giovedì 3 gennaio 2013

Hegel. La Fenomenologia dello Spirito. Dalla Coscienza alla Ragione.




La Fenomenologia dello spirito è la prima esposizione sistematica del pensiero di Hegel ma scritta in fretta tra molte difficoltà: l'esercito di Napoleone invade Jena, l'abitazione di Hegel viene saccheggiata,  gli studenti vengono chiamati alle armi e quindi per Hegel è impossibile fare lezione; viene quindi a mancare lo stipendio che viene dalle rette versate dalle famiglie degli allievi. Nonostante queste avversità, quando Hegel vede sfilare Napoleone per le vie di Jena, non esita a scrivere "Ho visto l'Imperatore, quest'anima del mondo, uscire a cavallo dalla città: è una sensazione meravigliosa vedere un simile individuo, che qui, concentrato in un punto, s'irradia per il mondo, e lo domina", in quanto rappresentante supremo della Rivoluzione francese. La stesura dell'opera comincia nel 1805 e viene concepita da Hegel come introduzione al volume della Logica, la prima parte del suo sistema, col titolo di Sistema della scienza. Parte prima. Scienza dell'esperienza della coscienza. Tuttavia, nel corso della composizione, essa gli si ampliò fino a diventare, non solo un volume a sé, ma anche l’esposizione dell’intero sistema. L'opera porta in sè i segni delle difficoltà  che ne hanno condizionato  la nascita: lo stile è oscuro e tormentato, il nuovo titolo, Sistema della scienza. Parte prima: la Fenomenologia dello spirito”, viene modificato quando l'opera nel 1807 è già in stampa, anche l'indice cambia più volte. L'opera non viene apprezzata dai contemporanei e vende poche copie. Quando, alcuni anni più tardi, egli scrisse la Logica, avvertì la necessità di collegarla con la Fenomenologia [1]. Soltanto nella riedizione dell'opera, a cui Hegel lavora al momento della morte, il titolo diventa quello attuale, Fenomenologia dello spirito. Nonostante tutte le traversie e l'insuccesso iniziale, la Fenomenologia è l'opera più amata nel '900, in quanto rappresentazione dell'esperienza sia individuale che storica in un grande quadro filosofico.
Il termine "fenomenologia" deriva da due parole greche: phainòmenon, “apparire”, “manifestarsi”, e logos, “scienza”, quindi significa “scienza di ciò che appare” alla coscienza. Pertanto essa è la scienza del manifestarsi dialettico della coscienza nel suo cammino razionale progressivo nell'esperienza dei fenomeni, fino a riconoscersi come Soggetto (Spirito). Quale “odissea della coscienza moderna” (Moravia), la Fenomenologia di Hegel ricostruisce la storia immanente dell’esperienza umana [2]: è la descrizione dell’itinerario della coscienza naturale, intesa sia come coscienza dell’umanità, che, attraverso una serie di figure, tappe, diventa spirito, giunge cioè al sapere vero, fa compiuta esperienza di se stessa, cioè esperisce ciò che essa è in sé, sia come coscienza del singolo [3] nel suo personale percorso culturale. Ciò significa che l'itinerario percorso dallo Spirito nella storia dev'essere ripercorso dalla singola coscienza come memoria, come storia già fissata e determinata attraverso le figure, cioè realtà non più fluide ma oramai cristallizzate che compongono un disegno unitario, senza soluzione di continuità tra la tappa successiva con quella precedente. Nell'itinerario percorso dallo Spirito, la coscienza rivive la storia, conosce e ritrova se stessa, in altre parole, la coscienza si forma, realizza uno sforzo di costruzione di sè ripercorrendo la storia del pensiero umano e prendendo consapevolezza di essere parte di questo processo e ciò lo ricongiunge con l'universale stesso. Per questo la Fenomenologia è stata da molti avvicinata ai "romanzi di formazione", cioè pedagogici, caratteristici dell'epoca, come, per ricordare soltanto il più noto, il Wilhelm Meister di Goethe. Alcune figure sono figure della coscienza teoretica, cioè del sapere [4] in senso stretto (certezza sensibile, percezione, intelletto), ma quando si giunge all’Autocoscienza si incontrano atteggiamenti pratici, “situazioni storico-sociali, precisamente individuate nella loro esistenza spaziale e temporale" (Mori), “la spiritualità dell’epoca, il suo senso del diritto e dello Stato, la sua morale; religione, concezione della realtà (Hartmann), momenti culturali, concezioni del mondo e della vita che travalicano la pura conoscenza, il puro sapere. I fenomeni, oggetto di studio della Fenomenologia, non sono gli oggetti esterni della conoscenza scientifica, come li intendeva Kant, ma le manifestazioni storiche, concrete, dello sviluppo del sapere umano o, come dice Hegel, dello Spirito della storia. Nel processo dialettico gli stadi sono in rapporto reciprocamente negativo, nel senso che lo stadio superiore è superamento di quello inferiore. Ma superamento non significa annullamento degli stadi inferiori, bensì conservazione delle conquiste compiute dalle precedenti figure e insieme superamento dei loro limiti. Ogni momento-manifestazione-stadio-oggettivazione viene oltrepassato, recuperato, approfondito, mantenuto, ricompreso. Il negativo è, dunque, positivo in quanto innesca il movimento-processo. A muovere la coscienza, generando un movimento dialettico, è, così, la potenza del negativo: ogni oggetto (ed ogni corrispondente configurazione della coscienza) che la coscienza consegue sembra essere, in un primo tempo, la verità finché l'esperienza non ne mostra l'inadeguatezza, determinandone la negazione e l’abbandono per un nuovo oggetto. In altre parole, ad ogni grado, la coscienza fa l’esperienza di non possedere, nell’oggetto, ciò che credeva di possedere. Ma la negazione non è assoluta, è negazione determinata: è nel contempo negazione dell’oggetto è sua conservazione in altro. L’oggetto, avendo in sé la propria negazione, produce da sé l’affermazione positiva nella quale viene negato, cioè tolto e ricompreso. La negazione nega l'oggetto e negandolo si dirige ad una nuova comprensione, che è la figura successiva. La sintesi accoglie in sé sia la tesi che l’antitesi, e così le invera. Accoglierle non vuol dire naturalmente farne una mera somma: la sintesi tiene unito in sé tutto il movimento della posizione, della negazione determinata e della scoperta della loro complementarità. Questo movimento è propriamente il movimento del concetto che è compito della ragione recare alla luce, superando la fissità dei meri concetti astratti istituiti dall’intelletto (Sini).
Nella Fenomenologia, è la stessa coscienza che, ad ogni tappa, figura, momento, si modifica, si trasforma, si configura diversamente, cresce, nel rapporto con una realtà a sua volta via via più complessa e, attraverso una crescente appropriazione-comprensione-penetrazione dell’oggetto del sapere, essa si scopre gradualmente, si comprende come coscienza e arriva a sapersi come realtà: nel mutare del suo oggetto, il soggetto muta se stesso; comprendendo e appropriandosi dell’oggetto, la coscienza individuale comprende e si appropria di se stessa, abbandonando la propria costitutiva duplicità che è data dall’alterità/opposizione tra io e non-io. La conoscenza dell’oggetto dunque coincide con il conoscersi dello spirito. La conquista della coscienza, nella Fenomenologia, è, quindi, l’identità dialettica di soggetto e oggetto. Autoconoscersi del soggetto e conoscenza dell’oggetto procedono parallelamente e progressivamente fino a giungere al sapere assoluto. In realtà, il sapere della coscienza comune (primo grado della Fenomenologia) è già sapere assoluto, ma ancor privo di coscienza di sé e quindi ad esso diretto. Il sapere assoluto, infatti, non è dato immediatamente, come un “colpo di pistola”, secondo la prospettiva di Schelling. L’Assoluto è unità mediata, non immediata. Il sapere assoluto esige questo lungo, complesso e articolato itinerario che parte sì dal sapere immediato, dalla coscienza comune (conoscenza sensibile, percezione, intelletto), che come tale è privo di spirito, per giungere poi al sapere propriamente detto, passando per l’autocoscienza e la ragione. Con l’itinerario fenomenologico la coscienza esce dalla "caverna platonica" e conquista la scienza. La filosofia, che si occupa della verità e dell’assoluto, cerca nel tempo presente la verità ancora nascosta. La verità, per Hegel, non è parziale, particolare, immediata. La verità sta nella comprensione dell’intero, della totalità, è l’intero movimento, è "il processo, il quale si genera i suoi momenti e li percorre". La verità, l’assoluto è sia il risultato che l’intero processo, cioè il risultato che comprende e accumula e conserva tutti i momenti del processo. Il vero-intero ha, certo, un inizio ideale che si sviluppa, ma solo per autodispiegarsi, per esprimersi compiutamente in quello che è già, all’inizio, implicitamente. Nella totalità dei momenti l’Assoluto si realizza, si manifesta in un sistema unitario che è la sua autocoscienza.
La Fenomenologia è divisa in due parti:
I parte, composta da tre momenti della coscienza: Coscienza (la conoscenza dell'oggetto), Autocoscienza (la consapevolezza di sè) e Ragione (sintonia che esiste tra soggetto e oggetto, nella misura in cui il primo ritrova nel secondo la propria razionalità);
II parte, composta da tre sezioni: Spirito, Religione, Sapere Assoluto. L'aggiunta di questa seconda parte fu suggerita ad Hegel solo per ragioni editoriali perchè in essa vengono anticipate le conclusioni che poi saranno proprie dell'Enciclopedia. Infatti la Fenomenologia voleva avere solo uno scopo pedagogico: dimostrare come l'autocoscienza non può realizzarsi individualmente ma solo all'interno dello Stato.
Il primo momento, la Coscienza (tesi), è quello in cui l’attenzione è posta principalmente sul soggetto, cioè la Coscienza guarda e conosce il mondo come qualcosa di altro e di indipendente da sé. La Coscienza non è vista come tabula rasa (Locke) o come l’“Io penso” cartesiano, cioè principio da cui si può dedurre tutto il resto. La Coscienza per Hegel si identifica con il pensiero ed è sempre attiva. Essa “pensa” anche le cose che sembrano immediate ma, non sapendo di essere sempre attiva, la coscienza pensa che le esperienze oggettive provengano dall’esterno: non si accorge che sono un suo prodotto perché tutto ciò che esiste, per esistere, è stato pensato.
Questo momento si sviluppa in
Ø  Certezza sensibile (tesi): è la prima esperienza della coscienza comune, la prima "figura" in cui essa si trova  all'inizio della sua formazione; è il momento in cui soggetto è oggetto appaiono nettamente separati perché il soggetto pone la verità fuori di sé, nel particolare, in ciò che è in sé. "Il contenuto concreto della certezza sensibile fa sì che essa appaia immediatamente come la coscienza più ricca, visto che le sensazioni sono tante, e come la più verace, infatti coglie immediatamente l’oggetto in tutta la sua pienezza: la coscienza è certa che il dato sensibile immediato, l'oggetto dei sensi, rappresenti la verità, ciò di cui non è possibile dubitare. Qui sta l’inganno dell’empirismo, filosofia secondo cui il pensiero scopre, immediatamente, la sua verità nel dato sensibile. In realtà questo grado di conoscenza si rivela come il più fragile e illusorio: la coscienza si rende conto di quanto sia falso porre la verità fuori di sé, nelle cose. Nella forma della certezza sensibile, la coscienza sa solo che l’oggetto che le sta di fronte "è", "esiste" nell’hic et nunc: è un “questo” individuato nelle dimensioni dello spazio (qui) e del tempo (ora) ma di esso non si sa niente al di là della sua mera presenza. Infatti, spazio e tempo non sono dimensioni oggettive ma dimensioni del pensiero e come tali hanno un carattere universale. È la situazione di chi, di fronte ad un oggetto sconosciuto, non sapendo designarlo con un nome appropriato, si limita a dire che “esso è”. Non è l’oggetto ad essere certo, ma le sue determinazioni “questo”, “qui” ed “ora” le quali si mostrano come vaghi e vuoti contenitori universali ed astratti, adatti genericamente a tutti gli oggetti e dunque proprie di nessuno. Quindi, per conoscere gli oggetti non basta essere sicuri che essi esistano ma bisogna far riferimento a categorie universali. Per concludere, l’oggetto della certezza sensibile, nella sua immediata singolarità, non ha verità. La verità coincide, infatti, con ciò che può essere pensato, cioè far riferimento ad una categoria universale, e linguisticamente espresso. Proprio nell’impossibilità di esprimere il contenuto singolare della certezza sensibile si manifesta la non verità di ciò di cui la coscienza ha certezza. La crisi della certezza sensibile rinvia all'Io e determina il passaggio alla successiva figura: si tratta di analizzare l'attività dell'Io nella sensazione, ovvero la percezione. 
Ø  La seconda figura della Coscienza è la percezione (antitesi). In questa figura compare un’altra contraddizione: da una parte l’oggetto appare diviso in parti e proprietà (cioè l’insieme delle sue qualità) ma dall’altra esso giunge a noi come oggetto unitario, in altre parole, si percepiscono le cose come unione di qualità sensibili. In un granello di sale, esemplifica Hegel, percepiamo molte qualità (è bianco, sapido, cubico ecc), che costituiscono però una realtà unitaria. In questa figura, la cosa di cui si fa esperienza viene considerata come il sostrato delle diverse qualità che vengono colte: la cosa percepita è vista come "sostrato", o "sostanza", cui le proprietà sensibili ineriscono. Così concepita, tuttavia, la "cosa" che unifica in sé le sue proprietà, come insegna l’empirismo, non è reale, ma un’entità prodotta dalla coscienza medesima. Anche secondo Kant, la categoria dell’unità non appartiene all’oggetto, non è intrinseca alla “cosa”, ma è frutto di un’operazione di sintesi compiuta dal soggetto, operazione che consente di fatto la conoscenza dell’oggetto. In effetti, le diversità delle percezioni dipendono dai differenti sensi, e rinviano quindi al soggetto, così come l'unità che definisce la cosa non deriva dalla cosa stessa, ma dal soggetto che la percepisce, nelle funzioni unificatrici della coscienza. È la coscienza a connettere le diverse proprietà percepite. Pertanto, non si dà mai oggetto di conoscenza senza un soggetto attivo nel processo di conoscenza. È la coscienza stessa che opera l’unificazione delle molteplici proprietà della “cosa”, che in tal modo diviene fenomeno nel senso kantiano del termine, è essa a fungere da “legislatrice dell’esperienza”. In tal modo, la coscienza tende ad uscire dalla mera contrapposizione tra oggetto e soggetto, vedendo in quest’ultimo l’ambito in cui si risolvono le leggi che governano l’oggettività.
Ø   Con la negazione della verità della percezione (la quale aveva a sua volta negato la certezza sensibile) si giunge così alla terza e conclusiva figura della Coscienza, quella dell'intelletto (sintesi): l'oggetto non viene più percepito dalla coscienza in quanto tale, cioè nella sua individualità, ma solo nelle relazioni con le altre cose, quindi come fenomeno, manifestazione, prodotto di nessi di causa ed effetto i quali per Hegel coincidono con le leggi e le forze che regolano il mondo naturale. È questo, in altri termini, l'atteggiamento scientifico. Hegel, influenzato dall'insegnamento kantiano, ritiene che queste leggi non sono sensibili, ma a priori. In altri termini, è il nostro stesso intelletto a porre le leggi alla natura: le leggi della natura, di cui ogni singolo fenomeno è manifestazione, dunque, sono poste dal nostro stesso intelletto. Con queste considerazioni di carattere kantiano sull'intelletto, si arriva ad un primo superamento della contrapposizione soggetto-oggetto, comincia cioè ad affacciarsi timidamente l'idea che soggetto e oggetto non siano, in fin dei conti, due entità radicalmente opposte tra loro. Prima che si giungesse al momento dell'intelletto, vi era un soggetto che conosceva e un oggetto (il mondo) che era conosciuto. Ma se ogni fenomeno che percepiamo è manifestazione della legge della natura e questa è posta dal nostro stesso intelletto, allora tale oggetto non è radicalmente distinto dal soggetto, ma anzi è il soggetto. La verità dell'oggetto sta non nell'oggetto ma nell'io, che "tiene insieme" e costituisce (kantianamente) il mondo sensibile attraverso le proprie categorie (qui entra in gioco quella di causa). In questa fase la Coscienza si rende conto di essere lo strumento che dà forma agli oggetti, in altre parole prende coscienza di se stessa e diviene AUTOCOSCIENZA, la certezza che l’Io ha di se stesso.
Ora, se nella prima sezione della Fenomenologia, Hegel ha illustrato momenti esclusivamente conoscitivi, appena si entra nella “tappa” dell'autocoscienza, ci si imbatte in una sfilza di nuove figure storiche e, almeno in apparenza, esulanti dalla gnoseologia: all'analisi della conoscenza segue l'analisi degli aspetti pratici (morali) della vita. Nel suo slancio espansivo, l’autocoscienza si scontra non più solo con gli oggetti della natura inanimata ma anche  con gli oggetti della natura animata che le fanno resistenza. Essa si impegna a sormontare questa resistenza, ad assoggettare, a godere, ad assimilare le cose, sperimentando così la loro nullità e la propria potenza. L’Autocoscienza è, quindi, appetito ("L’Io e la concupiscenza o l’appetito"). Essa realizza la propria indipendenza attraverso la continua negazione dell’esistenza indipendente del mondo: essa toglie l’alterità alle cose attraverso la continua appropriazione dell’oggetto desiderato. L’oggetto, il mondo, svanisce. Questo desiderio spasmodico di fagocitare la realtà diviene inquietudine: il soddisfacimento materiale datogli da un oggetto naturale non riesce più a placare l’Autocoscienza, essa ha bisogno del riconoscimento di un’altra autocoscienza.  Hegel spiega che l’io (l'autocoscienza) giunge alla sicurezza del suo esistere solo attraverso un altro io (un'altra autocoscienza, un altro uomo libero e pensante) che la riconosca come individuo. L’autocoscienza si vede come un'altra autocoscienza la vede. L’autocoscienza è un qualcosa di “riconosciuto”: il contenuto con cui un soggetto si conosce è un contenuto che altri riconoscono in lui. Ciò che il soggetto è, e sa di sé, è oggetto della soggettività altrui. Se prima la coscienza aveva preso consapevolezza di sè nel rapporto con le cose, ora si trova a dover compiere un nuovo cammino di autoconsapevolezza nel rapporto con le altre coscienze.
Nasce così la vita relazionale, che segna il passaggio dalla sfera privata a quella intersoggettiva e, quindi, sociale e pratica (nel senso kantiano di “morale”). Tale riconoscimento non avviene nella forma dell’amore, cioè in modo pacifico e imbelle, ma è il risultato di una lotta molto simile a quella prospettata da Hobbes. Tale lotta termina solo quando una delle due autocoscienze si sottomette all’altra. Vince quella che mette in gioco se stessa, quella che mostra di essere indipendente dal legame con la vita al punto da metterla a repentaglio, elevandosi ad un livello superiore rispetto alla pura naturalità. Questa è il signore. Perde, rimane al livello della naturalità quell'autocoscienza che mostrandosi asservita alla vita, preferendo la materialità alla spiritualità, rifiutandosi di rischiare, rinuncia alla propria autodeterminazione, quindi alla propria libertà. Questa è il servoMarx la apprezzò in modo particolare per la grande abilità con cui Hegel tratteggia la nascita della schiavitù, ma ancora di più per il fatto che Hegel dimostra, con la tecnica del capovolgimento dialettico, che il rapporto di schiavitù tende a stravolgersi nel suo contrario con la conseguenza che il vero padrone è il servo. Infatti, fa notare Hegel, il rimedio di asservire l'altra autocoscienza senza eliminarla, in realtà porta comunque all'eliminazione di essa, poichè si finisce per considerare l'autocoscienza-serva non più come un'autocoscienza, ma come una 'cosa'Infatti, il padrone, come già aveva dimostrato Aristotele, considera il proprio servo come una cosa, alla pari del bue o dell'aratro. Ne consegue che, essendo il servo una 'cosa' agli occhi del padrone, l'unico ad avere di fronte a sé un'autocoscienza è il servo appunto, poichè egli, nel padrone, continua a scorgere un'autocoscienza. Il padrone, non avendo più un'autocoscienza con cui confrontarsi, perde la propria stessa natura di autocoscienza e alla fine il vero padrone è il servo stesso, l'unico che si confronti con un'autocoscienza. Diverso sarà anche il rapporto col mondo materiale: il padrone non lavora, il servo sì, e lavorare significa dominare le cose mettendo l'impronta dello spirito nella materia. Il padrone, dal canto suo, vive la natura passivamente e non impone su di essa il proprio suggello: siamo di fronte al capovolgimento dialettico per cui ad essere veramente importante è il servo e non il padrone. Entrando nel dettaglio della dialettica servo-padrone, prima figura dell’Autocoscienza, che è identificabile nel periodo greco-romano o per altri critici nel dispotismo orientale, bisogna precisare che:
Ø  qui, la servitù, più che la subordinazione materiale (le catene dello schiavo), esprime una dipendenza interiore;
Ø  tali rapporti conflittuali non devono mai portare all'annullamento dell'autocoscienza antagonista, poiché un'autocoscienza non può davvero essere tale se non in rapporto con altre autocoscienze: venendo meno uno dei due opposti, anche l'altro si sgretola. Perciò il rapporto-conflitto tra le autocoscienze non porta mai alla distruzione totale di uno dei rivali, bensì porta all'asservimento, ovvero al prendere possesso in forma di schiavitù dell'autocoscienza antagonista: un'autocoscienza diventa padrona, l'altra schiava.
Naturalmente a diventare padrona sarà l'autocoscienza più forte, ma Hegel, secondo i dettami dell'idealismo, non fa riferimento alla forza fisica e materiale, ma a quella spirituale e dice testualmente che colui che diventa padrone è colui che non ha avuto timore della morte. C'è chi, piuttosto di diventare schiavo, preferisce correre il rischio della morte e chi, viceversa, piuttosto di correre il rischio della morte, preferisce diventare schiavo: in altre parole, vince per davvero chi fa prevalere dentro di sé l'aspetto spirituale, universale (rifiutando la servitù) e riesce a sconfiggere quello materiale, propria di colui che è chiuso nella propria singolarità (il timore della morte della carne). Disprezzando la servitù e preferendo la morte, si trionfa, ancor prima che sul nemico, all'interno di se stessi, facendo vincere la spiritualità. Ma anche quello tra servo e padrone è un rapporto dialettico, dinamico e aperto al capovolgimento.
Per il signore il servo è uno strumento mediante il quale agire sulle cose, è cosa egli stesso. Tuttavia, costringendo il servo a lavorare, a confrontarsi con il mondo della natura che oppone resistenza, il padrone rinuncia a dominare il mondo della natura e si rende dipendente dal servo. Sottomettendo il servo, il signore ne fa lo strumento mediante il quale appropriarsi delle cose, verso le quali ha un rapporto passivo, di pura fruizione. Al signore viene a mancare il momento dialettico dell'oggettivazione, del riconoscimento di sè in un altro.  Infatti, il riconoscimento che riceve dal servo non è quello che voleva ottenere all’inizio. Infatti, il servo, dipendendo dal signore, non ha autonomia, è ridotto ad una cosa al pari di un qualsiasi oggetto della natura. Di conseguenza il suo riconoscimento della superiorità del signore è inautentico: non avviene liberamente e quindi non è il riconoscimento da parte di un’autocoscienza di pari dignità. In altre parole, dinamiche come quella di dominio/sottomissione non possono produrre forme autentiche di riconoscimento: autentico riconoscimento si avrebbe solo nel momento in cui ogni autocoscienza offrisse liberamente all’altra la propria indipendenza in un rapporto di mutuo riconoscimento. Il padrone, insomma, non avendo più un'autocoscienza con cui confrontarsi, perde la propria stessa natura di autocoscienza e alla fine il vero padrone è il servo stesso, l'unico che si confronti con un'autocoscienza [5].
Dall’altra parte il servo aveva perso la propria indipendenza per aver avuto paura della morte, pertanto, l’autocoscienza servile è l’autocoscienza del soggetto che, come immagine di sé, ha l’immagine che l’altro (il signore) si è fatto di lui. In altre parole, l’autocoscienza servile concepisce la sua esistenza come schiavitù, e non vede altro senso per la propria esistenza che la mera esecuzione della volontà del signore. Il signore è la verità, l’essenza, l’assoluto del servo. Il servo, tuttavia, diviene libero nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, cioè attraverso il lavoro. Più in particolare, questo processo di progressiva acquisizione di indipendenza da parte del servo avviene attraverso tre momenti:
  Ø  paura della morte cioè non la paura di questo o di quello, ma la paura di perdere la propria essenza;
  Ø  servizio, col quale il servo si autodisciplina e impara a vincere la paura e gli altri istinti naturali;            Ø lavoro, attraverso il quale perviene alla coscienza della propria indipendenza, della sua capacità di dar forma alle cose, di trasformare la natura recalcitrante e ostile dandole il proprio ordine, di oggettivarsi in essa e quindi umanizzarla, conferendole cioè spiritualità, trasformandola in un prodotto spirituale: un tavolo non è solo un albero tagliato in un certo modo, ma un insieme di valori e di funzioni spirituali, un oggetto in cui è impressa la traccia dello spirito umano. In altre parole, attraverso il lavoro, il servo non è più quello di prima, diviene un altro, o meglio, come dice Hegel, nel lavoro la coscienza prende consapevolezza di sè, ritrova se stessa, ritrova la sua libertà, la sua spiritualità [6]: se il padrone, privo di un riconoscimento autentico, si è dissolto, il servo, attraverso il lavoro, prende consapevolezza della sua superiorità in quanto soggetto autonomo, libero. Si è realizzato quindi un capovolgimento dialettico: il servo diviene autocosciente mediante il lavoro, mentre il signore, che ha rinunciato ad uscire da sè, a confrontarsi con le cose lasciando al servo questo compito, perde gradualmente l'autocoscienza. Tuttavia, la libertà del servo è solo astratta perché egli di fatto è ancora dipendente dal signore: lo schiavo in catene può certo considerarsi libero e superiore nei confronti di colui che lo opprime, ma non per questo le catene cesseranno di vincolarlo. La coscienza, insomma, perviene alla conclusione che la sua è una libertà solo interiore: egli è libero solo nel pensiero puro, slegato dalla vita [7]. Questa concezione della libertà è la conclusione a cui la coscienza viene condotta dallo stoicismo e dallo scetticismo, due filosofie entrambe impegnate a criticare e a dissolvere la realtà. Ma queste sono forme di libertà ancora “astratte” e conducono, come vedremo, la coscienza alla sua infelicità. Spetta allo stoicismo il merito di aver tentato di uscire da questa condizione in cui si trova il servo insegnando che a contare non è la condizione materiale in cui ci si trova (tant’è che furono allo stesso modo stoici un re, Marco Aurelio, e uno schiavo, Epitteto). Pur ammettendone l’esistenza, lo Stoicismo nega l’importanza del mondo materiale verso il quale assume come atteggiamento l’atarassia, cioè l’indifferenza: la coscienza rimane del tutto impassibile di fronte  alla relazione con l’altro e con il mondo esterno, qualunque sia la forma in cui l’altro e la realtà si presentino. In altre parole, il “sé” della coscienza stoica rimane un “sé” estraniato, un “sé” schiacciato dalla propria interiorità, un “sé” separato dalla molteplicità delle cose e che quindi concepisce astrattamente l’alterità. Una più radicale negazione dell’alterità si realizza nella coscienza scettica: lo scetticismo porta alle estreme conseguenze queste considerazioni e, perpetuando, dilatando e assolutizzando la spaccatura tra interno ed esterno, arriva a mettere in dubbio l’esistenza di un mondo esterno al soggetto e invita a comportarsi come se il mondo materiale non esistesse.  Lo scetticismo fa piazza pulita di tutto ciò che la coscienza prendeva come sicuro, dei dati dei sensi, della percezione, del pensiero, ma anche dei costumi, delle norme e delle leggi vigenti (Hartmann)L'indifferenza verso il mondo da parte dello scettico, la negazione di ogni oggettività e l'affermazione solo della propria consapevolezza, della propria soggettività, si traduce in libertà assoluta ma astratta: la libertà così concepita è vuota, incapace di appagare la coscienza stessa. Spingendo fino in fondo il ragionamento, lo scettico cade in contraddizione logica interna, finisce per vivere in una contraddizione: se si deve dubitare dell’esistenza del mondo materiale, allora si deve dubitare di tutto, coscienza compresa. Lo scettico cade in una serie di contraddizioni: nega la validità della percezione ma percepisce, nega la validità del pensiero ma pensa. In effetti, il ragionamento scettico è paradossale: da una parte sostiene che niente è vero (quindi non esiste la verità), dall’altra pretende di dire una verità (cioè che niente è vero); in realtà, la potenza nientificante di questa contraddizione si volge anche verso la stessa coscienza. Il risultato è che la coscienza stessa, insieme a tutto il resto, perde valore e fiducia in se stessa: è quello che Hegel designa col nome di momento della coscienza infelice. La conquista della libertà dal mondo esterno non appaga l’autocoscienza, anzi questa risulta profondamente scissa in due realtà, l'una positiva (l'immutabile e l'uguale, o nel linguaggio hegeliano, l'intrasmutabile), l'altra negativa, in un divenire (il trasmutabile). Il positivo viene proiettato dalla coscienza fuori di sè, in un Essere irraggiungibile, perfetto e immutabile, un Dio trascendente; mentre il negativo è posto nella condizione umana. La coscienza infelice è, quindi, la coscienza che vive se stessa come coscienza finita, mortale, che per esistere deve ancorarsi a una realtà assoluta, infinita, del tutto estranea alla coscienza stessa (=Dio trascendente). In questa figura c’è quindi una profonda scissione tra l’autocoscienza dell’uomo (finita, mutevole e soggetta al peccato) e l’oggetto della coscienza, lo scibile, la realtà vera, assoluta, infinita, a cui la coscienza tende senza mai poterla raggiungere. La coscienza infelice è dunque la religione concepita come alienazione, e più in generale della separazione tra finito e infinito, avvertita come scissione dolorosa. Con tale scissione tra soggetto e realtà, tra l’uomo e Dio, tra l’immutabile e il mutevole, si chiude l’Età antica e si apre il Medioevo cristiano. Hegel, a differenza della maggior parte dei Romantici, non guarda con simpatia al Medioevo poiché in esso è il momento in cui domina la coscienza infelice. L’infelicità non indica una condizione psicologica o sentimentale, ma la consapevolezza di questa separazione ancora irrisolta, la consapevolezza della propria finitudine in rapporto a Dio: è la nostalgia dell'infinito, identificato con la divinità e avvertito come irraggiungibile da parte della coscienza umana, collocata in questo il mondo ma rivolta all’altro. Nella figura della Coscienza infelice ogni accostamento dell’uomo alla Divinità trascendente significa una mortificazione, un’umiliazione, un sentire la propria nullità, e da ciò deriva appunto l’infelicità. In realtà, tale scissione aveva registrato il suo momento più acuto con l’ebraismo, in cui Dio viene considerato come un giudice severo, dimorante in una trascendenza assoluta. Questa distanza viene colmata in una certa misura dal cristianesimo, il cui Dio, incarnandosi nell’uomo, si avvicina alla coscienza e al mondo. Questo tentativo di ricongiungersi con il divino per il tramite di un momento sensibile (Dio incarnato) si rivela però illusorio. Nel Cristianesimo si cerca insomma di rendere accessibile il Dio trascendente per mezzo del Dio incarnato (Gesù Cristo); tuttavia, secondo Hegel, la pretesa di cogliere l’Assoluto in una figura storica è destinata al fallimento, perché Cristo, vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur sempre lontano, e quindi per la coscienza rimane separato, estraneo. Dal punto di vista storico, ciò è evidente nell’evento delle crociate, in cui la coscienza, desiderosa di riunificarsi col divino per mezzo della pienezza sensibile, trova solo una desolante assenza: il “sepolcro vuoto”. La figura del sepolcro riguarda sia la coscienza infelice medievale sia la coscienza intesa come soggettività ancora legata alla realtà sensibile, al qui. Hegel vedrà nella figura delle crociate il simbolo storico di una verità metafisica: il sensibile non può contenere il concetto. Di conseguenza, anche con il cristianesimo, la coscienza continua ad essere infelice e Dio continua a configurarsi come un irraggiungibile al di là che sfugge. La vicenda della coscienza infelice trova il suo culmine, ma anche la sua conclusione, nell’ascetismo del cristianesimo medievale. Le figure dell’infelicità cristiano-medioevale sono:
Ø  la devozione, cioè il pensiero religioso-sentimentale che non è ancora elevata a concetto, essendo emozione pura e semplice. Pertanto il suo oggetto, Dio, resta qualcosa di estraneo, incomprensibile, trascendente; la coscienza tende verso l’immutabile, ma questi le sfugge continuamente e ciò la rende prigioniera in questa tensione, tipicamente romantica, di una infinita nostalgia che aumenta il dolore della scissione;
Ø  il fare o l’operare, cioè la coscienza rinuncia a cercare l’immutabile, ma cerca di esprimersi nel desiderio e nel lavoro. Anche questa esperienza ha però in sé una scissione: il lavoro, le nostre capacità vengono intese come doni di Dio. In questo modo, l’uomo si sente passiva nel suo operare;
Ø  la mortificazione di sé, cioè il momento di massima disperazione della coscienza relativamente alle proprie possibilità. L’ascetismo del cristianesimo medievale porta l’uomo a rinunciare ai propri piaceri, alla proprietà, alla volontà, al proprio io, alla propria individualità. Ma questa rinuncia dolorosa e drammatica è ciò che gli consentirà di riconoscere una volontà universale, Dio, come libertà assoluta e di unificarsi ad essa dopo essersi spogliato di ogni realtà particolare, sia interiore che esteriore. È questo il momento in cui avviene l’unificazione mistica col divino. Con l’ennesimo capovolgimento dialettico, che parte dalla concezione di un Dio radicalmente opposto all’uomo, si arriva con la mistica alla concezione di un’unità inscindibile tra uomo e Dio, si chiude la seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia e si apre la terza, la tappa della ragione. L’ascetismo diviene il momento più alto: rinunciando a sè, la coscienza si avverte parte di una realtà superiore, diviene consapevole che la propria individualità ha una dimensione più ampia del sue esistere particolare. Attraverso l'esperienza ascetica, l’uomo si innalza a Dio e si perde in Lui, trova il divino in se stessa. L’autocoscienza si rende conto di comprendere in sé l’intera realtà, di essere ogni realtà, di essere ragione.
La ragione è vista come il momento di unità e di conciliazione: solo chi ha sperimentato l’impotenza, lo svuotamento, la separazione può superare questa condizione, giungendo alla consapevolezza che nulla esiste all’esterno di se stesso. Hegel definisce la ragione come certezza di essere ogni realtà, ossia dell'acquisizione dell'unità di pensare e di essere. Vi è dunque quel passaggio da mistica a ragione che vi è stato anche nella realtà storica, quando dal Medioevo si è passati al Rinascimento. La ragione è certezza di essere ogni realtà grazie all’esperienza mistica: con essa, infatti, l’uomo si è assimilato a Dio e ha acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo soggetto/oggetto. Mistica e ragione sono pertanto due passi contigui: da notare che Hegel usa l’espressione certezza di essere ogni realtà e non sapere di essere ogni realtà, poiché se fosse un sapere sarebbe già il punto di arrivo. “Certezza”, invece, è il punto di partenza, è la dichiarazione generale che il soggetto ha acquisito consapevolezza di essere ogni realtà: dopo tale dichiarazione, spetta alla ragione cercare se stessa nella realtà, quasi come se si sapesse ciò che si è ma si dovesse cercare di capire il come e il perché. Si tratterà pertanto di una ricerca che la ragione conduce nella realtà in cerca di se stessa attraverso vai tentativi rappresentati da altrettante tappe. Queste tappe ripetono, ad un livello più alto, in forma di spirale ascendente, i tre momenti precedentemente esaminati.



[1] Hegel, “però non poté non avvertire le interferenze tra le due opere, per il fatto stesso che trapiantò nella Logica alcune sezioni della Fenomenologia ... E una fenomenologia molto ridotta, che esponeva i momenti dello sviluppo della coscienza, fu da lui inserita, tra l’antropologia e la psicologia, nella sezione dell’Enciclopedia dedicata allo spirito soggettivo (De Ruggiero).
[2] Non è certo l’esperienza del senso comune, ma un’esperienza la cui sicurezza è già scossa e che è invasa dal sentimento di non possedere tutta la verità (Marcuse).
[3] L’individuo particolare ha per Hegel il significato di una finitizzazione, è lo spirito incompiuto ... Non questo, dunque, bensì l’individuo universale è l’oggetto autentico della Fenomenologia. Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, come figure dello spirito già deposte, come tappe di un cammino che è già tracciato e spianato (Prefazione alla Fenomenologia).
[4] Come già detto, alcune triadi dialettiche sono atemporali (ed è il caso della coscienza e dei suoi tre momenti), altre temporali e storiche poiché i successivi momenti sono collocabili storicamente lungo una sequenza cronologica. Tuttavia, anche quando Hegel parla di tappe storiche non dobbiamo pretendere che egli segua una successione rigidamente cronologica, poiché sta semplicemente descrivendo tappe logiche di uno sviluppo che spesso (ma non sempre) seguono un loro ordine cronologico. Nello stesso studio della storia, del resto, si parla delle varie tappe dello stato moderno, ma sono tappe ‘ideali’ che non trovano un preciso riscontro nella realtà: si tratta semplicemente di un modo di ricostruirla in una sequenza temporale, senza ad esempio tener troppo conto delle varie differenziazioni tra uno stato e l’altro. Anche quelle che Hegel tratteggia sono tappe ideali, diverse dalla storia vera e propria: ed è proprio questa la differenza che Hegel scorge tra una filosofia della storia quale è la sua e una storia cronologica, pura elencazione di fatti in ordine cronologico. È opportuno, insiste Hegel, cogliere gli elementi di razionalità che reggono la storia secondo tappe ideali, evitando di incappare in una pedante descrizione di fatti.
[5] La figura della dialettica Padrone-Servo è stata apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali hanno visto in essa un’intuizione dell’importanza del lavoro e della dialettica della storia, nella quale, grazie all’esperienza della sottomissione, si generano le condizioni per la liberazione. Resta tuttavia una differenza fondamentale tra Marx ed Hegel: infatti la figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione sociale o politica, ma con la coscienza dell’indipendenza del servo nei confronti delle cose e della dipendenza del padrone nei confronti del lavoro servile.
[6] Questo punto della Fenomenologia rileva la notevole preparazione in materia di economia di Hegel, per il quale i conflitti non sono spirituali ma anche sociali e politici, nonché la riabilitazione che egli compie del lavoro.
[7] Fuor di metafora, questa situazione si verifica nel periodo della civiltà ellenistico-romana, quando si verifica la perdita delle libertà collettive, che avevano contrassegnato la polis, e l’affermarsi di imperi e regni dispotici. La perdita di libertà da parte del mondo greco si accompagna alla diffusione della sua cultura, che di fatto conquista il mondo occidentale. Ciò vuol dire che, pur in tempi di paura e di servitù, l’autocoscienza è libera nel senso che, come pensiero, essa è svincolata dalle condizioni esteriori.

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