martedì 8 ottobre 2013

I Pitagorici: i numeri irrazionali


GLI IRRAZIONALI: I NUMERI "CONTRARI" ALLA RAGIONE

L'eredità rivoluzionaria della scuola pitagorica
Alla scuola pitagorica si deve, come sappiamo, una delle più grandi conquiste dell'umanità, cioè la fondazione scientifica della matematica, così come è pitagorica l'idea della struttura matematica del mondo, che nel XVII secolo, con Galileo Galilei (1564-1642), si rivelerà centrale per la nascita della scienza moderna. Ai pitagorici, infine, si deve la prospettiva secondo cui l'intera vita del cosmo è retta da leggi esprimibili in termini di rapporti numerici, e proprio questa tesi metafisica finì per costituire sia il limite del pensiero pitagorico (e la causa contingente dello scioglimento della scuola), sia la ragione della sua grandezza e imprescindibilità per il pensiero scientifico successivo.

UNA NUOVA IDEA DI “VERITÀ”
I pitagorici intendevano i numeri come entità corporee, cioè come vere e proprie "cose" dotate di grandezza:
"[Per i pitagorici] esiste solo il numero matematico: ma essi sostengono che questo non è separato [dalle cose corporee] e che, anzi, è il costitutivo immanente delle sostanze sensibili. Essi costruiscono tutto quanto l'universo con i numeri: e questi sono non pure unità," ma unità dotate di grandezza.
(Aristotele, Metafisica, XIII, 6, 1080b, pp. 16-22)

I numeri di cui parlavano i pitagorici erano quindi gli elementi ultimi e indivisibili di cui erano costituiti tutti i corpi. Non a caso, coincidevano fondamentalmente con i numeri interi positivi, ovvero con quelli che noi oggi chiamiamo "numeri naturali" (l'1, il 2, il 3 ecc.) e non comprendevano lo zero, che, in quanto “entità nulla” era per loro inimmaginabile.
Questa idea, se da una parte ha un suo fondamento nel modo in cui di fatto si apprende il concetto di numero, e cioè compiendo l'atto di enumerare o contare (vedendo e quantificando delle entità sensibili), dall'altra va incontro a una difficoltà in cui gli stessi pitagorici non poterono evitare di imbattersi.
Questa idea, se da una parte ha un suo fondamento nel modo in cui di fatto si apprende il concetto di numero, e cioè compiendo l'atto di enumerare o contare (vedendo e quantificando delle entità sensibili), dall'altra va incontro a una difficoltà in cui gli stessi pitagorici non poterono evitare di imbattersi.
Come è noto, a Pitagora si attribuisce il famoso teorema per cui, in un triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Sulla base di questo teorema, i pitagorici cercarono di individuare il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato, scoprendo che esso non corrispondeva né a un numero intero, né a una frazione tra numeri interi, bensì a √2, il cui valore non può essere calcolato se non per approssimazioni via via maggiori, tendenti all'infinito (1,414213562373 ... ).
La scoperta dell'esistenza di due grandezze tra loro incommensurabili (la diagonale e il lato di un quadrato, appunto) rappresentò, per un verso, il motivo della fine della concezione pitagorica del numero e, per l'altro verso, l'eredità più grande trasmessa dai pitagorici al pensiero filosofico e scientifico successivo. Essa, infatti, aprì ufficialmente le porte al concetto di infinito e al metodo dimostrativo.
Se l'accettazione dell'infinito, o della divisibilità all'infinito (rappresentata da tutte le cifre che in (2 vengono dopo la virgola) fu uno dei maggiori ostacoli che il pensiero greco si trovò ad affrontare, la dimostrazione divenne invece un caposaldo della riflessione filosofica e scientifica (si pensi agli Elementi del matematico greco Euclide). E proprio l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato costituì il primo grande esempio di "verità" che si è costretti ad accettare in base a pure argomentazioni, di una verità che era stata dimostrata in modo talmente rigoroso da avere la forza di sfidare perfino le credenze metafisiche più radicate. In altre parole: se, prima della dimostrazione dell'esistenza delle grandezze incommensurabili, il pensiero pitagorico concepiva la verità come qualcosa che doveva essere in accordo con l'esperienza dei sensi (in particolare della vista) e, perciò, come qualcosa di “positivo”,  in seguito si fece strada l'idea che una verità non dovesse necessariamente essere “vista”, ma potesse scaturire da una semplice dimostrazione, cioè da un “ragionamento” e questo fece fare alla matematica greca un vero e proprio “salto” verso un pensiero davvero "razionale".

UNA NUOVA IDEA DI "RAGIONE"
Paradossalmente, la scoperta delle grandezze incommensurabili portò però con sé anche un'altra importante conseguenza, ovvero la trasformazione del concetto stesso di “ragione”.
Per i pitagorici la realtà era "razionale" in quanto esprimibile mediante numeri interi o rapporti tra numeri interi (ancora oggi, noi chiamiamo "razionali quei numeri che possono essere espressi mediante frazioni di interi). Le grandezze incommensurabili costituivano quindi un vero e proprio scandalo: i pitagorici le definirono “irrazionali” in greco a-loga, cioè prive di logos (di ragione), distinguendole dai numeri, che non potevano che essere razionali. La differenza tra i numeri e le grandezze divenne così (per i pitagorici e per tutta la matematica greca) la differenza tra le quantità discrete oggetto dell'aritmetica e le quantità continue oggetto della geometria.
L'accettazione del concetto di “numero irrazionale” cominciò a farsi strada solo con il matematico pitagorico Teodoro di Cirene (nato intorno al 465 a.c.), per essere seguita dal filosofo ateniese Teeteto (415-369 a.c. circa) e dall'astronomo Eudosso di Cnido (409-356 a.c.). Essa costituì per la matematica una grande rivoluzione, che implicò una profonda revisione della stessa idea di numero: non si definì più il rapporto (ratio) a partire dai numeri (interi), ma viceversa il numero fu definito a partire dal rapporto ("razionale" o "irrazionale"). Da allora, "razionale" non è più quel che è misurabile in base a una unità di misura data (un numero intero), ma, in generale, quel che è espresso da un “rapporto”: non a caso la parola latina ratio, come il greco logos, significa anche “rapporto”.
Scrive a questo proposito il logico ed epistemologo parigino Gilles-Gaston Granger (nato nel 1920):
"Da allora l'irrazionalità non appare più come un ostacolo, ma come la più generale condizione della relazione tra grandezze [... ]. L'uso ordinario e filosofico ha mantenuto la parola “irrazionale”; ampliandone tuttavia il significato al di là della situazione originaria di non-rappresentabilità per mezzo di un logos tra numeri interi".
(G.-G. Granger, L'irrationnel, Odile Jacob, Paris 1998, p. 49, trad. nostra)

Così, la scoperta dei numeri irrazionali, che fu il motivo della più grande crisi della scuola pitagorica (e, si può dire, del pensiero antico), attraverso i secoli si rivelò come il motivo della sua maggiore gloria.


LABORATORIO DELLE IDEE

1.       In queste pagine abbiamo richiamato che i numeri come √2 sono formati da infinite cifre decimali: insieme con i numeri irrazionali, nella matematica fece dunque irruzione l'infinito o, meglio, l’idea della divisibilità all’infinito, cioè della possibilità che un'operazione di divisione non si annulli mai (non pervenga mai a un risultato senza "resto"). Questo risultato, così importante per la storia della matematica e per il pensiero filosofico in generale, fu però accettato con difficoltà dai pensatori greci antichi, che faticavano a staccarsi dall’idea di un mondo fatto di "individui" (il latino individuum significa appunto "non-divisibile"), sia a livello fisico (pensiamo agli atomi) sia a livello personale: infatti, se tutto è divisibile all’infinito, che ne è dell’identità di cose e persone? Qual è la tua idea in proposito? Ritieni che esista un "punto" ultimo in cui la divisibilità del reale deve necessariamente arrestarsi, oppure no?
2.  La preziosa lezione che il pensiero pitagorico ha consegnato alla posterità come una conquista definitiva e irrinunciabile è l’idea che la scienza impara dalle sue stesse crisi, il che è anche un invito a non accettare mai come definitive in senso assoluto le sue verità, che possono essere sempre in qualche modo rivedibili. Pensi che sia davvero questa 1’immagine della scienza maggiormente diffusa, e se no perché?

domenica 31 marzo 2013

Kierkegaard: angoscia e disperazione


Angoscia e disperazione
A differenza degli animali, mere macchine guidate dagli istinti, dal regno della necessità, gli uomini non sono determinati dalla loro natura biologica, ma vivono un’esistenza di libertà e possibilità. La categoria su cui Kierkegaard costruisce la sua filosofia è quella della possibilità, intesa, ancora una volta, in polemica con la filosofia della necessità di Hegel.
La filosofia di Hegel è una filosofia della necessità a causa del suo carattere essenzialmente logico: lo stesso succedersi dialettico dei concetti presenta un automatismo determinato dal meccanismo della contraddizione e dell'Aufhebung. In questo quadro rientrava bene allora una concezione della libertà che da un lato, in senso pienamente idealistico, veniva identificata con l'autocoscienza, con la semplice consapevolezza di non essere determinati da nulla di esterno, e che dall'altro veniva ammessa solo in quanto identica con la superiore necessità dello spirito (si pensi all'astuzia della ragione).
Ben altra è invece la nozione kierkegaardiana di libertà. Ed è altra proprio perché si fonda sulla nozione di possibilità, di scelta, di rischio, di paradosso. Il concetto kierkegaardiano di possibilità apre, quindi, ampi spazi alla libertà, alla scelta, al rischio, ma proprio perciò anche al fallimento, alla perdizione, all’annientamento e quindi alla disperazione. Kierkegaard stesso definisce la possibilità “come la più pesante di tutte le categorie”, in quanto “nella possibilità tutto è ugualmente possibile”: ed è proprio questa “onnipotenza della possibilità” ciò che genera un universale sentimento di angoscia.
L’angoscia è la connotazione emotivo-esistenziale della possibilità[1]; è quella situazione emotiva che si prova di fronte a un nulla che può però diventare tutto, di fronte a una minaccia ignota e indeterminata, che se solo fosse nota o determinata verrebbe appunto ridimensionata, controllata, si trasformerebbe cioè in paura, provocando una reazione e una strategia di difesa. È paralizzante e generatrice di inquietudine ma differisce dalla paura che si riferisce sempre ad un oggetto determinato. Al contrario, l’angoscia non ha un oggetto determinato ed è strettamente connessa alla libertà dell’uomo e alla scelta che egli deve in ogni caso compiere. L'angoscia è la condizione propria dell'uomo di fronte al potere (possibilità) infinito e difficilmente gestibile che gli offre la sua libertà. Da un lato dunque la possibilità sembrerebbe aprire uno spazio di libertà rivitalizzante, sembrerebbe consentire un ampio margine di libertà perché, a differenza della necessità, in essa tutto è possibile, tutte le alternative sono aperte. Dall'altro lato però questa onnipossibilità e questo ampio margine di libertà e di scelta si convertono in un incubo fatalistico, come il peso di una maledizione che Kierkegaard, anche da un punto di vista biografico, ha visto pendere sulla sua famiglia. Per questo essa è la categoria più pesante in quanto, se tutto è possibile, occorre fare appello al nostro senso di responsabilità, occorre sapere usare bene tali spazi di libertà e di scelta che essa ci spalanca; ma è pesante anche in un senso diverso, fatalistico appunto, perché se tutto è possibile la nostra condizione e la nostra sorte sono estremamente vacillanti, possono sempre mutare e rovesciarsi improvvisamente, ci manca un saldo terreno sotto i piedi. Al punto che, oppressi dal peso di una responsabilità che non sappiamo reggere, di un'angoscia e di una libertà che sono sproporzionate rispetto alla nostra finitezza, quasi imploriamo una superiore necessità a cui affidarci. Questa inquietudine si potrebbe placare solo in Dio ma, in quanto liberi, possiamo anche scegliere altro, scegliere di vivere lontano da Lui. Una scelta in tal senso porta al peccato nel senso in cui viene comunemente inteso. Ma al di là del peccato come scelta, il peccato è connaturato all’esistenza stessa: è il peso della colpa derivante dal peccato originale da cui scaturisce la disperazione. Con questa espressione Kierkegaard indica l’impossibilità di essere autenticamente noi stessi, in quanto tale impossibilità si radica nella struttura stessa del nostro io, della nostra identità. La disperazione è la “malattia mortale”, “un eterno morire senza morire”, “è l’assenza della speranza di poter vivere”, “il vivere la morte dell’io”. È l’insuperabile incapacità da parte dell’io di risolvere la problematicità del suo rapporto con l’infinito. Se l’angoscia nasce dal timore del peccato, la disperazione è l’esperienza del peccato stesso. Si potrebbe allora concludere che il permanere nella «possibilità infinita» è per l'uomo l'origine della «disperazione della possibilità» (“alla fine è come se tutto fosse possibile, ma è proprio questo il momento in cui l'abisso ha ingoiato l'io”), se questa non trova un ancoraggio nella necessità.
Ciò non significa certo ritornare alle filosofie panteistiche della necessità, come quelle di Spinoza o di Hegel, perché non meno disperante è vivere sotto il segno della necessità che esclude ogni possibilità. Si tratta solo di ricomprendere la possibilità e la libertà che essa spalanca all'interno di una cornice che possa salvaguardarle entrambe: ciò che salva è in altri termini la fede nell'idea che «per Dio tutto è possibile», ovvero che la libertà di Dio è assoluta. E l'idea per cui tutto sia possibile perde quel carattere di angosciosa, fatale, irrazionale minaccia, perché tale onnipossibilità è gestita ovvero limitata, agli occhi di chi ha fede, dall'amore di Dio, a cui possiamo affidarci con serenità.
Potrebbe questa sembrare una riedizione della concezione idealistica della libertà come identica alla necessità: il fatto è che per Kierkegaard una possibilità (e una libertà) affidata solo a se stessa, senza salvaguardia teologica, degenera nel suo contrario. Tutto sembra allora ruotare attorno alla fede e a una corretta concezione di Dio.
La disperazione può essere incosciente, quando si pensa di essere felici godendo dei piaceri della vita, oppure cosciente. In questo secondo caso, può essere il punto di partenza del cammino verso la fede, ma anche il presupposto del rifiuto totale di Dio e della salvezza: la disperazione “demoniaca” dell’ateo.
Angoscia e disperazione sono dimensioni esistenziali inevitabili e persino auspicabili: ci inducono a cercare Dio e ad abbracciare la fede. Esse offrono all’individuo la possibilità di prendere coscienza della sua finitezza, di interrogarsi sulla sua vita, di capire che all’origine del senso di privazione è la mancanza di Dio. La disperazione è quindi la malattia mortale, ma bisogna anche riconoscere che “non averla mai avuta (non aver mai fatto esperienza di peccato) è la peggiore disgrazia”: la salvezza non può prescindere dal peccato. Solo la fede permette di uscire da questa condizione di stallo e di disperazione perché essa impone all’uomo il riconoscimento della propria insufficienza, della propria limitazione, della propria dipendenza da Dio e indica in Questo la meta in cui riconoscersi, la persona a cui affidarsi. L’uomo di fede da un lato sembrerebbe avere un ruolo con la sua volontà e il senso di responsabilità, ma dall’altra ha la consapevolezza che l’uomo di fronte a Dio è nulla e che la fede stessa gli proviene da Dio, il quale è differenza assoluta, differenza infinta rispetto ad ogni realtà finita, e dunque a Dio e non all’uomo spetta l’iniziativa del rapporto.



[1] La successiva filosofia esistenzialistica, sviluppatasi nel corso del Novecento ad opera di autori come Karl Barth 0886-1968), Martin Heidegger (1889-1976), Karl Jaspers (1883-1969), Jean Paul Sartre (1905-1980), partirà proprio da una riflessione su questa coppia di concetti kierkegaardiani.

giovedì 7 marzo 2013

Il mito di Er


      La necessità razionale di un premio per i giusti e di una punizione per i malvagi porta a questo mito, con cui si conclude la Repubblica. In esso troviamo un tentativo di spiegazione di due importanti dottrine sulla conoscenza: quella sulla reminiscenza (conoscere come ricordare) e quella sull’innatismo (presenza in noi di idee non derivate dall’esperienza sensibile). Viene affermata la teoria della reincarnazione (anche in animali). Per le anime è possibile una scelta libera solo nel primo momento della reincarnazione, poi essa è soggetta al destino. Platone approfitta dell’occasione per sottolineare il suo giudizio negativo sui tiranni.
    
       Repubblica, 614 a-621 d

1             [614 a] Ecco dunque, dissi, quali sono i premi, le mercedi e i doni che il giusto ottiene da vivo dagli dèi e dagli uomini, oltre a quei beni che la giustizia procurava per se stessa. – Certo, ammise; beni belli e sicuri. – Ma questo è nulla, replicai, per quantità e per grandezza, rispetto a ciò che attende dopo la morte sia il giusto sia l’ingiusto. E bisogna parlarne, perché ciascuno dei due riceva esattamente ciò che il discorso gli deve. – [b] Parlane pure, rispose. Ben poche sono le cose che mi offrono maggiore diletto quando le ascolto. – Non ti racconterò certo un apologo di Alcínoo, feci io, ma la storia di un valoroso, Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia. Costui era morto in guerra e quando dopo dieci giorni si raccolsero i cadaveri già putrefatti, venne raccolto ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà. Ed ecco il suo racconto. Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte [c] altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo. E lí vedeva le anime che, dopo avere sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e] quelle che via via arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi come in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i racconti, le prime [615 a] gemendo e piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i molti particolari, ma la sostanza del suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da ciascuno, avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo avveniva ogni [b] cento anni, perché tale è la durata della vita umana). Ciò perché il castigo subíto fosse il decuplo della colpa: perché ad esempio, i responsabili della morte di molte persone per aver tradito città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero stati complici di altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple; e, viceversa, perché coloro che avessero fatto dei benefíci e fossero stati giusti e pii, fossero premiati nella [c] medesima proporzione. Altro diceva dei morti súbito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma sono cose che non merita ricordare. Ancora maggiori, secondo il suo racconto, erano le mercedi per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per l’omicidio. Asseriva infatti di essersi appunto trovato accanto a uno cui un altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si [d] diceva, aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e si era macchiato di molte altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva risposto: “Non viene né potrebbe venir qui”.
2             “Infatti tra gli altri orrendi spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso lo sbocco, lí lí per risalire e trovandoci ad aver subíto tutte le altre prove, d’improvviso scorgemmo lui e altri, per lo piú tiranni, ma c’era anche gente privata, colpevole di gravi peccati. Essi [e] credevano ormai che sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un muggito ogni volta che uno di questi scellerati inguaribili o uno che non avesse ancora espiato nella misura dovuta tentava di salire”. Lí presso, raccontava, c’erano uomini feroci, tutti fuoco a vedersi, che sentendo quel boato afferravano gli uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad Ardieo e ad altri avevano [616 a] legato mani, piedi e testa, li avevano gettati a terra e scorticati, e li trascinavano lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante di aspalato. E a coloro che via via sopraggiungevano, spiegavano quali erano le ragioni di tutto questo aggiungendo che li conducevano via per gettarli nel Tartaro. Laggiú, continuava, avevano provato molti terrori di ogni genere, ma tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al momento di salire. E ciascuno era stato molto contento di venir su senza sentirlo. Queste erano all’incirca le pene e i castighi [b] e le corrispondenti ricompense. Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma piú intensa e piú pura. Vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere insieme tutta la circonferenza. Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke [la personificazione del Destino immutabile], per il quale giravano tutte le sfere. Il suo fusto e l’uncino erano di diamante, il fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie. Il fusaiolo aveva questa natura: [d] per la figura era come quello che si usa in questo nostro mondo, ma il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se entro un grande fusaiolo cavo e interamente intagliato fosse incastrato un altro consimile, ma piú piccolo, come quei vasi che entrano esattamente l’uno [e] nell’altro; e cosí un terzo, un quarto e altri quattro. Tutti insieme i fusaioli erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e superiormente mostravano i loro orli circolari; costituivano il dorso continuo di un unico fusaiolo accentrato sul fusto e il fusto passava da parte a parte l’ottavo fusaiolo lungo l’asse mediano. Il primo fusaiolo, il piú esterno, aveva il cerchio dell’orlo molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto, il quarto, l’ottavo, il settimo, il quinto, il terzo, il secondo. Il cerchio del maggiore era variegato, quello del settimo lucentissimo, quello [617 a] dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che lo illuminava, quelli del secondo e del quinto si somigliavano, ma erano piú gialli dei precedenti; il terzo aveva una tinta bianchissima, il quarto rossastra, il sesto veniva al secondo posto per bianchezza. Il fuso ruotava tutto volgendosi con moto uniforme e nel girare dell’insieme i sette cerchi interni giravano lenti in direzione opposta. Il piú rapido era l’ottavo, [b] secondi venivano, tutti insieme, il settimo, il sesto e il quinto; terzo in questo moto rotatorio era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto rispettivamente il terzo e il secondo. Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte otto le note creavano un’unica armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio a [c] eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire, in abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne accompagnava il giro esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni; e Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello esterno.Al loro arrivo, le anime dovevano presentarsi a Lachesi. E un araldo divino prima le aveva disposte in fila, poi aveva preso dalle ginocchia di Lachesi le sorti e vari tipi di vita, era salito su un podio elevato e aveva detto: “Parole della vergine Lachesi sorella di Ananke. Anime dall’effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova [e] morte. Non sarà un dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtú non ha padrone; secondo che la onori o a spregi, ciascuno ne avrà piú o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile”. Con ciò aveva scagliato al di sopra di tutti i convenuti le sorti e ciascuno raccoglieva quella che gli era caduta vicino, salvo Er, cui non era permesso di farlo. Chi l’aveva raccolta vedeva chiaramente il numero da lui sorteggiato. [618 a] Subito dopo <l’araldo> aveva deposto per terra davanti a loro i vari tipi di vita, in numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano di ogni genere: vite di qualunque animale e anche ogni forma di vita umana. C’erano tra esse tirannidi, quali durature, quali interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e miseria. C’erano pure vite di uomini celebri o per l’aspetto esteriore, per la bellezza, per il [b] vigore fisico in genere e per l’attività agonistica, o per la nascita e le virtú di antenati; e vite di gente oscura da questi punti di vista, e cosí pure vite di donne. Non c’era però una gerarchia di anime, perché l’anima diventava necessariamente diversa a seconda della vita che sceglieva. Il resto era tutto mescolato insieme: ricchezza e povertà o malattie e salute; e c’era anche una forma intermedia tra questi estremi. Lí, come sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l’uomo; e per questo ciascuno [c] di noi deve stare estremamente attento a cercare e ad apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se riesce ad apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se riesce ad apprendere e a scoprire chi potrà comunicargli la capacità e la scienza di discernere la vita onesta e la vita trista e di scegliere sempre e dovunque la migliore di quelle che gli sono possibili: ossia, calcolando quali effetti hanno sulla virtú della vita tutte le cose che ora abbiamo dette, considerate insieme o separatamente, sapere che cosa produca la bellezza mescolata a povertà [d] o ricchezza, se cioè un male o un bene, e quale condizione dell’anima a ciò concorra, e quale effetto producano con la loro reciproca mescolanza la nascita nobile e ignobile, la vita privata e i pubblici uffici, la forza e la debolezza, la facilità e la difficoltà d’apprendere, e ogni altra simile qualità connaturata all’anima o successivamente acquisita. Cosí, tirando le conclusioni di tutto questo, egli potrà, guardando la natura dell’anima, scegliere una vita peggiore [e] o una vita migliore, chiamando peggiore quella che la condurrà a farsi piú ingiusta, migliore quella che la condurrà a farsi piú giusta. E tutto il resto lo lascerà perdere. Abbiamo veduto che è questa la scelta migliore, da vivo [619 a] come da morto. Con questa adamantina opinione egli deve scendere nell’Ade, per non lasciarsi neppure lí impressionare dalle ricchezze e da simili mali, per non gettarsi sulle tirannidi e altre condotte del genere e quindi commettere molti insanabili mali, e per non patirne lui stesso di ancora maggiori; ma per sapere sempre scegliere tra cotali vite quella mediana e fuggire gli eccessi nell’uno e nell’altro senso, sia, per quanto è possibile, in questa nostra vita, sia in tutta la vita futura. Cosí l’uomo può raggiungere [b] il colmo della felicità.
3             In quel momento, dunque, secondo quanto narrava il nunzio che veniva di là, l’araldo divino aveva parlato cosí: “Anche chi si presenta ultimo, purché scelga con senno e viva con regola, può disporre di una vita amabile, non cattiva. Il primo cerchi di scegliere con cura e l’ultimo non si scoraggi”. A queste parole, raccontava Er, colui che aveva avuto la prima sorte si era subito avanzato e aveva scelto la maggiore tirannide. A questa scelta era stato spinto dall’insensatezza e dall’ingordigia, senza averne [c] abbastanza valutato tutte le conseguenze. E cosí non s’era accorto che il fato racchiuso in quella scelta gli riservava la sorte di divorarsi i figli, e altri mali. Quando l’aveva esaminata a suo agio, si percoteva e si lamentava della scelta, senza tenere presenti le avvertenze dell’araldo divino. Non già incolpava se stesso dei mali, ma la sorte e i dèmoni, tutto insomma eccetto sé. Egli apparteneva al gruppo che veniva dal cielo e nella vita precedente era vissuto in un [d]8 regime ben ordinato, ma aveva acquistato virtú per abitudine, senza filosofia. E per quanto se ne poteva dire, tra coloro che si lasciavano sorprendere in simili imprudenze non erano i meno quelli che venivano dal cielo: perché erano inesperti di sofferenze. Invece coloro che venivano dalla terra, per lo piú non operavano le loro scelte a precipizio: perché avevano essi stessi sofferto o veduto altri soffrire. Anche per questo, oltre che per la fortuna nel sorteggio, la maggior parte delle anime permutava mali con beni e beni con mali. Perché se uno, quando arriva a questa nostra vita, pratica sempre sana filosofia, e se nel momento [e] della scelta la sorte non gli cade tra le ultime, ha buone probabilità, secondo le notizie di lí riferite, non solo di essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da qui a lí e da lí a qui non per una strada sotterranea e aspra, ma liscia e celeste. Meritava poi vedere, diceva, come le singole anime sceglievano le loro vite. [620 a] Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso! La maggioranza sceglieva secondo le abitudini contratte nella vita precedente. Diceva d’avere veduto l’anima che era stata un tempo di Orfeo intenta a scegliere la vita di un cigno: non voleva nascere da grembo di donna per l’odio che nutriva verso il sesso femminile che aveva cagionato la sua morte [disperato per non essere riuscito a riportare dall’Ade alla vita terrena la sposa Euridice, orfeo vagava per le montagne della Tracia sfogando il suo dolore, quando, imbattutosi in uno stuolo di Baccanti, ne venne selvaggiamente dilaniato]; e l’anima di Tamiri [fu il primo dei cantori di corte; narrava la leggenda che, insuperbitosi per la propria bravura, volle gareggiare con le Muse e ne fu accecato per punizione] scegliere la vita di un usignolo. Aveva visto anche un cigno che con la sua scelta mutava la propria vita in quella umana, e cosí pure [b] altri animali canori. L’anima che era stata designata ventesima dalla sorte aveva scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal diventare uomo ricordandosi del giudizio relativo alle armi [si tratta della contesa per le armi di Achille aggiudicate a Odisseo anziché ad Aiace che se ne riteneva piú meritevole; di qui la ragione del corruccio dell’ombra di Aiace quando Odisseo scende nell’Ade (Odissea, XI, 543-565)]. Dopo di lui veniva quella di Agamennone: anche questa, per ostilità verso il genere umano dovuta alle sofferenze patite, aveva scambiato la sua vita con quella di un’aquila. Posta dalla sorte nel gruppo di mezzo, l’anima di Atalanta, come aveva scorto grandi onori riservati a un atleta, non era stata capace di passare oltre e li aveva [c] raccolti [Atalanta, celebre per la velocità nella corsa, fu vinta tuttavia da Ippomene che durante la gara le gettò magnifiche mele che ella si fermò a raccogliere]. Dopo di lei, aveva visto l’anima di Epeo, figlio di Panopeo [Epeo fu un pugile che partecipò alla guerra di Troia; Omero ne ricorda l’incontro avventuroso con Eurialo (Iliade, XXIII, 664-700) e la costruzione del famoso cavallo di legno sotto la guida di Atena (Odissea, VIII, 492 e segg.; XI, 523)], assumere la natura di una donna operaia; lontano, tra gli ultimi, quella del buffone Tersite penetrare in una scimmia [Tersite è il popolano guercio, zoppo e gobbo che vomita ingiurie contro i comandanti greci e propone la ritirata da Troia dell’esercito acheo, finché Odisseo non lo riduce al silenzio bastonandolo con lo scettro (Iliade, II, 212-277)]. S’era avanzata poi a scegliere l’anima di Odísseo, cui il caso aveva riservato l’ultima sorte: ridotta senza ambizioni dal ricordo dei precedenti travagli, se n’era andata a lungo in giro cercando la vita di un privato individuo schivo di ogni seccatura. E non senza pena l’aveva [d] trovata, gettata in un canto e negletta dalle altre anime; e al vederla aveva detto che si sarebbe comportata nel medesimo modo anche se la sorte l’avesse designata per prima; e se l’era presa tutta contenta. E nello stesso modo passavano dalle altre bestie in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle selvagge, le giuste in quelle mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere. Dopoché tutte le anime avevano scelto le rispettive vite, si presentavano a Lachesi nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno il dèmone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la [e] vita e adempisse il destino da lui scelto. Ed esso guidava l’anima anzitutto da Cloto, a confermare, sotto la sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che s’era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo e quindi la conduceva alla trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di lí senza volgersi <ciascuno> si recava sotto [621 a] il trono di Ananke e gli passava dall’altra parte. Dopoché anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva [b] di piú della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s’erano addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato un tuono e s’era prodotto un terremoto: e d’improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti filando come stelle cadenti. Lui, Er, aveva ricevuto divieto di bere quell’acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo corpo non sapeva. Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto all’alba giacere sulla pira. E cosí, Glaucone, s’è salvato il mito e non è [c] andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l’anima nostra. Se mi darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può soffrire ogni male e godere ogni bene, sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia insieme con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli dèi, sia finché [d] resteremo qui, sia quando riporteremo i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo premio; e per vivere felici in questo mondo e nel millenario cammino che abbiamo descritto.

martedì 5 marzo 2013

Le origini del totalitarismo (H. Arendt)


Arendt Le origini del totalitarismo
In quest'opera, una filosofa che subì direttamente le persecuzioni antiebraiche affronta da un punto di vista di filosofia politica e di interpretazione psicologica il fenomeno del totalitarismo nelle sue varie manifestazioni novecentesche.

L'autrice
Questo libro, pubblicato negli Stati Uniti nel 1951 e tradotto negli anni successivi in moltissime lingue (in Italia da Bompiani, Milano 1978), rappresenta un classico della letteratura politica. La sua autrice, Hannah Arendt (J 906-75) era una filosofa tedesca, discepola di Heidegger e di Jaspers, emigrata nel 1941 negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione antisemita imposta dal nazismo. Nell'immediato dopoguerra, la Arendt cominciò a interrogarsi sul fenomeno del totalitarismo dedicando a esso praticamente tutta la sua opera di filosofia della politica. Le origini del totalitarismo non è dunque un'opera storiografica in senso stretto, quanto piuttosto il tentativo teorico e psicologico al tempo stesso di confrontarsi con un fenomeno della modernità che rappresenta per la sua autrice un'enorme tragedia storica, "forse la crisi più grave subita dall'Occidente dopo lo sfacelo dell'impero romano ...

Totalitarismo e masse
Il totalitarismo di cui si occupa la Arendt è, prima ancora che un insieme di fenomeni e di eventi, una categoria interpretativa alla quale vengono ascritti sia i regimi fascisti sia lo stalinismo, fondata sulla comparazione delle strutture e delle tecniche del potere politico.
Nazismo e stalinismo si configurano, secondo la Arendt, come i modelli più compiuti di stati totalitari perché sia Hitler sia Stalin erano ai vertici di un sistema di dominio che consegnava al capo carismatico un potere illimitato e svincolato da ogni controllo su un insieme di individui ridotti al puro stato di masse indifferenziate e atomizzate.
"Il termine massa - scrive la Arendt si riferisce soltanto a gruppi che, per entità numerica o per indifferenza verso gli affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono inserirsi in una organizzazione fondata sulla comunanza di interessi, in un partito politico, in un'amministrazione locale, in una associazione professionale o in un sindacato. Potenzialmente essa esiste in ogni paese e forma la maggioranza della folta schiera di persone politicamente neutrali che aderiscono mai ad un partito e fanno fatica a recarsi alle urne. Fatto caratteristico, i movimenti totalitari reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciata da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza essi furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica [ ... ]. Da un punto di vista pratico, non c'è molta differenza se i movimenti totalitari [ ... ]  organizzano le masse in nome della razza o della classe, se pretendono di seguire le leggi della vita e della natura o quelle della dialettica e dell'economia".
Alle origini del totalitarismo vi è dunque la società di massa, nella quale si sono perduti progressivamente i legami comunitari di gruppo o di classe che avevano legato tra di loro gli individui nella società liberale, e che si fonda sulla presenza crescente di individui privi di forti appartenenze sociali, i cui comportamenti vengono omogeneizzati dall'accesso a consumi standardizzati promossi dalla grande industria. Queste "masse", la cui condizione sociale non è generalmente caratterizza dalla povertà, ma piuttosto dalla frustrazione per aspirazioni non realizzate al benessere e all'ascesa sociale, hanno manifestato un'altissima disponibilità a seguire il messaggio politico di movimenti radicali che proponevano esplicitamente la distruzione dello stato liberaldemocratico.

Il rapporto fra masse e leader
Tra le masse e i leader di questi movimenti si instaurano rapporti del tutto nuovi rispetto al passato, perché si basavano sulla fedeltà cieca a un capo dotato di eccezionale carisma personale e che riassume in sé tutti i compiti di delega e di rappresentanza, che nello stato liberale sono articolati nelle istituzioni politiche a base elettiva. Elementi cruciali di questo rapporto sono:
1.     un'ideologia radicale nella quale si fondono l'esaltazione nazionalistica, le spinte imperialistiche, il razzismo e una concezione etica dello stato, ritenuto depositario dei fini a cui deve tendere tutta la nazione;
2.     un uso del tutto nuovo della propaganda secondo tecniche di comunicazione moderne capaci di chiamare alla mobilitazione permanente le masse, che la Arendt paragona alla plebe urbana dell’Impero romano, per la loro disponibilità a credere alle verità espresse dai loro capi. “L'efficacia di tale propaganda – scrive la Arendt - mette in luce una delle principali caratteristiche delle masse moderne. Esse non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esperienza; non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione. [ ... ] Esse sono predisposte a tutte le ideologie perché spiegano i fatti come semplici esempi di determinate leggi [ ... ] inventando un'onnipotenza tutto comprendente che suppongono sia alla radice di ogni cosa. La propaganda totalitaria prospera su questa fuga dalla realtà nella finzione”;
3.     l'uso sistematico della violenza contro gli avversari e del terrore poliziesco come strumento di controllo sociale che raggiunge la sua manifestazione estrema nei campi di sterminio nazisti e nel gulag sovietico.

La negazione dei princìpi liberali
Lo stato totalitario, però, non si esaurisce nel rapporto di tipo nuovo fra masse e leadership. Per la Arendt un altro elemento cruciale è, come si è accennato, la concezione dello stato, opposta a quella liberaldemocratica. Quest'ultima presuppone una netta separazione tra stato e società civile, tra potere pubblico e diritto privato ed è proprio in questa distinzione che affondano le loro radici più profonde la libertà individuale e l'eguaglianza dei cittadini. Lo stato totalitario nazista e sovietico elimina invece questa distinzione e assorbe la società civile e gli individui dentro lo stato: «tutto è pubblico, tutto è nello stato e nulla fuori di esso», come recitava un famoso slogan del fascismo italiano. La libertà e l'eguaglianza perdono così il loro fondamento principale e gli individui soggiacciono al potere dispotico dello stato, che a sua volta diventa una macchina di dominio asservita al volere del dittatore.
Ma tutto questo processo non sarebbe possibile se lo stato totalitario non potesse disporre di un vasto apparato tecnologico e produttivo che solo una moderna società industriale può garantire. Questa è una condizione indispensabile non solo perché è la diffusione dell'industrializzazione su scala sempre più vasta che genera "l'uomo massa", ma anche perché la società totalitaria presuppone la diffusione del benessere che solo un alto grado di sviluppo industriale può determinare.
In questa chiave il totalitarismo appare come un regime moderno dai caratteri decisamente rivoluzionari, poiché ha cambiato radicalmente l'ordinamento sociale realizzato dal liberalismo.

Per riflettere
1.      Quale essenziale mutamento sociale verificato si agli inizi del XX secolo la Arendt ritiene indispensabile per il manifestarsi del totalitarismo?
2.      Quali princìpi liberali il totalitarismo nega, e con quali esiti?

Il totalitarismo di G. De Luca


IL TOTALITARISMO di Giovanni De Luca

Professore, tra le tante definizioni che sono state usate per il Novecento, una in particolare mi ha colpito: perché molti storici lo chiamano il «secolo dei totalitarismi»?
Come vedremo, questa definizione si riferisce in particolare alla "grande crisi europea" così come si sviluppò tra le due guerre mondiali. Storici di diverso orientamento culturale e ideologico hanno scelto tutti quel periodo. che va dal 1915 al 1945, come una sorta di "banco di prova" in grado di rappresentare i caratteri originari e specifici del XX secolo. Il mondo, ma direi in particolare l'Occidente europeo, visse allora l'esperienza assolutamente inedita del totalitarismo, ossia quella di un regime in cui lo Stato controlla non solo la politica e l'economia, ma anche e soprattutto l'intera società civile. I regimi totalitari che si affermarono in Italia (fascismo), in Germania (nazismo) e in Unione Sovietica (comunismo) furono caratterizzati dai seguenti elementi: l'uso della violenza per conquistare il potere e realizzare l'azzeramento rivoluzionario delle forme statali e di governo esistenti in precedenza; il controllo totale dell'economia da parte dello Stato; il potere politico monopolizzato da un partito unico, con la soppressione di tutti gli altri; la cancellazione radicale anche delle associazioni, dei circoli e di ogni altra forma di aggregazione spontanea della società civile. È evidente che non siamo più in presenza di sistemi autoritari e neanche di dittature militari così come li abbiamo conosciuti studiando i secoli precedenti.

Quindi dobbiamo pensare che quella definizione colga aspetti che appartengono solo ed esclusivamente al Novecento e che non erano mai stati sperimentati prima?
Sì. Questo fu un elemento colto immediatamente dai contemporanei. Attraverso il confronto tra comunismo, nazifascismo e democrazia, Raymond Aron, già nel 1939 in un articolo dal titolo Stati democratici e Stati totalitari, giudicava l'essenza del totalitarismo come indissolubilmente legata all'emergere di nuovi meccanismi di selezione delle élite dirigenti e di nuovi sistemi economici instauratisi dopo la grave crisi del 1929. Più in generale, è stata poi la filosofa Hannah Arendt a indicare il nesso strettissimo che lega il totalitarismo alla modernità e alla formazione di una società di massa che solo il Novecento conosce. Il successo del totalitarismo in Europa avvenne in condizioni rese praticabili unicamente da una società ad alto sviluppo tecnologico: l'ideologia totalitaria impose un corpo ufficiale di dottrine a cui occorreva necessariamente obbedire; per ottenere l'adesione almeno passiva di ogni individuo, richiedeva quindi l'uso delle più raffinate tecniche del condizionamento di massa e un solido apparato burocratico di controllo; d'altra parte, l'esistenza di un partito unico guidato dal dittatore necessitava di strumenti di mobilitazione e di integrazione possibili solo con la concentrazione monopolistica di tutti i mezzi di comunicazione messi a disposizione dallo sviluppo delle più sofisticate tecnologie moderne.

Ma questa definizione "unitaria" non rischia di mettere in secondo piano le specificità delle singole storie nazionali di paesi come l'Italia, la Germania, la Russia, che pure hanno attraversato vicende politiche e culturali molto diverse?
Nei progetti totalitari di Mussolini, Hitler e Stalin è possibile rintracciare una serie di elementi comuni che sono quelli che abbiamo appena visto: il culto di un unico capo assoluto; l'utilizzazione massiccia e oculata degli strumenti propagandistici offerti dai nuovi mezzi di comunicazione di massa (il cinema, la radio, la stampa); un'organizzazione poliziesca sempre più oppressiva e capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale. Su questo sfondo comune, però, ogni regime totalitario innestava altri elementi che scaturivano non solo dalla diversità delle singole storie nazionali, ma anche dalle differenze ideologiche (comunismo e nazismo erano specularmente contrapposti) e dal modo in cui nei vari casi si declinavano i diversi progetti di Stato e di società.
Allora esiste anche una specificità del fascismo italiano nei confronti del nazismo e dello stalinismo?
Sì, certamente. Il progetto di dominio di Mussolini era definito sia dal controllo totalitario del potere politico sia dal tentativo di fascistizzare l'intera società italiana. Su entrambi i versanti, però, le sue ambizioni naufragarono e Mussolini fu costretto ad accettare la coesistenza con altre forze e altri centri di potere che gli preesistevano e che avrebbero continuato a esistere anche dopo la sua caduta: l'esercito, la monarchia, il potere economico, il Vaticano. In questo senso si parla, a proposito del fascismo, di un "totalitarismo imperfetto", quasi a voler sottolineare come il nazismo tedesco e il comunismo sovietico avessero invece assunto un potere incontrastato, azzerando tutte le vecchie gerarchie. A questi limiti se ne aggiunsero poi altri. Ad esempio, il disegno di assorbire nelle istituzioni del regime l'intera società italiana si scontrò con la duratura persistenza di un reticolo familiare, parentale, di aggregazioni comunitarie, di interessi locali che restò sostanzialmente fuori dalla sfera politica e dalle organizzazioni legate al partito unico (il Partito nazionale fascista).

Tutto ciò che ha detto è molto "europeo"; ma nel resto del mondo, tra le due guerre mondiali, non succede niente di rilevante?
In realtà succede di tutto, a partire dalla crisi economica del 1929 che ridisegnò il mondo del capitalismo. Anche in Asia, in paesi come il Giappone, si installarono regimi che, se non si potevano definire totalitari, avevano marcati tratti autoritari e dittatoriali. In Cina. poi, con la guerra civile tra comunisti e nazionalisti, si ebbero le prime avvisaglie di quel processo che nel secondo dopoguerra avrebbe portato il paese a diventare un enorme Stato comunista. Eppure, l'esperienza dei totalitarismi europei resta qualcosa di unico e (speriamo) irripetibile nella storia del mondo.