2. Il metodo
Come Montaigne, Cartesio non vuole insegnare, ma descrivere se
stesso: egli parla perciò in prima persona. Il suo problema emerge dal bisogno
di orientamento avvertito all'uscita dalla scuola di La Flèche, quando, pur
avendo assimilato con successo il sapere del tempo, il giovane René si accorge
di non avere alcun criterio sicuro per distinguere il vero dal falso, ma di
avere appreso nozioni che poco o nulla servono alla vita. In una famosa pagina
del Discorso sul metodo, Cartesio
narra le delusioni provate nel ricercare il vero una volta uscito dal collegio.
Prima racconta di aver cercato nei libri, poi nel “gran libro del mondo” e,
infine, in se stesso.
I termini del problema
L'orientamento, il criterio, il metodo che Cartesio cerca è
nello stesso tempo teoretico e pratico: esso, infatti, deve condurre a saper
distinguere il vero dal falso anche e soprattutto in
vista dell'utile e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. La
filosofia che ne risulterà dovrà pertanto essere una filosofia
“non puramente
speculativa, ma
anche pratica, per la quale l'uomo
possa rendersi padrone e possessore della natura”.
Una simile forma di sapere dovrà
mettere a disposizione dell'uomo congegni che gli facciano godere senza fatica
dei frutti della terra e di altre comodità e dovrà mirare alla conservazione
della salute, la quale è il primo bene in questa vita. Cartesio è francamente
ottimista sulla possibilità di un tale sapere, il quale, egli pensa, potrebbe
condurre gli uomini a essere esenti “da
un'infinità di malattie, tanto del corpo quanto dello spirito, e forse anche
dall'indebolimento della vecchiaia” (Discorso sul
metodo, VI, 1).
Il
metodo dev'essere
dunque un
criterio di orientamento unico e semplice, un protocollo, cioè un insieme di
procedure che servono all'uomo in ogni campo teoretico e pratico per
guidare la ricerca, e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel
mondo. Questa unità del metodo, pur nella
diversità delle sue applicazioni, viene riconosciuta da
Cartesio già nelle Regole
per dirigere l'ingegno. Qui
egli afferma che la saggezza umana è una
sola, quali che siano gli oggetti a cui si applica; ed è una sola perché uno è
l'uomo nelle sue diverse attività.
Nel formulare le regole del metodo,
Cartesio si avvale soprattutto della matematica: le scienze matematiche, per
Cartesio, sono già in possesso del metodo, che applicano normalmente. Eppure prendere coscienza delle regole
metodiche della matematica, astrarle da tali discipline e formularle in
generale per poterle applicare a tutte
le altre branche del sapere non è
sufficiente. È
necessario,
infatti, anche giustificarle. In altri
termini, si tratta di giustificare il metodo e la possibilità della sua
applicazione universale. Il fatto
che le matematiche siano già in possesso della pratica del metodo facilita
senza dubbio il compito del filosofo; ma questo compito
comincia veramente soltanto con la
giustificazione (o fondazione) delle regole metodiche: giustificazione che sola ne consente e autorizza l'applicazione a tutti
i domini del sapere umano.
Cartesio deve dunque:
Ø formulare
le regole del metodo, tenendo soprattutto presente il procedimento matematico,
nel quale esse già sono in qualche
modo presenti;
Ø fondare
con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo
individuato;
Ø dimostrare
la fecondità del metodo nei vari rami del sapere.
Tale è il
compito filosofico di Cartesio. (CFR La matematica universale,
pag 183).
Le regole
Per quanto
riguarda il primo punto, la seconda parte del Discorso sul metodo ci dà la formulazione più matura e semplice delle
regole del metodo. Esse sono quattro:
l ) Non accogliere mai nulla per vero che non
conoscessi esser tale con evidenza. Questa regola, che è per Cartesio la fondamentale, prescrive l'evidenza, l'intuizione chiara e distinta
di tutti gli oggetti del pensiero e l'esclusione di ogni elemento sul quale
sia possibile una qualche forma di dubbio.
2) Dividere ciascuna delle difficoltà da
esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio
risolverla. Questa è la regola dell'analisi,
per la quale un problema viene risolto nelle sue parti più semplici, da
considerarsi separatamente.
3) Condurre i miei pensieri ordinatamente,
incominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per risalire
a poco a poco, quasi per gradi, fino alle conoscenze più complesse. Questa è la regola della sintesi, per la quale si passa dalle
conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente, presupponendo che ciò
sia possibile in ogni campo.
4) Fare in ogni caso enumerazioni cosi complete
e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla. L'enumerazione
controlla l'analisi, la revisione
controlla la sintesi. Questa regola offre così il controllo delle due
precedenti. (CFR Il metodo e le sue regole, da pag184 a
pag 186)
3. Il dubbio e il cogito ergo sum
Come
abbiamo anticipato, le regole metodiche individuate da Cartesio non hanno in sé
la propria giustificazione. Neppure il fatto che la matematica se ne serva con
successo le giustifica, perché esse potrebbero avere utilità pratica ai fini
delle sole discipline matematiche, ma non essere applicabili in altri campi, e
ciò le destituirebbe della necessaria validità assoluta. Compito della
filosofia è scoprire la prima fra tutte le verità: la scoperta del proprio sé
attraverso l’esercizio del dubbio. Cartesio deve quindi tentare di giustificare
le regole metodiche, di garantirne la verità del giudizio, risalendo alla loro
radice: l'uomo come soggettività, o come ragione. Cartesio, insomma, riesce ad
isolare il ruolo dell’io, della coscienza nei processi della conoscenza.
Dal dubbio
metodico al dubbio iperbolico
Trovare il
fondamento di un metodo che dev'essere la guida sicura della ricerca in tutte
le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato, con il rifiuto dei
pregiudizi, evitando di mescolare congetture anticipate, frettolose, non
dedotte esclusivamente da ciò che possiamo intuire con chiarezza ed evidenza.
Bisogna sospendere l'assenso a ogni conoscenza
comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno
provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se,
persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungerà a un principio sul quale il dubbio non è possibile,
questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di
fondamento a tutte le altre conoscenze. Ora, Cartesio ritiene che nessun grado
o forma di conoscenza si sottragga al dubbio. La prima fase del dubbio va sotto
il nome di DUBBIO METODICO. Il
dubbio metodico è diverso da quello degli scettici: non è fine a se stesso, ma
un mezzo per giungere alla verità. Il dubbio metodico investe l’intero mondo
sensibile e l’immaginazione, sia perché i sensi qualche volta ci ingannano e quindi
si deve dedurre che essi possano ingannarci sempre sia perché si hanno nei
sogni conoscenze simili a quelle che si hanno nella veglia senza che si possa
trovare un sicuro criterio di distinzione tra le une e le altre: niente può
garantire che la veglia non sia un sogno. L’esistenza del mondo esterno e così
anche del mio stesso corpo, per il momento, viene rifiutata come oggetto di una
falsa credenza. La seconda fase è quella del DUBBIO IPERBOLICO, cioè esagerato: il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale.
Il dubbio iperbolico intende minare persino la certezza che accompagna le
conoscenze matematiche: queste ultime sono vere sia nel sogno, sia nella veglia
(2 + 3 fa sempre 5 sia che si dorma, sia che si vegli), ma neppure queste
conoscenze si sottraggono al dubbio, perché anche la loro certezza può essere
illusoria. Infatti, finché non si sappia qualcosa di certo intorno a noi e alla
nostra origine, si può sempre supporre che l’uomo sia stato creato da un genio
maligno, cioè da una potenza malvagia che si sia proposta di ingannarlo
facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. Si tratta
ovviamente di una finzione, ma il solo fato di poter fare quest'ipotesi (e si
può farla, dato che non si sa alcunché) mi consente di supporre che anche le
conoscenze che appaiono soggettivamente più certe si rivelino dubbie e capaci
di celare l'inganno.
Con un
procedimento concentrico, abbiamo perduto prima la certezza del mondo esterno e
poi del mondo interno alla mente. Ma proprio nel
carattere radicale di questo dubbio si intravede una prima certezza. Io posso
ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili, ma per
ingannarmi o per essere ingannato io debbo esistere, cioè essere qualcosa e non
nulla. La proposizione "io esisto" è dunque la sola assolutamente
vera, perché il dubbio stesso la conferma; infatti può dubitare, e quindi
pensare, solo chi esiste: cogito ergo sum.
Insomma il dubbio ha portato Cartesio a ripiegare nell’interiorità dove è
possibile trovare il fondamento incrollabile di ogni conoscenza: la realtà del
pensiero, sia pure come attività dubitante, si pone al di sopra di ogni
possibile dubbio. Posto che esista un
genio maligno che mi inganna, io debbo in ogni caso esistere per essere ingannato.
(CFR Il dubbio e il cogito - Il cogito e la regola dell’evidenza, pag
188-189. Inoltre, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, da pag 190 a pag 193)
La natura del cogito
La proposizione "io esisto"
contiene evidentemente anche una prima indicazione su ciò che sono io che
esisto. Non posso certo dire di esistere come corpo, giacché non so ancora
nulla dell'esistenza dei corpi, intorno ai quali il mio dubbio permane.
Pertanto io non esisto se non come cosa
che dubita, cioè che pensa. In altre parole, la certezza del mio esistere
concerne solo e tutte le determinazioni del mio pensiero: il dubitare, il
capire, il concepire, l'affermare, il negare, il volere, il non volere,
l'immaginare, il sentire... al contrario le cose pensate, immaginate, sentite
ecc. possono, a quel che ne so, non essere reali; ma è reale certamente il mio
pensare, il mio sentire ecc. La proposizione "io esisto" equivale
dunque alla proposizione “io sono un
soggetto pensante”: cioè spirito, intelletto o ragione. La mia esistenza di
soggetto pensante è certa come non lo è l’esistenza di nessuna delle cose che
penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco (per esempio un pezzo di cera)
non esista; ma è impossibile che non esista io che penso di percepire
quell'oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità
necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza.
Il principio cartesiano ripete il
movimento di pensiero che già era stato sviluppato da Agostino e da Campanella;
ma lo ripete nell'orizzonte di un altro problema. Non si tratta, come in
Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio)
nell'interiorità dell'uomo; non si tratta neppure, come in Campanella, di
stabilire la natura dell'anima senziente in quanto coscienza delle proprie
modificazioni. Si tratta invece di trovare nell'esistenza del soggetto
pensante, il cui essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e
l'efficacia dell'azione umana sul mondo. Non bisogna dimenticare che
Cartesio ha elaborato la sua metafisica come fondamento e giustificazione della
fisica: ha voluto cioè ritrovare nella stessa esistenza dell'uomo, in quanto io
o ragione, la possibilità di una conoscenza che consenta all'uomo di dominare
il mondo per i suoi bisogni.
Le discussioni
intorno al cogito
I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla
scoperta del cogito, o per lo meno dall'originale ripresa di tale concetto, lo
discussero ampiamente.
Qualcuno accusò il ragionamento cartesiano
di essere un “circolo vizioso”, affermando che, se il principio del cogito
viene accettato perché evidente, la regola dell'evidenza risulta anteriore allo
stesso cogito, come fondamento della
sua evidenza, per cui la pretesa di giustificarla in virtù del cogito diventa illusoria. Cartesio
risponde affermando che non è vero che il cogito
risulta evidente perché conforme alla regola dell'evidenza, in quanto il cogito è la stessa autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di se medesimo: il cogito è in se stesso chiaro e distinto.
Esso non è certo perché rispetta i criteri della chiarezza e della distinzione,
esso semmai li fornisce. In caso contrario essi sarebbero stati presupposti
ancora una volta in modo dogmatico o stipulati con un accordo più o meno
condiviso. Analogamente, all'accusa mossa da Gassendi, secondo cui il cogito
sarebbe una forma di sillogismo abbreviato, del tipo “Tutto ciò che pensa
esiste. Io penso, dunque esisto”, e quindi risulterebbe infondato, in quanto il
principio “Tutto ciò che pensa esiste” cade preliminarmente, come tutto il resto,
con l'ipotesi del genio maligno, Cartesio risponde che il cogito non è un
ragionamento, ma un'intuizione immediata della mente. Nessuna dimostrazione
potrebbe renderla più certa di quanto già non appaia.
Più insidiosa è l'osservazione di Hobbes,
secondo il quale Cartesio avrebbe senz'altro ragione nel dire che l'io, in
quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi su come
esso esista, definendolo «uno spirito, un'anima». In ciò Cartesio sarebbe
simile a chi dicesse: «Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata».
Infatti il quid, o la x, che pensa, la sostanza di quell'atto
che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia
qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando:
1. che l'uomo non passeggia costantemente,
però pensa sempre, per cui il pensiero, per lui, risulta essenziale;
2. che il pensiero indica talvolta l'atto
del pensiero, talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui si identifica tale facoltà. Pertanto, in quest'ultimo
caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è
appunto costituita dal pensiero.
4. Dio come giustificazione metafisica delle certezze
umane
Il
principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza ed
evidenza, ma lascia ancora aperta la questione delle altre esistenze ed
evidenze, sulle quali continua a gravare l'ipotesi del genio maligno. Infatti,
io sono un essere pensante che ha idee (intendendo per idea ogni oggetto del
pensiero). Ora, io sono sicuro del fatto che tali idee esistano nel mio
spirito, perché esse, come atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto
pensante. Non sono invece sicuro che a queste idee corrispondano realtà
effettive fuori di me. Idee sono per me la terra, il cielo, gli astri e
tutte le cose percepite dai sensi.
Queste idee
esistono nel mio spirito, ma esistono anche le cose a esse corrispondenti,
fuori di me?
Per
rispondere a questa domanda, Cartesio divide tutte le idee in tre categorie:
Ø quelle che mi sembrano essere innate in me (innate);
Ø quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori
(avventizie);
Ø quelle formate o trovate da me stesso (fattizie).
Alla prima
classe di idee appartiene la capacità di pensare e di avere idee; alla seconda
classe appartengono le idee delle cose naturali; alla terza classe, infine, le
idee delle cose chimeriche o inventate. Per scoprire se a qualcuna di queste
idee corrisponda una realtà esterna, non c'è altro da fare che chiedersi la
possibile causa di esse. (CFR L’innatismo, pag 196-197).
L'idea di Dio e le
prove dell'esistenza di Dio
Per quel
che riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose naturali, esse non
contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me.
Per quel
che riguarda l’idea di Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna,
onnisciente, onnipotente e creatrice, è invece difficile supporre che possa
averla creata io stesso. Difatti io sono privo delle perfezioni che quell'idea
rappresenta; e la causa di un'idea deve sempre avere almeno tanta perfezione
quanta è quella che l'idea stessa rappresenta. La causa dell'idea
di una sostanza infinita non posso
essere io che sono una sostanza finita; questa causa dev'essere una sostanza infinita la
quale, pertanto, deve essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova
dell'esistenza di Dio.
In secondo
luogo, si può riconoscere l'esistenza di Dio partendo dal fatto che il mio io
ha natura finita. lo sono finito e imperfetto, come è dimostrato dal fatto che
dubito. Ma se fossi la causa di me stesso, mi sarei dato le perfezioni
che concepisco e che sono appunto
contenute nell'idea di Dio. È dunque evidente che non mi sono creato da me e
che non può avermi creato che Dio, il quale mi ha creato finito pur dandomi
l'idea dell'infinito.
A queste due
prove Cartesio ne aggiunge una terza, che è la tradizionale prova antologica. Non è possibile concepire Dio come Essere
sovranamente perfetto senza ammettere la
sua esistenza, perché l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie.
Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali
a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista.
D'altronde l'esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa
durata della mia esistenza, giacché tutto ciò che non ha la causa in se stesso
cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse incessantemente a
crearlo. La creazione è continua. (CFR Dio esiste e non mi inganna, pag 194 e
195; inoltre, Ulteriore prova
dell’esistenza di Dio, pag 197).
Dio come garante
dell'evidenza e la possibilità dell'errore
Una volta
riconosciuta l'esistenza di Dio, il criterio dell'evidenza trova la sua ultima
garanzia. Dio, essendo perfetto, non può
ingannarmi; la facoltà di giudizio, che ho ricevuta da Lui, non può essere
tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente. Tutto ciò che appare
chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale. Dio è
dunque, per Cartesio, quel terzo termine che ci permette di passare dalla
certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze, secondo lo schema di
fondo della sua metafisica:
Ma com'è
allora possibile, l'errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause, cioè dall'intelletto e dalla volontà. L'intelletto umano è limitato e noi possiamo infatti
pensare un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio.
La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell'intelletto.
Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, di
ricercare o fuggire, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che
l'intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non
hanno chiarezza e distinzione sufficienti. In questa possibilità di affermare o
di negare ciò che l'intelletto non riesce a percepire chiaramente risiede la
possibilità dell'errore.
L'errore
non ci sarebbe mai, se io affermassi o negassi, cioè dessi il mio giudizio,
solo intorno a ciò che l'intelletto mi fa concepire con sufficiente chiarezza e
se mi astenessi dal dare il mio giudizio
intorno a ciò che non è abbastanza chiaro. Ma poiché la mia volontà, che è
libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi su ciò che non
è evidente abbastanza, nasce la possibilità dell'errore. lo potrò indovinare per
mero caso; e anche così avrò usato male della mia libertà. Ma potrò anche
affermare quello che non è vero e in tal caso sarò senz'altro caduto in errore.
L'errore dipende dunque unicamente dal libero
arbitrio che Dio ha dato all'uomo e si può evitare soltanto attenendosi
alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell'evidenza.
L'evidenza,
avendo ormai ottenuto ogni garanzia (in quanto è risultata fondata sulla stessa
veridicità di Dio), consente di
eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla realtà delle cose corporee. Io ho
l'idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi.
Quest'idea, essendo evidente, non può essere ingannevole: devono dunque
esistere cose corporee corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo. (CFR Perché
esiste l’errore, pag 195).
Le critiche alla
concezione cartesiana di Dio
Anche il
discorso cartesiano su Dio è stato tradizionalmente accusato di costituire un
"circolo vizioso", perché il filosofo pretenderebbe di dimostrare Dio
per mezzo dell'evidenza e l'evidenza per mezzo di Dio. Corrispondentemente,
Cartesio è stato tacciato di "presunzione metafisica", poiché egli
invoca Dio per giustificare ciò che, in fondo, ritiene già vero prima e
indipendentemente da Dio: il criterio generale dell'evidenza e le evidenze
particolari. Ma in tal modo la funzione di Dio all'interno del conoscere
finisce per apparire inutile, o pleonastica, poiché serve a giustificare delle
evidenze che in realtà vengono preliminarmente ammesse proprio in quanto evidenti.
Ora, per giustificare ad esempio che il sole splende o che l'acqua bolle a
cento gradi, è proprio necessario ricorrere a Dio? E siccome Cartesio,
difendendosi dalle accuse dei suoi critici, afferma talvolta che Dio, più che
il garante della verità in se stessa, è il garante della permanenza della
verità, il suo richiamo alla divinità risulta anche epistemologicamente
pericoloso, poiché rischia di dogmatizzare e eternizzare le verità umane,
andando contro la metodologia della rivoluzione scientifica, la quale afferma
che una cosa è vera in quanto e finché non risulta smentita, e non perché è
garantita metafisicamente e "per sempre" da qualche principio
superiore.
Per quanto riguarda le "prove" di Dio fornite dal filosofo
francese, esse sono apparse, per lo più, abbastanza fragili. Ad esempio, le
prime due si fondano sul presupposto, tutt'altro che scontato, della
non-derivabilità empirica del concetto di perfezione assoluta. La terza prova è
sostanzialmente una ripresa del tradizionale argomento ontologico, il quale,
come si è già visto, non sembra possedere quel carattere di "verità
incontrovertibile" che Cartesio vorrebbe attribuirgli. (CFR L’accusa
di circolo vizioso, pag 198).
5. Il dualismo cartesiano
Accanto
alla sostanza pensante, che costituisce l'io, si deve ammettere, come si è
visto, la sostanza corporea, divisibile in parti, quindi estesa.
Tale
sostanza estesa non possiede però tutte le qualità che noi percepiamo di essa.
Cartesio fa sua la distinzione già stabilita da Galilei e che in realtà risale
a Democrito. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata,
il numero (cioè tutte le determinazioni quantitative sono certamente qualità
reali della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l'odore, il suono ecc.
non esistono come tali nella realtà corporea e corrispondono in questa realtà a
qualcosa che noi non conosciamo.
In tal
modo, Cartesio ha spezzato la realtà in due zone distinte ed eterogenee:
Ø da un lato la sostanza
pensante (res cogitans), che è in
estesa, consapevole e libera, da un lato;
Ø dall'altro la sostanza
estesa (res extensa), che è
spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata.
Ma dopo
aver tracciato questa divisione, Cartesio si trova di fronte al difficile
problema di riunire le due sostanze, ovvero di spiegarne il rapporto
scambievole, rendendo intelligibile, per quanto riguarda l'uomo, la relazione
tra anima e corpo.
Cartesio
pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale
(l'odierna epìfisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo
doppia, può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso, i quali
sono tutti doppi.
Come vedremo,
questa soluzione apparirà pseudofilosofica e pseudoscientifica ai pensatori
successivi, che cercheranno di sciogliere il nodo del dualismo cartesiano in
modo diverso. (CFR
La mente e il corpo, pag 198 e
199).
6. Il mondo fisico e la geometria
La fisica
cartesiana, sulla base della rigorosa
separazione tra sostanza pensante e sostanza estesa, poté attuare finalmente la radicale eliminazione dei
residui finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici che
ancora infestavano la fisica agli inizi del Seicento.
Neppure
Galileo seppe con altrettanta coerenza depurare la fisica dalle scorie del
passato. E perciò appunto, sebbene i risultati di Cartesio nell'analisi dei
singoli fenomeni fisici non potessero reggere il confronto con i successi
conseguiti da Galileo, il meccanicismo
cartesiano riuscì a incidere profondamente sulla formazione della mentalità
scientifica dell'epoca, soprattutto in Francia, e il sistema elaborato dal
filosofo, pur con le sue stravaganze, riscosse notevole successo, tanto da
rivaleggiare per parecchi decenni con il sistema
newtoniano. Nondimeno, l'interesse rivolto prevalentemente al problema metodologico e ai principi di carattere generale, congiunto al desiderio di
elaborare un sistema fisico onnicomprensivo adatto a far da complemento alla
metafisica, distoglieva solitamente Cartesio dall'indagine accurata dei fenomeni e
induceva a sommarie generalizzazioni, che fornivano una visione gravemente riduttiva della
complessità dei fenomeni naturali.
Meccanicismo significa, ovviamente, determinismo.
Una spontaneità della natura o una sua intrinseca casualità non sono
ammissibili, poiché i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva
necessità causale che, come abbiamo già visto, è uno dei temi qualificanti
della rivoluzione scientifica.
Dobbiamo tuttavia aggiungere che, nel momento in cui la scienza fisica
assume una struttura matematica, la necessità
oggettiva si traduce inevitabilmente in una necessità logico-matematica, che ha il suo fondamento nelle leggi
del pensiero; assunta, infatti, un'ipotesi, l'andamento di un fenomeno può
essere dedotto matematicamente da quella. Noi siamo oggi consapevoli che la
deduzione si limita a esplicitare ciò che è già implicito nell'ipotesi stessa,
con tutto il margine di incertezza in essa contenuto, e non prescrive alla
natura alcuna ulteriore legge del pensiero. Ma il successo del procedimento
deduttivo generava l'illusione che l'evidenza soggettiva delle argomentazioni
fosse di per sé garanzia della loro corrispondenza con la realtà esterna,
indipendentemente da una conferma sperimentale.
Sicché Cartesio, indotto da tale illusione, tende a operare anche nella
fisica, oltre che nella metafisica, quel salto
dall'ordine logico all'ordine ontologico che costituisce da sempre
l'aspirazione ultima del razionalismo. Egli di fatto procede non di rado
guidato dalla convinzione di poter cavare dalla propria testa le leggi che
governano il mondo.
D'altronde non le sole leggi, ma l'esistenza stessa della res extensa trova fondamento per
Cartesio nell'evidenza della nostra idea dello spazio. Su questa base è ovvio,
come abbiamo già accennato, che dal mondo della nostra esperienza possiamo
assumere come oggettive solo quelle proprietà che siano suscettibili di una
trattazione geometrica, mentre le restanti proprietà che attribuiamo al mondo
sono di natura puramente soggettiva. La geometria è perciò l'unica scienza fisica.
La geometria
analitica
La Geometria è la più importante delle tre appendici del Discorso sul metodo e costituisce in qualche modo l'atto di nascita della geometria analitica,
la quale si colloca storicamente come punto di incontro tra i progressi dell'algebra
realizzati nel corso del Cinquecento e il contemporaneo
lento recupero della geometria classica.
Cartesio ha
chiara consapevolezza dell'unità delle diverse scienze matematiche, le quali,
«sebbene i loro oggetti siano differenti, tuttavia si accordano tutte, perché
negli oggetti esse considerano soltanto i diversi rapporti o proporzioni».
Ritiene pertanto possibile unificare la geometria degli antichi con l'algebra
dei moderni; ma questa operazione richiede una revisione di ambedue le scienze.
Ø La geometria degli antichi, malgrado i suoi
incontestabili successi, è inficiata dal suo
procedere
episodico, che costringe per ogni costruzione a ricercare una dimostrazione ad hoc; essa, infatti, rimanendo ancorata a un'immediata considerazione dei
contenuti intuitivi, non riesce a cogliere i rapporti nella loro universalità e
a sollevarsi al livello di generalità necessario a un'impostazione sistematica
della scienza.
Ø D'altro canto, anche la nuova scienza algebrica appare
a Cartesio "un'arte confusa e oscura", sia per l'uso di simboli
inadeguati, dei quali talora non si intende appieno il significato, sia per il
rapporto di sudditanza che la lega alla geometria.
Pertanto
Cartesio riordina sistematicamente la simbologia algebrica (che risponde ormai
quasi puntualmente a quella odierna) e abbandona l'immediata interpretazione
geometrica dei procedimenti algebrici. L'algebra, riorganizzata così in un
linguaggio autonomo, diviene idonea a riprodurre entro di sé in termini
puramente formali la geometria, la quale a sua volta si offre come strumento di
chiarificazione intuitiva dei procedimenti dell'algebra, quasi un'algebra
applicata. Il numero e la forma divengono in tal modo traducibili l'uno
nell'altra.
L'operazione,
ormai ovvia per noi, richiede soltanto l'assunzione di un'unità di misura che
consenta di interpretare un numero come una distanza e di una coppia di linee
fondamentali, che oggi chiamiamo appunto "assi cartesiani", quale
sistema di riferimento. Ciò posto, punti, rette e curve possono essere
individuati univocamente sul piano, in relazione agli assi, attraverso
procedimenti algebrici.
La fisica
Il mondo, come si è detto, si
identifica con l'estensione e la fisica si riconduce perciò integralmente alla
geometria, né è di ostacolo a tale riduzione l'esistenza del moto, giacché il
tempo può assumere agevolmente i connotati di una dimensione geometrica. Dopo
questa premessa, nell'accostarsi alle opere di fisica di Cartesio, sconcerta,
per verità, constatare un'assenza quasi totale della matematica. Non è una contraddizione; a Cartesio
interessa soltanto fornire della realtà fisica un'interpretazione che renda
possibile la trattazione matematica, senza che con questo egli si senta
obbligato a svolgerIa esplicitamente.
Di fatto la fisica cartesiana pretende
di ricondurre tutta l'infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due
soli ingredienti dell'estensione e del moto. L'una e l'altro hanno origine da
Dio, al quale si deve non solo la creazione della res extensa, ma anche il
conferimento a essa di una certa determinata quantità di moto, indistruttibile
non meno della materia: due principi fondamentali di conservazione, del moto e
della materia, sono immediatamente deducibili dall'immutabilità di Dio, dalla
quale può derivarsi l'immutabilità di quanto egli opera. Altri interventi di
Dio nel mondo, oltre al primo atto di creazione della materia e al primo
impulso, non sono richiesti. Al Dio di Cartesio, come osserverà Pascal, basta
aver dato il primo calcio al mondo; il resto va da sé.
L'identificazione della materia con
l'estensione comporta alcune conseguenze di grande rilievo:
• lo spazio euclideo è infinito e
pertanto infinita è anche la sostanza estesa;
• lo spazio geometrico è inoltre
infinitamente divisibile, la materia perciò non può essere costituita di atomi;
• lo spazio è continuo, non ammette interruzioni,
buchi, fenditure, di conseguenza non è concepibile il vuoto; l'estensione, d'altronde, è l'attributo di una sostanza. e pertanto non può
sussistere senza una sostanza cui inerire;
• infine le qualità che attribuiamo
alla materia in addizione all'estensione sono puramente soggettive, perché lo
spazio è qualitativamente indifferenziato.
L'unico motore della grande macchina
del mondo è costituito dall'originaria quantità di moto, che può distribuirsi
in modi differenti tra i corpi attraverso gli urti. Il che significa che viene
bandita ogni forza, attrattiva o repulsiva, e in particolare quelle forze che
debbono manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali,
o di qualsivoglia altra natura. Non era, d'altronde, del tutto ingiustificato
questo ripudio delle forze esplicantisi a distanza, che richiamavano il
finalismo aristotelico, l'astrologia, l'animismo.
Come può, infatti, un corpo esercitare
un'azione là dove non è? Galileo stesso le aveva in sospetto, al punto da
respingere come farneticazione astrologica l'antica tesi che riconduceva il
fenomeno delle maree all'influenza della luna.
Due sole leggi dominano l'universo
fisico cartesiano: il principio di
inerzia (che in Cartesio, pur diluito in due leggi distinte, trova
finalmente una formulazione adeguata), e il principio della conservazione della quantità di moto.
La riduzione della fisica a geometria
si scontra, a dire il vero, con difficoltà insormontabili ove si disponga dei
soli strumenti matematici di cui disponeva Cartesio. Entro lo spazio euclideo
perfettamente omogeneo non si riesce, infatti, a immaginare qualcosa che possa
corrispondere a ciò che chiamiamo movimento. Secondo Cartesio è invece
pensabile che frammenti di spazio si muovano rispetto ad altri frammenti di
spazio, sebbene non si comprenda come il moto possa essere rilevato, se lo
spazio è uniforme. Tuttavia l'aspetto meno convincente della teoria si coglie
nel fatto che quel moto, poco chiaro proprio a causa dell'assoluta uniformità
del tutto, divenga stranamente esso stesso origine delle disomogeneità presenti
nella res extensa, che alla nostra
percezione si manifesta come costituita di entità solide, o liquide, o
areiformi, o infine in quella forma che interpretiamo come spazio vuoto.
Ebbene, i differenti aspetti che presenta ai nostri sensi la res extensa dipendono esclusivamente
dalle diverse condizioni inerziali dei vari frammenti di estensione. Coerenza e
durezza di un corpo solido, ad esempio, sono soltanto l'effetto della comune
condizione inerziale delle parti del corpo stesso, nel senso che non vi sono
entro di esso moti relativi di alcune parti di estensione rispetto ad altre
(condizione condivisa più o meno integralmente a seconda della maggiore o minor
durezza del corpo).
Ovviamente Cartesio, avendo ripudiato
ogni tipo di forza, non può fare appello a una coesione attiva delle parti di
un corpo per spiegare la sua solidità. La
materia sottile (o etere), che riempie tutto ciò che impropriamente chiamiamo
vuoto, è costituita invece di corpuscoli, cioè di frammenti minutissimi di estensione,
privi di ogni coerenza perché soggetti ciascuno a una differente condizione
inerziale.
Sebbene il moto inerziale sia
rettilineo, di fatto l'assenza del vuoto finisce inevitabilmente col produrre
il chiudersi del moto in un circolo. Quando un corpo, infatti, si muove
attraverso la materia sottile, è necessario che la materia sottile, che esso
sposta davanti a sé, si richiuda sulla sua scia. Il che porta al costituirsi di
un complesso sistema di vortici, che assumono una funzione fondamentale nella
fisica cartesiana.
Da un vortice è avvolta la Terra, come
pure ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la Terra e i singoli
pianeti ruotano a loro volta entro un vortice più ampio, da cui è avvolto il
sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio si lusinga di
poter spiegare la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti senza far
ricorso alle aborrite forze a distanza. Infatti la materia sottile in moto
vorticoso spingerebbe verso il suolo terrestre i gravi e analogamente
manterrebbe la Terra e i pianeti in orbita intorno al sole.
La teoria dei vortici, non suffragata,
ovviamente, da alcuna prova sperimentale, e priva di ogni elaborazione
matematica, ebbe un certo successo e fronteggiò per qualche tempo la teoria
della gravitazione newtoniana; non le si può negare, comunque, un merito
fondamentale: prima di Newton, unificava terra e cielo, riconducendo a una
medesima causa la caduta dei gravi e il moto orbitale dei pianeti.
L'implacabile riduzionismo cartesiano
non risparmiava neppure il mondo della vita. Le funzioni vitali non posseggono
infatti alcunché di specifico che le differenzi dai fenomeni di natura
meccanica: un essere vivente è solo una macchina, un automa, funzionante
anch'esso in virtù dell'inerzia e della conservazione della quantità di moto.
Cartesio riteneva di trovare conferme alla propria interpretazione
meccanicistica della vita non solo negli studi di anatomia sviluppatisi già dal
Rinascimento, che evidenziavano la funzione meccanica dello scheletro e della
muscolatura, ma anche nella scoperta recente della circolazione del sangue
fatta da Harvey. Lo stesso corpo dell'uomo è una macchina, di cui la res cogitans si serve come di un proprio
strumento; e, sebbene Cartesio si affanni a dichiarare che tra anima e corpo
esiste un'intima connessione, più profonda di quella che esiste tra il pilota e
la sua nave, talora si riceve proprio l'impressione che il legame sia di tal
natura che con la morte l'anima debba abbandonare il corpo, non più
funzionante, un po' come un automobilista abbandona la sua macchina in panne.
Ma la presenza di una res cogitans
capace di agire sulla res extensa
costituisce un ulteriore motivo di debolezza del sistema cartesiano.
Nell'insieme i contributi specifici di
Cartesio ai progressi della scienza fisica non sono molto significativi; o
almeno va detto che il loro apprezzamento risulta problematico, giacché il
significato di alcuni principi di indubbia validità, come il principio
d'inerzia e il principio di conservazione della quantità di moto, è alterato
dal sistema entro cui i principi stessi sono inseriti. Ciò nonostante rimangono
essenziali, nel processo di fondazione della fisica classica, il coerente
richiamo all'esigenza di una razionalità matematica e la valorizzazione del
modello meccanico. La visione meccanicistica, che pretende che la natura agisca
sempre e soltanto secondo i procedimenti di cui facciamo uso nella costruzione
delle macchine, appariva seducente in un'età in cui la scienza voleva essere in
primo luogo uno strumento di dominio della natura; d'altronde i modelli
meccanici continuarono ancora a lungo ad allettare gli scienziati, per altro
mietendo successi in una molteplicità di campi, tanto nell'interpretazione di
fenomeni fisici quanto nella progettazione di macchine.
7. La filosofia pratica
La morale
"provvisoria"
Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare
con il dubbio l'analisi metafisica, Cartesio aveva stabilito alcune regole di
morale provvisoria, allo scopo di evitare di rimanere «irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava ad esserlo
nei suoi giudizi».
La prima regola provvisoria era di obbedire alle
leggi e ai costumi del paese, conservando la religione tradizionale e
regolandosi in tutto secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli
eccessi. Con questa regola egli rinunciava preliminarmente a ogni estensione
della sua critica nel dominio della morale, della religione e della politica. E
in realtà questa regola esprime un aspetto, non provvisorio ma definitivo,
della personalità di Cartesio, caratterizzata dal rispetto verso la tradizione
religiosa e politica.
«Ho
la religione del mio re», «Ho la
religione della mia nutrice», egli rispose al ministro protestante Revius
che l'interrogava in proposito. In realtà egli distingueva due domini diversi:
l'uso della vita e la contemplazione della verità. Nel primo, la volontà ha
l'obbligo di decidersi senza attendere l'evidenza; nel secondo ha l'obbligo di non
decidere finché l'evidenza non è stata raggiunta. Nel dominio della
contemplazione l'uomo non può contentarsi che della verità evidente; nel
dominio dell'azione l'uomo può contentarsi della probabilità. La prima regola
della morale provvisoria ha dunque per Cartesio, entro certi limiti, un valore
permanente e definitivo.
La seconda regola era di essere il più fermo e
risoluto possibile nell'azione e di seguire con costanza anche l'opinione
più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata. Anche questa regola è
suggerita dalle necessità della vita che obbligano molte volte ad agire in
mancanza di elementi sicuri e definitivi. Ma evidentemente la regola perde ogni
carattere provvisorio se la ragione è già entrata in possesso del suo metodo.
In tal caso, infatti, essa implica che «vi sia una ferma e costante risoluzione
di seguire tutto ciò che la ragione consiglia senza che ci si lasci deviare
dalle passioni o dagli appetiti» (Lettera a Elisabetta, 4 agosto 1645).
La terza regola era di cercare di vincere piuttosto
se stessi che la fortuna e di cambiare i propri desideri più che l'ordine
del mondo. Cartesio sostenne costantemente che nulla è del tutto in nostro
potere tranne i nostri pensieri, che dipendono solo dal nostro libero arbitrio;
e ripose il merito e la dignità dell'uomo nell'uso che egli sa fare delle sue
facoltà, uso che lo rende simile a Dio. Questa regola rimase il caposaldo
fondamentale della morale di Cartesio. Essa esprime, nella formula tradizionale
del precetto stoico, lo spirito del cartesianesimo, il quale esige che l'uomo
si lasci condurre unicamente dalla propria ragione, e delinea l'ideale stesso
della morale cartesiana, quello della saggezza.
Lo studio delle
passioni
Alla sua morale "provvisoria"
Cartesio, tutto preso dai prevalenti interessi metafisici e scientifici, non
farà mai seguire una morale "definitiva". Tuttavia, come si è
accennato, scriverà Le passioni
dell'anima, che contengono anche spunti di etica.
In questo scritto, Cartesio distingue
nell'anima azioni e affezioni: le azioni
dipendono dalla volontà, le affezioni
sono involontarie e sono costituite
da percezioni, sentimenti o emozioni causati nell'anima dagli spiriti vitali,
cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo.
Evidentemente la forza dell'anima consiste nel vincere le emozioni e
nell'arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi
dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro,
sollecitano l'anima di qua e di là, portandola a combattere contro se stessa e
riducendola nello stato più deplorevole. Ciò d'altronde non vuol dire che le
emozioni siano essenzialmente nocive. Esse si rapportano tutte al corpo e sono
date all'anima in quanto è congiunta con esso; sicché hanno la funzione naturale
di incitare l'anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a
conservare il corpo e a renderlo più perfetto.
In questo senso la tristezza e la gioia
sono le emozioni fondamentali. Dalla prima infatti l'anima è avvertita delle
cose che nuocciono al corpo e così prova l'odio verso ciò che le causa
tristezza e il desiderio di liberarsene. Dalla gioia invece l'anima è avvertita
delle cose utili al corpo e così prova amore verso di esse e il desiderio di
acquistarle o di conservarle.
Alle emozioni va congiunto tuttavia uno
stato di servitù da cui l'uomo deve tendere a liberarsi. Esse fanno quasi
sempre apparire il bene e il male, che rappresentano assai più grandi e
importanti di ciò che sono, però ci inducono a fuggire l'uno e a cercare
l'altro con più ardore di quanto convenga. L'uomo deve lasciarsi guidare, per
quanto è possibile, non da esse, ma dall'esperienza e dalla ragione: solo così
potrà distinguere nel loro giusto valore il bene e il male ed evitare gli
eccessi. In questo dominio sulle emozioni
consiste la saggezza; e la
saggezza si ottiene estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto e
separando, per quanto è possibile, questo dominio dai movimenti del sangue e
degli spiriti vitali dai quali dipendono le emozioni e con i quali abitualmente
è congiunto.
Proprio in questo progressivo dominio
della ragione, che restituisce all'uomo l'uso intero del libero arbitrio e lo
rende padrone della sua volontà, è il tratto saliente della morale cartesiana.
8. Cartesio nella filosofia moderna
Apprezzato subito per la sua statura
intellettuale ed elevato ben presto a simbolo
della modernità, Cartesio ha ispirato le filosofie più disparate. Tanto più
che il suo essere una sorta di filosofo «mascherato» e ambivalente, come egli
stesso sembra suggerire con l'espressione «larvatus
prodeo» (procedo mascherato), ha fatto sì che del suo pensiero si siano
sottolineati aspetti antitetici tra loro e che egli abbia potuto essere
considerato, di volta in volta, come filosofo
della coscienza o come filosofo della
materia, come filosofo della libertà
o come filosofo del meccanicismo,
come filosofo cristiano o come
filosofo che pone le basi dell'ateismo,
come filosofo conservatore o come filosofo rivoluzionario.
Al di là di queste divergenti
interpretazioni (alcune delle quali si contendono tuttora il campo), il
razionalismo di Cartesio ha rappresentato una pietra miliare della filosofia
moderna, di cui egli è solitamente considerato il fondatore.
Cartesio è innanzitutto il più
importante protagonista della filosofia del Seicento. A lui si rifanno la
metafisica religiosa di Malebranche come il panteismo naturalistico di Spinoza,
il filosofare cristiano di Pascal come il pensiero "emancipato" dei
libertini, il dinamismo monadologico di Leibniz come il meccanicismo materialistico
di Hobbes ecc. Per questi e altri autori Cartesio si presenta infatti come un
interlocutore obbligato e, al di là delle critiche, in alcuni casi
particolarmente violente, ciascuno di essi riconosce un qualche debito nei
confronti dell'innovato re della problematica filosofica, ritenuto, se non
altro, un "idolo polemico" con cui risulta indispensabile fare i
conti. Pertanto, in alcuni casi si può parlare di un vero e proprio
"anticartesianesimo nel cartesianesimo".
L'autore del Discorso sul metodo è presente anche agli empiristi del
Sei-Settecento, che, a cominciare da Locke, innestano il cartesianesimo sulla
tradizione più tipica del pensiero inglese, elaborando sistemi che rivelano una
forte influenza del pensatore francese, sia dal punto di vista concettuale, sia
da quello terminologico. L'uso cartesiano del termine "idea", intesa
come ogni oggetto del pensiero in generale, e la relativa problematica del
passaggio dall'idea alla realtà, ad esempio, è di tale rilevanza, negli empiristi,
da condizionare gli esiti stessi della filosofia di Locke, dell'immaterialismo
di Berkeley e dello scetticismo di Hume.
Cartesio ha un ruolo fondamentale anche
all'interno dell'llluminismo, che da un lato vede in lui un tipico esponente
dello "spirito di sistema", ma dall'altro ne apprezza l'impronta
razionalistica, il dubbio metodico, il rifiuto del principio di autorità ecc.
Inoltre il cosiddetto "cartesianesimo di sinistra", di tendenza
radicalmente meccanicistica, rappresenta una componente di base delle correnti
più estremistiche del materialismo francese.
Nel kantismo, Cartesio diviene il
rappresentante di un idealismo problematico che rischia di chiudere l'io nel
cerchio delle sue idee, aprendo le porte a Berkeley. Nello stesso tempo egli si
configura come il teorico del cogito,
che accompagna tutte le nostre rappresentazioni, e al cui interno va cercata
l'origine della conoscenza.
Con l'idealismo tedesco Cartesio è
celebrato come filosofo della soggettività, tramite il quale prende avvio il
passaggio dalla metafisica dell'essere o dell'oggetto alla metafisica della
mente o del pensiero, e per il quale si intuisce, grazie al cogito, l'identità tra essere e
pensiero. Cartesio è anche uno degli ispiratori del filone spiritualistico
della filosofia ottocentesca, in tutta la gamma variopinta delle sue forme. Con
lui, visto come l'antesignano della svolta soggettivistica della filosofia
moderna, ritengono di dover fare i conti autori italiani come Galluppi,
Rosmini, Gioberti.
Nel Novecento, in particolare nella prima
metà del secolo, l'influenza di Cartesio continua a essere notevole,
soprattutto nell'ambito della cultura francese, che dal pensiero cartesiano ha
tratto una tipica impostazione dualistica e coscienzialistica, cioè fondata
sulla contrapposizione tra l’ “io” e le “cose”. Il caso dell'esistenzialismo
coscienzialistico del primo Sartre risulta, a questo proposito, uno dei più
emblematici. Ancora nel 1946, infatti, polemizzando con i marxisti, Sartre
dichiarava: «Non vi può essere, all'inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la
verità assoluta della coscienza che raggiunge se stessa. Ogni teoria che
considera l'uomo fuori dal momento nel quale egli raggiunge se stesso è,
anzitutto, una teoria che sopprime la verità, perché, fuori del cogito cartesiano, tutti gli oggetti
sono soltanto probabili».
La ripresa più esplicita e storicamente
importante di Cartesio si trova, tuttavia, nella fenomenologia, che, nelle sue
interpretazioni più coscienzialistiche e idealistiche, si è apertamente rifatta
al filosofo del cogito. Non per nulla, Husserl intitola uno dei suoi capolavori
Meditazioni cartesiane, dando modo di
parlare, a proposito del suo sistema, di «neocartesianesimo husserliano».