno disperante è vivere sotto il segno della necessità che esclude ogni possibilità. Si tratta solo di ricomprendere la possibilità e la libertà che essa spalanca all'interno di una cornice che possa salvaguardarle entrambe: ciò che salva è in altri termini la fede nell'idea che «per Dio tutto è possibile», ovvero che la libertà di Dio è assoluta. E l'idea per cui tutto sia possibile perde quel carattere di angosciosa, fatale, irrazionale minaccia, perché tale onnipossibilità è gestita ovvero limitata, agli occhi di chi ha fede, dall'amore di Dio, a cui possiamo affidarci con serenità.
Potrebbe questa sembrare una riedizione della concezione idealistica della libertà come identica alla necessità: il fatto è che per Kierkegaard una possibilità (e una libertà) affidata solo a se stessa, senza salvaguardia teologica, degenera nel suo contrario. Tutto sembra allora ruotare attorno alla fede e a una corretta concezione di Dio.
La disperazione può essere incosciente, quando si pensa di essere felici godendo dei piaceri della vita, oppure cosciente. In questo secondo caso, può essere il punto di partenza del cammino verso la fede, ma anche il presupposto del rifiuto totale di Dio e della salvezza: la disperazione “demoniaca” dell’ateo.
Angoscia e disperazione sono dimensioni esistenziali inevitabili e persino auspicabili: ci inducono a cercare Dio e ad abbracciare la fede. Esse offrono all’individuo la possibilità di prendere coscienza della sua finitezza, di interrogarsi sulla sua vita, di capire che all’origine del senso di privazione è la mancanza di Dio. La disperazione è quindi la malattia mortale, ma bisogna anche riconoscere che “non averla mai avuta (non aver mai fatto esperienza di peccato) è la peggiore disgrazia”: la salvezza non può prescindere dal peccato. Solo la fede permette di uscire da questa condizione di stallo e di disperazione perché essa impone all’uomo il riconoscimento della propria insufficienza, della propria limitazione, della propria dipendenza da Dio e indica in Questo la meta in cui riconoscersi, la persona a cui affidarsi. L’uomo di fede da un lato sembrerebbe avere un ruolo con la sua volontà e il senso di responsabilità, ma dall’altra ha la consapevolezza che l’uomo di fronte a Dio è nulla e che la fede stessa gli proviene da Dio, il quale è differenza assoluta, differenza infinta rispetto ad ogni realtà finita, e dunque a Dio e non all’uomo spetta l’iniziativa del rapporto.



[1] La successiva filosofia esistenzialistica, sviluppatasi nel corso del Novecento ad opera di autori come Karl Barth 0886-1968), Martin Heidegger (1889-1976), Karl Jaspers (1883-1969), Jean Paul Sartre (1905-1980), partirà proprio da una riflessione su questa coppia di concetti kierkegaardiani.

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