IL
TOTALITARISMO
di Giovanni De Luca
Professore,
tra le tante definizioni che sono state usate per il Novecento, una in
particolare mi ha colpito: perché molti storici lo chiamano il «secolo dei
totalitarismi»?
Come vedremo, questa definizione si riferisce in particolare
alla "grande crisi europea" così come si sviluppò tra le due guerre
mondiali. Storici di diverso orientamento culturale e ideologico hanno scelto
tutti quel periodo. che va dal 1915 al 1945, come una sorta di "banco di
prova" in grado di rappresentare i caratteri originari e specifici del XX secolo. Il mondo, ma direi in particolare l'Occidente europeo, visse
allora l'esperienza assolutamente inedita del totalitarismo, ossia quella di un
regime in cui lo Stato controlla non solo la politica e l'economia, ma anche e
soprattutto l'intera società civile. I
regimi
totalitari che si affermarono in Italia (fascismo), in Germania (nazismo) e in
Unione Sovietica (comunismo) furono caratterizzati dai seguenti elementi: l'uso
della violenza per conquistare il potere e realizzare l'azzeramento
rivoluzionario delle forme statali e di governo esistenti in precedenza; il
controllo totale dell'economia da parte dello Stato; il potere politico
monopolizzato da un partito unico, con la soppressione di tutti gli altri; la
cancellazione radicale anche delle associazioni, dei circoli e di ogni altra
forma di aggregazione spontanea della società civile. È evidente che non siamo più in presenza di
sistemi autoritari e neanche di dittature militari così come li abbiamo
conosciuti studiando i secoli precedenti.
Quindi
dobbiamo pensare che quella definizione colga aspetti che appartengono solo ed
esclusivamente al Novecento e che non erano mai stati sperimentati prima?
Sì. Questo fu un elemento colto immediatamente dai
contemporanei. Attraverso il confronto tra comunismo, nazifascismo e
democrazia, Raymond Aron, già nel 1939 in un articolo dal titolo Stati
democratici e Stati totalitari, giudicava l'essenza del totalitarismo come
indissolubilmente legata all'emergere di nuovi meccanismi di selezione delle élite
dirigenti e di nuovi sistemi economici instauratisi dopo la grave crisi del
1929. Più in generale, è stata poi la filosofa Hannah Arendt a indicare il
nesso strettissimo che lega il totalitarismo alla modernità e alla formazione
di una società di massa che solo il Novecento conosce. Il successo del
totalitarismo in Europa avvenne in condizioni rese praticabili unicamente da
una società ad alto sviluppo tecnologico: l'ideologia totalitaria impose un corpo
ufficiale di dottrine a cui occorreva necessariamente obbedire; per ottenere
l'adesione almeno passiva di ogni individuo, richiedeva quindi l'uso delle più
raffinate tecniche del condizionamento di massa e un solido apparato
burocratico di controllo; d'altra parte, l'esistenza di un partito unico
guidato dal dittatore necessitava di strumenti di mobilitazione e di
integrazione possibili solo con la concentrazione monopolistica di tutti i
mezzi di comunicazione messi a disposizione dallo sviluppo delle più sofisticate
tecnologie moderne.
Ma
questa definizione "unitaria" non rischia di mettere in secondo piano
le specificità delle singole storie nazionali di paesi come l'Italia, la
Germania, la Russia, che pure hanno attraversato vicende politiche e culturali
molto diverse?
Nei progetti totalitari di Mussolini, Hitler e Stalin è
possibile rintracciare una serie di elementi comuni che sono quelli che abbiamo
appena visto: il culto di un unico capo assoluto; l'utilizzazione massiccia e
oculata degli strumenti propagandistici offerti dai nuovi mezzi di
comunicazione di massa (il cinema, la radio, la stampa); un'organizzazione
poliziesca sempre più oppressiva e capillarmente diffusa su tutto il territorio
nazionale. Su questo sfondo comune, però, ogni regime totalitario innestava
altri elementi che scaturivano non solo dalla diversità delle singole storie
nazionali, ma anche dalle differenze ideologiche (comunismo e nazismo erano
specularmente contrapposti) e dal modo in cui nei vari casi si declinavano i
diversi progetti di Stato e di società.
Allora
esiste anche una specificità del fascismo italiano nei confronti del nazismo e
dello stalinismo?
Sì, certamente. Il progetto di dominio di Mussolini era
definito sia dal controllo totalitario del potere politico sia dal tentativo di
fascistizzare l'intera società italiana. Su entrambi i versanti, però, le sue
ambizioni naufragarono e Mussolini fu costretto ad accettare la coesistenza con
altre forze e altri centri di potere che gli preesistevano e che avrebbero
continuato a esistere anche dopo la sua caduta: l'esercito, la monarchia, il
potere economico, il Vaticano. In questo senso si parla, a proposito del
fascismo, di un "totalitarismo imperfetto", quasi a voler
sottolineare come il nazismo tedesco e il comunismo sovietico avessero invece
assunto un potere incontrastato, azzerando tutte le vecchie gerarchie. A questi
limiti se ne aggiunsero poi altri. Ad esempio, il disegno di assorbire nelle
istituzioni del regime l'intera società italiana si scontrò con la duratura
persistenza di un reticolo familiare, parentale, di aggregazioni comunitarie,
di interessi locali che restò sostanzialmente fuori dalla sfera politica e
dalle organizzazioni legate al partito unico (il Partito nazionale fascista).
Tutto
ciò che ha detto è molto "europeo"; ma nel resto del mondo, tra le
due guerre mondiali, non succede niente di rilevante?
In realtà succede di tutto, a partire dalla crisi economica del
1929 che ridisegnò il mondo del capitalismo. Anche in Asia, in paesi come il
Giappone, si installarono regimi che, se non si potevano definire totalitari,
avevano marcati tratti autoritari e dittatoriali. In Cina. poi, con la guerra
civile tra comunisti e nazionalisti, si ebbero le prime avvisaglie di quel
processo che nel secondo dopoguerra avrebbe portato il paese a diventare un
enorme Stato comunista. Eppure, l'esperienza dei totalitarismi europei resta
qualcosa di unico e (speriamo) irripetibile nella storia del mondo.
Nessun commento:
Posta un commento
E' preferibile firmare i commenti. Grazie