sabato 15 dicembre 2012

Fichte: la missione del dotto


Fichte: la missione del dotto

Quella appena descritta è la missione dell'uomo, considerato come un individuo isolato. Ma l'uomo non è mai solo, perché è un essere che vive con gli altri e ha la missione di contribuire alla formazione di tutti gli uomini, facendo prendere loro consapevolezza della legge morale che è in ognuno. Rientra tra gli istinti fondamentali dell’uomo l'ammettere che esistano fuori di sé altri esseri ragionevoli a lui simili, e che egli debba entrare in un rapporto di socialità con essi. L'istinto sociale è, dunque, un istinto fondamentale dell'uomo: L'uomo - scrive il filosofo - ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società; se vive isolato, non è un uomo intero e completo, anzi contraddice a se stesso[1].
L’uomo, sentendosi un "io finito", ma aspirando all'infinito, cerca di superare la propria limitatezza partecipando alla vita degli altri esseri finiti a lui simili per natura, perché dotati di ragione, e in tal modo realizza la società.
Rivolgendosi ai suoi giovani studenti universitari di Jena, nelle celebri Lezioni sulla missione del dotto, Fichte pronuncia le seguenti ispirate e impegnative parole:
Voi giovani siete a vostra volta destinati a operare potentemente sull'umanità, a diffondere un giorno in una cerchia più o meno larga, sia con l'insegnamento che con l'azione, sia in entrambi i modi, la cultura che voi stessi avete ricevuta e così a innalzare beneficamente, per ogni dove, i nostri comuni fratelli a un grado più elevato di cultura; e io ora, operando per la vostra formazione spirituale, contribuisco probabilmente all'educazione di milioni di uomini ancora non nati[2].
Gli uomini devono vivere in società e tendere - questo è il fine supremo della società - alla completa unità di tutti i suoi membri. Tale finalità si basa sul presupposto che gli altri uomini sono esseri ragionevoli simili a noi, con i quali dobbiamo, dunque collaborare in vista del perfezionamento morale di tutti. Infatti, dato che la ragione presente in me richiede che io mi comporti in modo ragionevole nella vita morale, posso esser certo che tale ragione, presente in ogni uomo, richieda il medesimo impegno a tutti. E io stesso, essere dotato di ragione, voglio che la ragione trionfi non soltanto in me - il che sarebbe poca cosa - ma anche negli altri uomini.
Guardando più da vicino il tipo di relazione che gli uomini devono stabilire tra di loro, osserviamo che essi, in quanto dotati di ragione, devono obbedire a una duplice norma, una negativa e l'altra positiva. Innanzi tutto, non devono trattare gli altri uomini come mezzi, ma sempre solo come fini, come aveva già detto Kant. Se, infatti, io calpesto la libertà dell'altro, per ciò stesso distruggo la mia stessa libertà, rendendomi schiavo delle passioni e dell'egoismo. In secondo luogo, la legge morale ci impone di tendere non solo al nostro perfezionamento, ma anche a quello altri, attraverso l'educazione. E ciò si dimostra dal fatto che il fine della società è l’unità di tutti gli individui, un’unità che si consegue soltanto qualora tutti ricerchino la perfezione morale che, pur essendo irrealizzabile, va tuttavia perseguita con tutto l'impegno possibile.
Dalle considerazioni precedenti, Fichte fa discendere un'importante distinzione, quella tra società e Stato. Il vivere nello Stato non rientra tra le finalità assolute dell'uomo, a differenza del vivere in società, che invece si riferisce alla sua stessa natura. Lo Stato è per Fichte qualcosa di meramente empirico, che ora esiste, ma che potrebbe anche scoprire qualora gli uomini fossero migliori. Lo Stato, infatti, è detentore dei poteri della costrizione e della repressione grazie ai quali riporta l'ordine tra gli uomini. Esso è, dunque, uno strumento in vista della migliore organizzazione possibile, ma non è un fine. Al pari delle stesse istituzioni umane, che sono semplici mezzi, esso deve proporsi come proprio obiettivo quello di diventare inutile: scopo di ogni governo è quello di rendersi superfluo, come scopo di ogni buon padre è quello di far crescere il figlio in autonomia e dunque di lasciarlo sviluppare in autonomia. Oggi non è arrivato ancora tale momento, osserva il filosofo, né è possibile dire quando si verificherà, ma è sicuro che su quella via di progresso che è tracciata a priori all'umanità, è segnato un tal momento, in cui tutte le costrizioni esercitate dallo Stato saranno superflue[3]. La società perfetta, infatti, è quella in cui regna la libera collaborazione tra gli e in cui tutte le volontà riescono a trovare liberamente il reciproco accordo, in una superiore e razionale armonia di intenti. Abbandonandosi all'utopia, Fichte sogna, dunque, un futuro non meglio determinato, in cui l’uomo, libero dagli egoismi e dalle passioni, si farà guidare soltanto dalla ragione, la quale saprà porre rimedio agli errori (sempre possibili), senza bisogno di ricorrere all'autorità coercitiva dello Stato:
È quel momento in cui sarà universalmente riconosciuta, come giudice supremo, la pura ragione in luogo della forza o dell'astuzia. Dico sarà riconosciuta, poiché anche allora gli uomini porranno errare e per errore danneggiare i loro simili; ma essi allora avranno tutti necessariamente la volontà pronta a lasciarsi convincere dell'errore e, appena convinta di ciò, a ritrarsene e a risarcire il danno. Prima che questo momento sia giunto, noi non siamo ancora (universalmente considerati) neppure veri uomini[4].
Per quanto utopistica, questa pagina del filosofo rappresenta, però, la spia più eloquente della sua prospettiva idealistica, che vede l'uomo come caratterizzato dallo sforzo continuo di raggiungere una perfezione che, spostandosi sempre in avanti, non viene mai davvero raggiunta. E al perfezionamento infinito dell'umanità, grazie alla missione del dotto, Fichte dedica le pagine più belle delle sue celebri Lezioni.
Il dotto è la figura dell'intellettuale che ancor più degli altri uomini, non può vivere da solo, incurante delle sorti degli altri. Al contrario, il dotto è destinato in modo specialissimo alla vita sociale, avendo il compito di condurre tutti gli altri alla consapevolezza dei veri bisogni e di indicare i mezzi più adatti per raggiungere tale obiettivo. La missione del dotto è la più alta di tutte, ma ciò non significa che egli debba insuperbirsi, anzi il dotto ha motivi per essere il più modesto di tutti, perché resterà sempre lontano dalla meta che gli è assegnata, quella di realizzare un ideale di umanità assai nobile, che di solito non si riesce a guardare se non da lontano. Ma che cosa deve fare il dotto? Deve provvedere all’eguale sviluppo di tutte le facoltà dell'uomo e stimolare l’umanità a perseguire tale ideale. A tal fine, il dotto deve avere innanzi tutto la conoscenza scientifica dei bisogni umani, intesa però dal punto di vista filosofico, ossia come conoscenza dei doveri spirituali e morali dell'uomo. Da questa prospettiva, Ficthe ritiene che la filosofia sia la scienza suprema, perché è quella che più di tutte, riesce a determinare la vera natura dell'uomo. In secondo luogo, tocca al dotto indicare i mezzi più idonei al raggiungimento della suddetta perfezione spirituale, perché una filosofia in grado di fare ciò sarebbe inesorabilmente pessimistica e inutile. A tale scopo, la filosofia deve farsi coadiuvare dalla storia, che guarda indietro e registra i dati e gli stadi del perfezionamento morale che lo Spirito ha raggiunto nelle epoche del passato. La storia, dunque, è importante perché ci fa cogliere i fatti, ma senza la filosofia è incapace di interpretarli e orientarci verso il futuro. Storia e filosofia, dunque, rappresentano i contenuti essenziali del patrimoni conoscitivo del dotto, un patrimonio che Fichte denomina dottrina del dotto e deve riuscire utile alla società:
Lo scopo di tutte queste conoscenze - scrive Fichte - è dunque, quello di procurare che per mezzo di esse siano sviluppate in modo uniforme, però con costante progresso, tutte le attitudini proprie dell'umanità; e di qui si ricava, allora, la vera missione che è assegnata alla classe colta: essa consiste nel sorvegliare dall'alto il progresso effettivo del genere umano in generale e nel promuovere costantemente questo progresso[5].
Attribuendo al dotto la missione di sorvegliare "dall'alto" il progresso umano, l'autore non intende porre l'intellettuale su un piedistallo che lo separi dagli altri uomini, ma vuole riferirsi alla più profonda cultura del dotto che lo mette in grado di comprendere ciò che gli altri trascurano e, per conseguenza, di guidare il processo della storia. Il dotto, dunque, deve vegliare sui progressi delle altre classi sociali, ma per adempiere a tale gravoso ufficio, deve sforzarsi di progredire egli stesso, poiché dal suo progredire dipendono tutti progressi possibili negli altri campi della cultura. Egli deve essere sempre innanzi agli altri – dice il filosofo - per aprir loro la strada, esplorarla innanzi a loro e fare da guida[6]. Per quanto tali parole oggi possano sembrare fuori luogo, non si dimentichi il contesto storico in cui il filosofo le aveva pronunciate, quando la cultura non era diffusa e l'istruzione muoveva i primi passi nella direzione dell'alfabetizzazione di massa proprio grazie alle intuizioni di Fichte e del suo amico, il grande pedagogista svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827), che dedicò tutta la sua vita alla causa dell'educazione, aprendo in campagna una scuola elementare per i bambini poveri, in un terreno di sua proprietà.
Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Vol II, Paravia, pp. 628-631.

La missione del dotto (sintesi)

Ogni epoca storica presenta determinati aspetti del non-io perché, come detto, superati certi ostacoli, ne nascono di nuovi. Lo scopo principale diviene farsi liberi e rendere liberi gli altri in vista della completa unificazione del genere umano. Si richiede, pertanto, secondo Fichte, la mobilitazione di coloro che possiedono la maggior consapevolezza teorica, cioè dei “dotti”. Infatti, Fichte, nelle Lezioni sulla missione del dotto (1794), sostiene che gli intellettuali non devono essere degli individui isolati e chiusi nella torre della loro scienza, ma devono essere delle persone pubbliche e con precise responsabilità sociali: Il dotto è il modo specialissimo destinato alla società; in quanto tale egli esiste propriamente mediante e per la società…..deve condurre gli uomini alla  coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti a soddisfarli. Si delinea in questo passo la funzione di guida spirituale del dotto che, quale maestro ed educatore, quale uomo moralmente migliore del suo tempo, deve condurre gli uomini alla consapevolezza dei loro veri bisogni e i mezzi per conseguirli. Si tratta non dei bisogni materiali, ma di quelli spirituali. Il dotto, col suo lucido intelletto, deve guardare più lontano, deve scorgere prima degli altri quali sono gli ostacoli che il non-io pone nell’epoca storica in cui vive e indicare la rotta del progresso, per aiutare l’uomo a elaborare la strategia migliore, atta a superare questi ostacoli che si frappongono all’ulteriore liberazione dell’umanità. L’uomo di cultura deve costituire l’avanguardia dell’umanità che combatte per la propria libertà. Il fine supremo di ogni singolo uomo, come della società tutta intera, e – per conseguenza – di tutta l’operosità sociale del dotto è il perfezionamento morale di tutto l’uomo. Per esercitare la sua funzione di guida, il dotto non deve essere chiuso nell’orizzonte del presente, ma deve guardare al futuro, un futuro visto in modo utopistico dal filosofo come la realizzazione finale dello Spirito assoluto del mondo. Certo, Fichte riconosce in tutti gli uomini il “senso del vero”, ossia quella capacità naturale di riconoscere verità naturali semplici e comuni, che possano costituire le premesse per il riconoscimento della verità come tale, ma tale sentimento del vero da solo non basta: esso dev’essere sviluppato, saggiato, raffinato. In altri termini, il dotto, come già ricordato, deve farsi maestro ed educatore del genere umano.
Sintesi da:
Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Vol II, Paravia, pp. 645-647. Abbagnano-Fornero, Itinerari di Filosofia, Vol II B, Paravia, p. 852.
Lezione di Antonio Gargano, preside Istituto Italiano Per Gli Studi Filosofici di Napoli.



[1] Fichte, La missione del dotto, La Nuova Italia, Firenze 1939 e 1973, p. 41.
[2] Idem, p. 25.
[3] Idem, pp. 42-43.
[4] Idem, p. 43.
[5] Idem, pp. 91-92.
[6] Idem, p. 94.

1 commento:

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