mercoledì 23 gennaio 2013

Hegel: La Filosofia della Natura


LA FILOSOFIA DELLA NATURA (antitesi)

Tra l’idea che conclude la LOGICA e la FILOSOFIA DELLO SPIRITO è situata la FILOSOFIA DELLA NATURA, che rappresenta l’“idea fuori di sé”, l’“estraniazione” nel diverso da sé, l'alienazione nella realtà fisica o natura. L'approccio hegeliano alla natura è sia di carattere logico/ontologico, in quanto la natura possiede una razionalità intrinseca e costitutiva, sia di carattere epistemologico in quanto le singole scienze che indagano la natura ne organizzano la conoscenza e ne individuano i principi generali. Nella Filosofia della natura, Hegel tratta l’insieme delle scienze naturali del suo tempo, mostrando l’ampiezza davvero imponente delle sue conoscenze in tutti i campi trattati, pur con forzature e interpretazioni a volte discutibili, come nella critica alla teoria di Newton. 
La natura è dunque rappresentazione e manifestazione dell’idea ma nella sua forma più bassa e incompleta: è la decadenza dell’idea da se stessa, infatti l’idea, che in sé è pura e logica, nella natura si trova contaminata dalle dimensioni materiali e temporali ed è assoggettata al divenire. L’idea si disperde nella molteplicità dello spazio e del tempo e, quindi, assume le forme rigide e cristallizzate della natura. La natura, in quanto idea fuori di sé, ha la caratteristica precipua della esteriorità ed in quanto tale non mostra nella sua esistenza libertà alcuna; essa è un insieme di necessità, accidentalità e contingenza, di leggi deterministiche e casualità. Ne consegue la natura, sebbene in quanto idea sia in sé divina, tuttavia rispetto alla sua esistenza accidentale ed esteriore non è assolutamente da divinizzare: il suo carattere proprio è quello di essere posta, di essere negazione, non ens; la natura è e resta spirituale dunque solo in senso relativo e non assoluto. Per rendere comprensibile il passaggio dell’idea alla natura, Hegel, con chiari riferimenti anche alla filosofia di Plotino, che egli conosceva e ammirava, rievoca il concetto di caduta, cioè di perdita di essere nel senso autentico del termine: la natura è idea, ma idea alienata, priva di libertà. Ma perché l’idea, perfetta e compiuta, si infligge questo calvario? La sua unica funzione, per Hegel, sarebbe quella di rappresentare il momento oggettivo e di estraneazione dell’idea, che deve preparare il passaggio alla fase successiva, ossia alla Filosofia dello Spirito. Lo Spirito raggiunge l’autocoscienza e quindi la libertà solo confrontandosi col limite, deve “incarnarsi”. La natura trova la sua legittimazione e giustificazione all’interno del sistema hegeliano in quanto Hegel vuole rintracciare in essa la storia dello spirito.
Benché la natura venga presentata come quanto di più distante ci sia dallo Spirito, tuttavia, anche per Hegel, come per Schelling, essa è Spirito, ma tale spiritualità si rivela in essa gradualmente secondo il consueto ordine dialettico che parte dai gradi inferiori della natura, che parzialmente e impropriamente sono spirito, per giungere fin dove si trovano tracce più consistenti di vita spirituale. La dialettica della Filosofia della Natura è la via che conduce dalle forme inorganiche alle forme organiche della vita e da queste a quella forma organica speciale che è l’uomo. 
Lo schema dialettico della Filosofia della Natura è strutturato in tre parti:
v  meccanica, dominio della materia in tutta la sua esteriorità. Essa studia la materia in quanto mossa da cause efficienti, senza che vi sia ancora la presenza di alcuno scopo o impulso vitalistico. La meccanica prende in considerazione i risultati della fisica e della matematica applicati alla res extensa, alla materia; lo spazio, così come pure il tempo, è visto in termini quantitativi.
v  fisica, che studia la natura che in una certa misura agisce, che è soggetto, come avviene ad esempio nelle reazioni chimiche o nei fenomeni elettrici e magnetici, che già avevano esercitato una profonda influenza nella visione romantica della natura. In altre parole, la fisica considera la natura secondo gli elementi qualitativi, e quindi differenziali, che la costituiscono (il peso specifico, il suono, calore, il magnetismo, l’elettricità, ecc.) fino al processo chimico il quale mostra il criterio di aggregazione della vita.
v  fisica organica che pone le premesse per il passaggio al momento dello Spirito. Essa, infatti, ha per oggetto lo studio degli organismi viventi,  la natura vegetale, il soggetto animale, il funzionamento della struttura fisiologica, la riproduzione e, infine, la sua “inadeguatezza” all’universalità per la presenza del “germe innato della morte”. L’animale non solo è limitato, ma sa di esserlo ogni volta che ha fame e sete. Da qui la spinta a superare i limiti imposti dalla natura. Questa oscura consapevolezza è per Hegel la forma primordiale di soggettività. Da questa contraddizione interna, che condivide con l’animale, l’uomo giunge alla consapevolezza dell’inadeguatezza di essere animale e della necessità di andare oltre la natura. È questo l’esito che accompagna l’incapacità dell’organismo naturale a evolvere ulteriormente procedendo ad una dialettica di universalizzazione, capace di scandire un tempo che è diverso dal tempo naturale. Insomma, l’uomo è l’unica eccezione del mondo naturale capace di spezzare l’ordine della natura per inaugurare il Tempo della storia e del significato simbolico, l’unico a spezzare il cerchio conclusivo dei propri scopi naturali, a rifiutare la ripetitività dei propri gesti e delle abitudini, a superare il tempo naturale che conduce inevitabilmente alla morte. L’uomo è immortale come spirito e storia.
Ciò che supera le barriere del tempo, non è l’Umanità intesa come concatenazione generazionale di individui, i quali restano individui, ma come produzione spirituale, in cui l’individuo si fa da parte e ad emergere è solo l’idea universale: ciò che resta di un popolo non sono i singoli individui, ma ciò che ha prodotto; anche un poeta o un artista verrà ricordato più per i suoi risultati spirituali che per la sua caratteristica di individuo.
Insomma, affinché lo spirito si possa manifestare adeguatamente, esso deve lasciarsi la natura alle spalle. Quindi, nell'uomo l'idea torna ad emergere e attraverso l'uomo può intraprendere il cammino di ritorno a se stessa come Idea autocosciente, come spirito.

domenica 20 gennaio 2013

Hegel: la Logica


La LOGICA è il primo momento del sapere filosofico che ha i suoi ulteriori momenti nella FILOSOFIA  DELLA NATURA e nella FILOSOFIA DELLO SPIRITO. Hegel considera la logica nel modo tradizionale, cioè come disciplina astratta e formale, volta ad assicurare la correttezza formale del ragionamento. La Logica è quindi la scienza dell’idea pura, dell’idea in sé: è il pensiero stesso nelle sue forme fondamentali e nello sviluppo delle sue articolazioni. L'espressione inindica il carattere di indipendenza da tutto ciò che è altro:  la logica quindi non tratta dei contenuti del pensiero, ma considera il sapere nella sua forma assolutamente pura, cioè non mescolato con elementi empirici e soggettivi. Per Hegel la logica corrisponde ai pensieri di Dio prima della creazione effettiva [1]: è il progetto astratto del mondo, è il mondo pensato prima della sua realizzazione.
Poichè, per Hegel, la logica (= studio del pensiero) coincide con l'ontologia (= studio dell’essere), allora il pensiero (razionalità) e l'essere (realtà) coincidono. Pertanto, la logica non solo descrive le determinazioni, le strutture e le modalità di sviluppo del pensiero, ma rappresenta anche le determinazioni, le strutture e le modalità di sviluppo della realtà. In altre parole, l’idea è l’essenza della realtà (ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale), è lo scheletro, la struttura della realtà. Più vicino ad Aristotele, che aveva già stabilito l’identità tra logica e ontologia (ossia metafisica), Hegel si allontana da Kant, per il quale le categorie sono determinazioni solo del pensiero [2].
Anche nella logica Hegel procede per via dialettica: la dialettica, quindi, non è soltanto legge del pensiero perché anche la realtà segue un ritmo dialettico che la ragione ricostruisce e mostra [3]. Questo ritmo dialettico può essere paragonato ad una spirale dove ogni triade costituisce una anello via via più ampio e in questo senso la logica hegeliana può essere rappresentata come un dire la medesima cosa in maniera progressivamente più ricca. L’andamento complessivo è proprio quello di un andare dentro la realtà per scoprirvi il pensiero [4], fino al disvelamento totale della verità che è appunto l’idea nel suo complesso.
La Scienza della logica quindi segue i passaggi dialettici di tesi, antitesi e sintesi che corrispondono rispettivamente alladottrina dell’essere”, alla “dottrina dell’essenza”, alla “dottrina del concetto”. Il momento dell’essere è quello “intellettivo”, in cui le determinazioni figurano ancora nella loro astrattezza e immediatezza, quali le considerava la metafisica, cioè separate le une dalle altre; il momento dell’essenza è quello “dialettico”, che nega la staticità, l’astrattezza e l’isolamento e costringe a superare l'opposizione per giungere al momento del concetto che è quello “speculativo”, dove il sapere giunge ad un grado puramente razionale. 
1. Dottrina dell’ESSERE: nell’analisi dell’essere, Hegel prende in esame quelle che sono le sue determinazioni [5] più immediate, cioè le forme più elementari, astratte e povere del pensiero. Esse sono la qualità (il differenziare), la quantità (il contare) e la misura (il confrontare). 
La qualità è la determinazione indeterminata, cioè la determinazione concettuale più immediata e generica. La triade con cui comincia il movimento logico della categoria della qualità è costituita dall’essere, dal non essere e dal divenire.
Ø Essere: è la categoria più vuota, povera e astratta, assolutamente indeterminata, priva di ogni possibile contenuto e come tale essa si dà in modo semplice ed immediata, senza identificarsi con questo o quell’essere particolare. Un qualcosa, infatti, è tale solo in quanto si distingue da tutte le altre cose per le sue qualità. In questo senso, la nozione di essere, in quanto priva di qualsiasi determinazione, cioè non determinata, predicabile per tutto, non avendo una realtà propria, coincide di fatto col nulla. In questo modo tutto è essere ma nulla lo è in modo esclusivo (si tratta di essere in generale e non di essere particolare). Essere e nulla, contrapposti solo apparentemente, in realtà coincidono perchè dell'essere non si può predicare nulla senza con ciò stesso determinarlo. Quindi il concetto di essere è identico a se stesso ma anche al concetto del nulla.
Ø Nulla: l'identità tra essere e nulla, a primo acchito talmente contraddittorio da risultare incomprensibile, è semplicemente un nuovo modo di vedere la realtà: un modo cioè dialettico. Per superare questa contraddizione, cioè l’identità tra essere–nulla, il pensiero deve trovare un concetto che li ricomprenda entrambi su un piano più elevato, un concetto che costituisca cioè la sintesi di essere e nulla. Questo concetto è il divenire.
Ø Divenire: è l’unità di essere e nulla, in quanto il “divenire”, il “mutare” è essere e non essere contemporaneamente (ciò che diviene, infatti, è sempre se stesso ma non è più ciò che era prima). Il divenire è la reciproca trasformazione dell’essere nel non essere e viceversa. Ciò equivale a dire che la realtà si presenta sempre nella forma di un divenire: ciò che diviene infatti transita incessantemente dall'essere al nulla (muore) e dal nulla all'essere (nasce). Dal divenire viene il qualcosa: l’essere non è più indeterminato ma si determina.
L’essere determinato è tale in virtù della qualità, della quantità e della misura. 
La qualità specifica l'essere e lo rende finito. La conoscenza fondata sulla rappresentazione qualitativa, conduce ad una rappresentazione del mondo fondata su individualità sussistenti di per sè, come le monadi leibnitziane; 
la quantità corrisponde all'approccio meccanicistico al mondo; 
la misura, la quale è data dal rapporto qualità-quantità e determina la quantità della qualità (il quanto qualitativo): nella realtà, ogni qualità sussiste in un certo grado, così come ogni quantità stabilisce il grado in cui sussiste una certa qualità. Il limite di Leibniz e del meccanicismo consiste di privilegiare un solo approccio, ignorando il rapporto che esiste tra quantità e qualità. La misura pertanto supera la contrapposizione tra quantità e qualità ma, in quanto mero ed estrinseco rapporto numerico, è inadeguata a cogliere l’autentico quid delle cose: l’Essere non può essere colto nelle sue caratteristiche immediate (qualità, quantità, misura) che si rivelano, infatti, tutti concetti insoddisfacenti in quanto categorie che considerano l’essere nel suo isolamento mentre l’essere determinato, che è sempre un’entità finita, non si può comprendere se non in riferimento ad altro. Questo “fallimento” determina il passaggio ad una nuova sezione della logica in cui assume rilevanza fondamentale “la verità dell’essere”, cioè l’essenza.

2. Dottrina dell’ESSENZA: l’Essere, che è immediatezza, si supera e trapassa nell’Essenza, che è il fondamento, la verità dell’Essere. Dalle categorie dell’essere immediato, che concernono l’essere, per così dire a livello superficiale, si passa al momento della riflessione in cui l’Essere si ripiega su se stesso, finendosi per riconoscere uguale a se stesso e diverso dalle altre essenze. Nella logica dell’essenza, quindi, il pensiero si approfondisce, ossia cresce secondo la dimensione della profondità perché vuol vedere che cosa c’è sotto la superficie dell’essere, e arrivare al fondo di esso, trovando la verità, il fondamento, le radici, l’Essenza stessa dell’Essere. L’essenza, però, non è rinchiusa in una definizione, ma si fa nel rapporto e nel conflitto, in un rapporto dialettico. L’essenza nasce quando il dato iniziale è messo in relazione con la negazione, cioè con il suo opposto, con la differenza (rifacendosi a Spinoza, omnis determinatio est negatio). Nel momento in cui definisco qualcosa in modo preciso, escludo, cioè nego tutte le altre determinazioni. Attraverso la negazione, ogni realtà definisce se stessa, ma al tempo stesso chiarisce le proprie relazioni con le altre realtà. La negazione, tuttavia, non nega mai tutto, nega sempre qualcosa di determinato, un contenuto particolare. Per questo è una negazione determinata. Quindi la negazione ha un ruolo positivo, dinamico e pone le basi per il superamento delle differenze, delle opposizioni, giungendo così ad una totalità superiore. Qui Hegel respinge la logica aristotelica fondata sul principio di identità (A è A), di non contraddizione (A non è non A) e del terzo escluso (A o non A).
,
3. Dottrina del CONCETTO: scaturisce dal superamento delle due precedenti fasi. Nella logica del concetto il pensiero raggiunge la sua compiutezza, ossia si attua l’identità tra pensiero e essere. Il concetto non è più il concetto dell’intelletto astratto e unilaterale, diviso dalla realtà e opposto ad essa, ma è l’idea, il concetto della ragione, che è il solo punto di vista della verità. Il Concetto è il pensiero stesso, è il Soggetto che autocreandosi crea tutte le determinazioni logiche, produce i suoi contenuti, si scopre insomma essere tutta la realtà. In altre parole, il pensiero, nel suo procedere, realizza se stesso e il proprio contenuto. La logica del concetto non sfugge alla consueta struttura tripartita e si divide in dottrina della soggettività, dottrina dell’oggettività e dottrina dell’idea. In altre parole, la dialettica del concetto mira nel suo complesso a un “riassorbimento” dell’oggettivo nel soggettivo e alla definitiva affermazione del sapere assoluto o spirito come soggetto o idea. L'idea è l'unificazione compiuta di pensiero e realtà: è la struttura dinamica del'esistenza. Qui Hegel intende fornire una “dimostrazione” definitiva di quell’identità dialettica di soggetto e oggetto che costituisce il nucleo della sua filosofia: è la ragione, intesa come unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo, del soggetto e dell’oggetto. Il concetto è l’Idea che si autocrea e autocreandosi crea la totalità della realtà in tutta la ricchezza delle determinazioni logiche e relazioni interiori.
Hegel ha quindi ripristinato l’unità tra pensiero ed essere, considerando le idee non come qualcosa di astratto e irreale: esse infatti “hanno mani e piedi” per muoversi e agire nella realtà. Con ciò la struttura logica è completata: l'idea esce da sè, si spazializza, per diventare mondo, per uscire fuori di sè in direzione della natura.



[1] È la esposizione di Dio, come egli era nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito. Questa asserzione non vuol dire ciò che significherebbe nel contesto della filosofia classico-cristiana, dato che per Hegel l’Assoluto è processo, è risultato del processo (autorisultato). Il Dio prima della creazione è in qualche modo un minus rispetto allo Spirito dopo la creazione in quanto rappresenta il momento della tesi, mentre il Dio dopo la creazione rappresenta il momento della sintesi. L'idea costituisce una sorta di progetto, il mondo pensato prima della sua realizzazione; tuttavia, questo progetto prima di diventare realtà, ha un proprio sviluppo, che ne determinerà tutte le articolazioni interne. La logica, oltre che scienza del pensiero è anche lo studio del definirsi dell'idea che diverrà mondo.
[2] Hegel biasima Kant per aver negato la possibilità di costruire una metafisica come scienza: per Hegel, infatti, un popolo senza metafisica è come un tempio senza altare.
[3] La differenza rispetto alla Fenomenologia sta che in questa il luogo in cui accade il movimento dialettico è il processo storico della cultura, mentre il luogo dove accade il movimento dialettico della Logica è il pensiero. Inoltre, gli oggetti del movimento dialettico della Fenomenologia sono le concezioni etiche, religiose e politiche, quelli del movimento dialettico della Logica sono i concetti, le categorie cioè le forme di organizzazione razionale del mondo.
[4] Qui c’è il mito della dea velata di Sais: arriva un discepolo che alza il velo e vede se stesso; all’interno della realtà si tratta di vedere il logos, la razionalità.


[5] Per Hegel una proprietà o determinazione acquista una certa stabilità, si mantiene cioè come tale, solo attraverso una sorta di battaglia, volta ad assicurarsi l’affermazione contro le infinite altre determinazioni che essa esclude da sé.

domenica 13 gennaio 2013

Hegel: dalla Ragione al Sapere Assoluto


Con l’ennesimo capovolgimento dialettico, che parte dalla concezione di un Dio radicalmente opposto all’uomo, si arriva attraverso l'esperienza mistica alla concezione di un’unità inscindibile tra uomo e Diol’uomo si è assimilato a Dio e ha acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo soggetto/oggetto. Infatti, solo chi ha sperimentato l’impotenza, lo svuotamento, la separazione può superare questa condizione, e giungere alla consapevolezza che nulla esiste all’esterno di se stesso.  È questa la posizione propria dell’idealismo. Si chiude così la seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia e si apre la terza: la ragione. Mistica e ragione sono pertanto due passi contigui e la ragione pertanto appare come il momento di unità e di conciliazione. Hegel definisce la ragione come certezza di essere ogni realtà, certezza che è frutto dell'unità di pensare e di essere. Da notare che Hegel usa l’espressione certezza di essere ogni realtà e non sapere di essere ogni realtà, poiché se fosse un sapere sarebbe già il punto di arrivo. “Certezza”, invece, è il punto di partenza, è la dichiarazione generale che il soggetto ha acquisito consapevolezza di essere ogni realtà: dopo tale dichiarazione, spetta alla ragione cercare se stessa nella realtà, di verificare questa certezza, quasi come se si sapesse ciò che si è ma si dovesse cercare di capire il come e il perché. Si tratterà pertanto di una ricerca di se stessa che la ragione conduce nella realtà attraverso vai tentativi rappresentati da altrettante tappe dialettiche. Queste tappe ripetono, ad un livello più alto (perchè ora la Coscienza come Ragione sa di essere unità di pensiero e di essere), in forma di spirale ascendente, i tre momenti precedentemente esaminati. Il passaggio da mistica a ragione si è realizzato storicamente quando dal Medioevo si è passati al Rinascimento. Nel momento della Ragione si individuano tre tappe.
La prima tappa è costituita dalla scienza moderna ed è definita RAGIONE CHE OSSERVA LA NATURA o Ragione osservativa. È questa la fase del naturalismo del Rinascimento e dell’empirismo, fasi storiche in cui l’uomo, dall’osservazione dei dati empirici e dei risultati degli esperimenti, ricava, attraverso la classificazione e l’astrazione, i concetti e le leggi che costituiscono la scienza. La Ragione osservativa (in sostanza, la scienza moderna, sperimentale) è la ragione che "osserva" la natura con la certezza di trovarvi una razionalità omogenea alla sua: è consapevole fin da principio che il mondo è penetrabile dalla ragione, è razionale. Essa non cerca la natura sensibile delle cose, anche se crede di farlo: in realtà cerca se stessa nella natura, cerca di riconoscersi nella realtà oggettiva che le sta di fronte. Hegel scrive che la ragione cerca il suo altro, sapendo che in ciò essa non possiederà nient'altro che se stessa; essa cerca soltanto la sua propria infinità. Scopre quindi che le leggi immanenti alla natura altro non sono se non leggi della ragione stessa. Quindi la scienza si inganna di trovare, scoprire un ordine nelle cose; essa è invece costruzione di un ordine razionale propriamente umano. Qui è in gioco il consueto rapporto idealistico tra soggetto e oggetto, risolto tutto a favore del primo termine. Anche a proposito dell’intelletto (nella tappa della coscienza) si parlava di scienza, ma là era una tappa gnoseologica, qui è una tappa storica, cioè il naturalismo rinascimentale. Hegel sembra tornare al punto di partenza, ma in realtà è lo stesso punto di partenza visto a livelli sempre più alti. L’osservazione della natura parte dalla semplice descrizione, si approfondisce con la ricerca della legge e con l’esperimento per giungere poi nel dominio del mondo organico, per passare infine a quello stesso della coscienza con la psicologia. La psicologia si mostra incapace di indagare le leggi del pensiero. A questo proposito, Hegel esamina lungamente due sedicenti scienze in voga a quel tempo: la fisiognomica di J. K. Lavater (1741-1801), che aveva la pretesa di determinare il carattere dell’individuo attraverso i tratti della sua fisionomia, e la frenologia di F. J. Gall (1758-1828), che pretendeva di conoscere il carattere dalla forma e dalle protuberanze del cranio; in questa ricerca esasperata di sé nella frenologia, la ragione osservativa giunge a proclamare che l’essere dello spirito è un osso. Hegel rifiuta le leggi di queste due scienze in quanto si fondano su una corrispondenza rigorosa tra interno ed esterno. Tuttavia la ragione sia avvede che per ritrovarsi nella realtà non può limitarsi a osservarla e conoscerla: essa deve agire!
Se il primo momento era puramente oggettivo, in quanto la ragione ricercava oggettivamente se stessa nella realtà, la seconda tappa, quella della RAGIONE CHE AGISCE o Ragione attiva,  presenta invece un capovolgimento dialettico: dall'oggettività si passa alla soggettività, ovvero al momento dell'azione individuale, cioè alla sfera della morale. La Ragione che agisce ripete a più alto livello (cioè a livello di certezza di essere ogni cosa) il momento dell'autocoscienza: la coscienza non vuole cercarsi, ma vuole produrre se stessa, vuole imporre la ragione alla realtà (in ultima istanza la soggettività all’oggettività) in quanto l’unità di Io e mondo non è qualcosa di già dato e contemplabile ma qualcosa da realizzare. L'itinerario della Ragione attiva consiste nell'iniziare a realizzarsi, dapprima, come individuo per elevarsi, alfine, all'universale, superando i limiti dell'individualità e raggiungendo la superiore unione spirituale degli individui. A tal proposito Hegel, per questo momento che definisce “individualità”, scorge in tre figure e personaggi del suo tempo i diversi tentativi possibili che la ragione compie per imporsi alla realtà:
a) la prima figura è quella denominata il piacere e la necessità, che è propria dell'individuo che, deluso dalla scienza e dalla ricerca naturalistica, ricerca la felicità nel piacere e nel godimento, come, ad esempio, nel primo Faust di Goethe: Faust stringe un patto col diavolo pur di ottenere il dominio sulla natura e quindi il proprio godimento e benessere. Ma tale piacere è illusorio: nella ricerca del piacere l’individuo, limitato e finito, si scontra con la necessità del destino che, incurante delle sue personali esigenze di felicità, lo travolge inesorabilmente.
b) la seconda figura è quella della legge del cuore e il delirio della presunzione, che è propria dell’individuo che cerca di opporsi e regolare il corso ostile del mondo appellandosi alla legge del cuore, ai sentimenti (qui il filosofo allude probabilmente al filone sentimentalistico che va da Rousseau ai Romantici; Hegel non ama affatto l’atteggiamento dei Romantici e in questo si rivela come pensatore non-Romantico dell’età romantica: i Romantici infatti contrappongono ad una natura recalcitrante i propri valori, la loro legge del cuore, assumendo un atteggiamento di lamentazione e opposizione verso la realtà): qui l’individuo non si preoccupa del proprio piacere, come Faust, ma del benessere altrui e, dopo aver cercato di individuare e di abbattere i responsabili dei mali del mondo (preti fanatici, despoti corrotti), entra in conflitto con altri presunti portatori  del vero progetto di miglioramento della realtà: infatti, inevitabilmente, ogni individualità incontra la resistenza di altre individualità che, appellandosi alla legge del loro cuore, aspirano parimenti a imporre a tutti i propri principi, le proprie ricette per la salvezza dell’Umanità. 
Questi primi due tentativi sono destinati al fallimento poiché in essi la ragione si esprime ancora a livello individuale, non giunge cioè a quel livello di universalità collettiva, concreta che solo le consente di identificarsi con tutto il mondo. 
c) Da questa contraddizione nasce la terza figura che è quella della virtù e il corso del mondo, che vede l’individuo contrapporre, ai vari fanatismi di parte, la virtù, ossia un agire in grado di procedere oltre l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Tuttavia, lo scarto tra la virtù, astrattamente vagheggiata come “dover essere”, e la realtà, il corso del mondo, che è governato dalla legge dell'effettualità, è troppo grande per cui i cavalieri della virtù, cioè quei personaggi che vorrebbero riformare il mondo, sono destinati a fallire: il bene vagheggiato non riesce a invertire il corso del mondo e ciò comporta la sconfitta del “cavaliere della virtù” e dei suoi donchisciotteschi propositi di moralizzazione dell’esistente. La virtù, insomma, pur superando la dimensione soggettiva, sentimentale e romantica del cuore, non può che infrangersi di fronte al mondo, il cui inesorabile e oggettivo corso non si lascia certo mutare da essa. Figure di questo momento sono don Chisciotte e Robespierre.
Alla tappa della Ragione osservativa e a quella della Ragione attiva, segue quella denominata l’INDIVIDUALITÀ CHE È A SE STESSA REALE IN SE STESSA E PER SE STESSA. Anche questa fase si realizza in tre momenti successivi:
a) il regno animale dello spirito e l’inganno. Agli sforzi e alle ambizioni universalistiche della virtù succede l'atteggiamento dell'onesta dedizione ai propri compiti particolari (familiari, professionali, ecc.). il termine "animale" indica proprio che la vita dello spirito viene risolta nella cura dei propri compiti o affari. L'inganno, sta nel fatto che l'individuo tende a spacciare la propria morale individuale, che esprime in realtà un interesse particolaristico, per universale. Lukacs ha visto in questa figura la traduzione filosofica della mentalità, dell'individualismo borghese;
b) la ragione legislatrice. In questa figura, l'autocoscienza, consapevole dell'inganno sopra descritto, cerca in se stessa delle leggi che valgano per tutti. E' la figura corrispondente alla morale kantiana: la ragione, autonoma da ogni circostanza esterna, si fa principio di una legislazione universale. Tuttavia, tali leggi universali, in virtù della loro origine individuale, si rivelano inevitabilmente in contenuti etici particolari, pur se presentati nella forma dell'universalità, come illustra l'esempio proposto da Hegel, partendo da una tesi kantiana: Ognuno ha il dovere di dire la verità. In questo dovere enunciato come incondizionato viene subito ammessa la condizione: se egli sa la verità. Quindi il comando suonerà ora così: Ognuno deve dire la verità, sempre a seconda della cognizione e della persuasione che egli ne ha. In questo modo, la pretesa di universalità della norma morale mostra immediatamente i propri limiti e la propria inadeguatezza;
c) la ragione esaminatrice o critica delle leggi. Le contraddizioni di cui sopra, spingono l'autocoscienza a farsi "ragione esaminatrice delle leggi" effettivamente esistenti, per verificarne o meno l'universalità e la non contradditorietà. Tuttavia, l'autocoscienza si pone al di sopra di esse, nella misura in cui sottomette le leggi al proprio esame, in base a determinazioni individuali scambiate per universali. Così facendo si riduce, simultaneamente, l'intrinseca validità e incondizionatezza delle leggi.
Con tutte queste figure, Hegel intende dire che, fin quando ci si pone dal punto di vista dell'individuo, si è inevitabilmente condannati a non raggiungere mai l'universaleNon più confinata nella sfera dell'individualità, la ragione diviene spirito che, nella fase sistematica del pensiero hegeliano, viene denominato "spirito oggettivo" o "eticità", che si incarna nelle istituzioni politiche di un popolo e soprattutto nello Stato. Quindi, per Hegel, la legge etica non è in noi o nella nostra ragione ma nella storia e nello Stato. La legge morale è allora il diritto, cioè la legge positiva, che non deriva dalla volontà del legislatore ma è l'incarnazione nel tempo della ragione universale. A tal proposito, Hegel cita l'Antigone di Sofocle, per mostrare che essa non ha origine nella volontà individuale, poichè vive non oggi nè ieri, ma sempre. La Ragione, pertanto, non è legislatrice ma deve sottostare ad una norma esterna che oltrepassa la dimensione dell'individualità e che postula una realtà superiore a quella del singolo.
Come momento conclusivo, quindi, l'Autocoscienza, in questa fase, scopre che la sostanza etica non è altro se non ciò in cui essa è già immersa: è l'ethos della società e del popolo in cui vive.
La Ragione, pur essendo andata incontro a questa serie di sconfitte a causa dell’astrattezza e inadeguatezza dell’individualità, ha scoperto, tuttavia, l’imprescindibile ruolo della relazione tra individuo e comunità; la ragione transita allora dalla dimensione individuale e soggettiva della moralità alla dimensione sovra-individuale e collettiva dell'eticità. La Ragione universale si raggiunge solo quando si passa dalla morale kantiana e fichtiana, di carattere soggettivo, all’eticità, ossia quando si assume il punto di vista dello spirito che s’incarna nelle istituzioni giuridiche, storico-politiche e culturali di un popolo, ossia nello Stato. L’eticità è appunto la coscienza divenuta cosciente di se stessa realizzata nelle istituzioni storico-politiche di un popolo. Nell’eticità non c’è contrapposizione tra dover essere ed essere come nella moralità kantiana. Nell’eticità dover essere e realtà coincidono perfettamente in quanto ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale. In conclusione, per Hegel l’individuo non si può realizzare da solo, ma si realizza solo riconoscendosi e ponendosi all’interno dello Stato. L’autocoscienza raggiunge la pace solo se è realizzata all’interno di uno Stato.

LO SPIRITO
Lo Spirito non si identifica con la legge morale facente capo all’individuo virtuoso, ma si concretizza nella cultura di un popolo. Lo “Spirito” (Geist), secondo la definizione di Hegel, è, in questa specifica accezione, la vita etica di un popolo: l’individuo che è un mondo. In tal modo il singolo può comprendere se stesso, trovare il senso della sua esperienza e della sua esistenza come parte di un tutto, vale a dire del suo popolo. La Ragione, insomma, si realizza concretamente nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e soprattutto di uno Stato. In altre parole, la Ragione “reale” non è quella dell’individuo, ma quella dello spirito o dello Stato: non è quindi l’individuo a fondare la realtà storico-sociale, ma è vero il contrario.  Non capirebbe neppure una parola di ciò che dice Hegel chi non tenesse continuamente presente questa dimensione intersoggettiva, sociale, dello Spirito.
È chiaro, di conseguenza, che, per tutto il corso del restante itinerario fenomenologico, costituito dalle tre sezioni (Spirito, Religione, Sapere Assoluto, le "figure" non sono più modi in cui la Coscienza si rappresenta soggettivamente la realtà, ma diventano "figure di un mondo", tappe del percorso effettivo della storia, che ci mostrano lo Spirito "alienato nel tempo" e che attraverso questa alienazione si realizza e si ritrova e, alla fine, si autoconosce. Le tappe fenomenologiche dello "Spirito" sono:
A) lo Spirito in sé come eticità, che si esprime in maniera paradigmatica nel mondo greco e in quello romano. In Grecia, nella polis, abbiamo una fusione armonica tra l’individuo e la comunità, in quanto il singolo appare profondamente immerso nella vita del suo popolo. Era, però, ancora un’unità “immediata”, “naturale”, cioè quasi istintiva, non concettualmente consapevole, dunque di livello ancora inferiore: infatti, è presente ancora un elemento di scissione, che si evidenzia nel momento in cui la volontà del singolo e le leggi della comunità vengono a collidere. La figura più nota è quella rappresentato da Antigone, il cui desiderio di giustizia si scontra con le leggi dello Stato in un esito tragico. Il mondo romano, invece, riconosce l’individuo solamente nell’universalità astratta del diritto;
B) lo Spirito che si estrania da sé. In questa fase l’eticità e le sue contraddizioni vengono superate nella cultura, che corrisponde alla fase in cui si consuma la frattura tra l’io e la società, ossia a una situazione di scissione e di alienazione che, già iniziata nel mondo antico e con l’impero cristiano, trova il proprio culmine nel mondo moderno. In questa fase, il superamento dell’immediatezza naturale, la spontaneità ingenua, avviene mettendo in azione l’intelletto, quale facoltà analitica. Ma, come negli scritti giovanili, l’intelletto è incapace di giungere alla totalità organica, perché è essenzialmente portata a frammentare il conoscere. Rifiuta giustamente le credenze abituali e consolidate, facendone oggetto anche di irrisione e sarcasmo, ma non sa costruire: lascia una coscienza disgregata. Tale atteggiamento raggiunge il suo culmine con l’illuminismo, un tipo di cultura corrosiva: tutto viene sottoposto al vaglio dell’intelletto, che emancipa dai lacci della fede e della superstizione, ingaggiando con loro una vera battaglia. Ma la libertà della Ragione ottenuta in questo modo è puramente negativa, anche se si crede assoluta perché tende a distruggere tutto, rivolgendosi, alla fine, contro se stessa. Manifestazione politica di questa vicenda intellettuale è la Rivoluzione francese, che volendo instaurare il regno della libertà ha invece dato inizio al Terrore, dove gli stessi esponenti della Rivoluzione finiscono per ghigliottinarsi a vicenda. 
C) lo Spirito che riacquista certezza di sé. Per uscire dalla furia devastatrice del Terrore, è necessaria una rivoluzione morale attraverso cui il singolo educhi la propria volontà all’universale. Con ciò Hegel non intende riproporre la legge morale kantiana, che egli considera astratta perché formale, ma un’effettiva unione tra morale individuale e lo spirito  del popolo. Il terzo momento è quello di una riconquistata eticita, di una ritrovata armonia tra individuo e comunità. Anche qui lo Spirito attraversa delle figure, ancor imperfette, di “moralità astratta”:
  • l’anima bella romantica, che Hegel mutua da Schiller. Essa sembra rendere possibile la spontanea unificazione tra legge e impulso individuale. Essa definisce quella specie di soggettività che, rifugiandosi nella pura contemplazione e rinunciando quindi all’azione, si eleva all’universalità, ma è del tutto incapace di uscire da se stessa: proprio la sua purezza la isola dal contatto con il mondo perché essa non vuole “sporcarsi” nella realtà;
  • la religione, con la quale lo Spirito cerca di raggiungere l’unità con l’Assoluto: infatti, la religione ha come oggetto proprio l’Assoluto, che è rappresentato da Dio. Tuttavia, anche in questo stadio c’è qualcosa che impedisce la concettualizzazione totale: esso è dato da un elemento di esteriorità, cioè i simboli visivi con cui la religione si esprime. Questi sono condizionati da livello di cultura raggiunto dai diversi popoli. Infatti la religione può presentarsi come:

  1. religione naturale, che riconosce il sacro in elementi come la luce, le piante o gli animali: lo spirito divino appare allora come un artigiano che conosce se stesso attraverso oggetti (piramidi, obelischi);
  2. religione artistica, tipica del popolo greco e romano, che rappresenta il divino nelle opere d’arte;
  3. religione rivelata nel cristianesimo, la forma più alta di religione, che, grazie a concetti come la Trinità, la lotta tra il bene e il male e l’incarnazione (nei quali egli vede i concetti cardine della propria filosofia), riesce ad andare oltre l’immediatezza della rappresentazione sensibile, ma, nonostante la sua spiritualità, contiene pur sempre un elemento rappresentativo. Dio rimane ancora un oggetto, cioè qualcosa di esterno, per così dire, al mondo, dunque un’immagine inadeguata a esprimere l’identità dello Spirito con se stesso.

LA TAPPA CONCLUSIVA: IL SAPERE ASSOLUTO
Il superamento della forma di conoscenza "rappresentativa" propria della Religione porta, infine, al puro concetto e al Sapere Assoluto, ossia al sistema della scienza, che Hegel esporrà nella "Logica", nella "Filosofia della Natura” e nella "Filosofia dello Spirito", come vedremo. La scienza è quindi l’esito della storia della coscienza, è il Sapere Assoluto, cioè completamente libero, in cui lo Spirito coglie se stesso, diviene consapevole di se stesso, può finalmente pensarsi ed essere insieme soggetto e oggetto solo nell’Assoluto, nel concetto, cioè nella filosofia. La concettualità filosofica è “concreta” perché si è arricchita, ma anche purificata, passando attraverso tutte le esperienze precedenti. L’identità Io=Io è ora superata nell’uguaglianza e dell’uguaglianza e della differenza. 

martedì 8 gennaio 2013

CARTESIO (da Abbagnano)


2. Il metodo
Come Montaigne, Cartesio non vuole insegnare, ma descrivere se stesso: egli parla perciò in prima persona. Il suo problema emerge dal bisogno di orientamento avvertito all'uscita dalla scuola di La Flèche, quando, pur avendo assimilato con successo il sapere del tempo, il giovane René si accorge di non avere alcun criterio sicuro per distinguere il vero dal falso, ma di avere appreso nozioni che poco o nulla servono alla vita. In una famosa pagina del Discorso sul metodo, Cartesio narra le delusioni provate nel ricercare il vero una volta uscito dal collegio. Prima racconta di aver cercato nei libri, poi nel “gran libro del mondo” e, infine, in se stesso.
I termini del problema
L'orientamento, il criterio, il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico: esso, infatti, deve condurre a saper distinguere il vero dal falso anche e soprattutto in vista dell'utile e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. La filosofia che ne risulterà dovrà pertanto essere una filosofia “non puramente speculativa, ma anche pratica, per la quale l'uomo possa rendersi padrone e possessore della natura”.
Una simile forma di sapere dovrà mettere a disposizione dell'uomo congegni che gli facciano godere senza fatica dei frutti della terra e di altre comodità e dovrà mirare alla conservazione della salute, la quale è il primo bene in questa vita. Cartesio è francamente ottimista sulla possibilità di un tale sapere, il quale, egli pensa, potrebbe condurre gli uomini a essere esenti “da un'infinità di malattie, tanto del corpo quanto dello spirito, e forse anche dall'indebolimento della vecchiaia(Discorso sul metodo, VI, 1).
Il metodo dev'essere dunque un criterio di orientamento unico e semplice, un protocollo, cioè un insieme di procedure che servono all'uomo in ogni campo teoretico e pratico per guidare la ricerca, e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel mondo. Questa unità del metodo, pur nella diversità delle sue applicazioni, viene riconosciuta da Cartesio già nelle Regole per dirigere l'ingegno. Qui egli afferma che la saggezza umana è una sola, quali che siano gli oggetti a cui si applica; ed è una sola perché uno è l'uomo nelle sue diverse attività.
Nel formulare le regole del metodo, Cartesio si avvale soprattutto della matematica: le scienze matematiche, per Cartesio, sono già in possesso del metodo, che applicano normalmente. Eppure prendere coscienza delle regole metodiche della matematica, astrarle da tali discipline e formularle in generale per poterle applicare a tutte le altre branche del sapere non è sufficiente. È necessario, infatti, anche giustificarle. In altri termini, si tratta di giustificare il metodo e la possibilità della sua applicazione universale. Il fatto che le matematiche siano già in possesso della pratica del metodo facilita senza dubbio il compito del filosofo; ma questo compito comincia veramente soltanto con la giustificazione (o fondazione) delle regole metodiche: giustificazione che sola ne consente e autorizza l'applicazione a tutti i domini del sapere umano.
Cartesio deve dunque:
Ø  formulare le regole del metodo, tenendo soprattutto presente il procedimento matematico, nel quale esse già sono in qualche modo presenti;
Ø  fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo individuato;
Ø  dimostrare la fecondità del metodo nei vari rami del sapere.
Tale è il compito filosofico di Cartesio. (CFR La matematica universale, pag 183).

Le regole
Per quanto riguarda il primo punto, la seconda parte del Discorso sul metodo ci dà la formulazione più matura e semplice delle regole del metodo. Esse sono quattro:

l ) Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza. Questa regola, che è per Cartesio la fondamentale, prescrive l'evidenza, l'intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti del pensiero e l'esclusione di ogni elemento sul quale sia possibile una qualche forma di dubbio.

2) Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla. Questa è la regola dell'analisi, per la quale un problema viene risolto nelle sue parti più semplici, da considerarsi separatamente.

3) Condurre i miei pensieri ordinatamente, incominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle conoscenze più complesse. Questa è la regola della sintesi, per la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.

4) Fare in ogni caso enumerazioni cosi complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla.  L'enumerazione controlla l'analisi, la revisione controlla la sintesi. Questa regola offre così il controllo delle due precedenti. (CFR Il metodo e le sue regole, da pag184 a pag 186)


3. Il dubbio e il cogito ergo sum
Come abbiamo anticipato, le regole metodiche individuate da Cartesio non hanno in sé la propria giustificazione. Neppure il fatto che la matematica se ne serva con successo le giustifica, perché esse potrebbero avere utilità pratica ai fini delle sole discipline matematiche, ma non essere applicabili in altri campi, e ciò le destituirebbe della necessaria validità assoluta. Compito della filosofia è scoprire la prima fra tutte le verità: la scoperta del proprio sé attraverso l’esercizio del dubbio. Cartesio deve quindi tentare di giustificare le regole metodiche, di garantirne la verità del giudizio, risalendo alla loro radice: l'uomo come soggettività, o come ragione. Cartesio, insomma, riesce ad isolare il ruolo dell’io, della coscienza nei processi della conoscenza.

Dal dubbio metodico al dubbio iperbolico
Trovare il fondamento di un metodo che dev'essere la guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato, con il rifiuto dei pregiudizi, evitando di mescolare congetture anticipate, frettolose, non dedotte esclusivamente da ciò che possiamo intuire con chiarezza ed evidenza. Bisogna sospendere l'assenso a ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungerà a un principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di fondamento a tutte le altre conoscenze. Ora, Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio. La prima fase del dubbio va sotto il nome di DUBBIO METODICO. Il dubbio metodico è diverso da quello degli scettici: non è fine a se stesso, ma un mezzo per giungere alla verità. Il dubbio metodico investe l’intero mondo sensibile e l’immaginazione, sia perché i sensi qualche volta ci ingannano e quindi si deve dedurre che essi possano ingannarci sempre sia perché si hanno nei sogni conoscenze simili a quelle che si hanno nella veglia senza che si possa trovare un sicuro criterio di distinzione tra le une e le altre: niente può garantire che la veglia non sia un sogno. L’esistenza del mondo esterno e così anche del mio stesso corpo, per il momento, viene rifiutata come oggetto di una falsa credenza. La seconda fase è quella del DUBBIO IPERBOLICO, cioè esagerato: il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale. Il dubbio iperbolico intende minare persino la certezza che accompagna le conoscenze matematiche: queste ultime sono vere sia nel sogno, sia nella veglia (2 + 3 fa sempre 5 sia che si dorma, sia che si vegli), ma neppure queste conoscenze si sottraggono al dubbio, perché anche la loro certezza può essere illusoria. Infatti, finché non si sappia qualcosa di certo intorno a noi e alla nostra origine, si può sempre supporre che l’uomo sia stato creato da un genio maligno, cioè da una potenza malvagia che si sia proposta di ingannarlo facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. Si tratta ovviamente di una finzione, ma il solo fato di poter fare quest'ipotesi (e si può farla, dato che non si sa alcunché) mi consente di supporre che anche le conoscenze che appaiono soggettivamente più certe si rivelino dubbie e capaci di celare l'inganno.
Con un procedimento concentrico, abbiamo perduto prima la certezza del mondo esterno e poi del mondo interno alla mente. Ma proprio nel carattere radicale di questo dubbio si intravede una prima certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili, ma per ingannarmi o per essere ingannato io debbo esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione "io esisto" è dunque la sola assolutamente vera, perché il dubbio stesso la conferma; infatti può dubitare, e quindi pensare, solo chi esiste: cogito ergo sum. Insomma il dubbio ha portato Cartesio a ripiegare nell’interiorità dove è possibile trovare il fondamento incrollabile di ogni conoscenza: la realtà del pensiero, sia pure come attività dubitante, si pone al di sopra di ogni possibile dubbio. Posto che esista un genio maligno che mi inganna, io debbo in ogni caso esistere per essere ingannato. (CFR Il dubbio e il cogito - Il cogito e la regola dell’evidenza, pag 188-189. Inoltre, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, da pag 190 a pag 193)

La natura del cogito
La proposizione "io esisto" contiene evidentemente anche una prima indicazione su ciò che sono io che esisto. Non posso certo dire di esistere come corpo, giacché non so ancora nulla dell'esistenza dei corpi, intorno ai quali il mio dubbio permane. Pertanto io non esisto se non come cosa che dubita, cioè che pensa. In altre parole, la certezza del mio esistere concerne solo e tutte le determinazioni del mio pensiero: il dubitare, il capire, il concepire, l'affermare, il negare, il volere, il non volere, l'immaginare, il sentire... al contrario le cose pensate, immaginate, sentite ecc. possono, a quel che ne so, non essere reali; ma è reale certamente il mio pensare, il mio sentire ecc. La proposizione "io esisto" equivale dunque alla proposizione “io sono un soggetto pensante”: cioè spirito, intelletto o ragione. La mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è l’esistenza di nessuna delle cose che penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco (per esempio un pezzo di cera) non esista; ma è impossibile che non esista io che penso di percepire quell'oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza.
Il principio cartesiano ripete il movimento di pensiero che già era stato sviluppato da Agostino e da Campanella; ma lo ripete nell'orizzonte di un altro problema. Non si tratta, come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell'interiorità dell'uomo; non si tratta neppure, come in Campanella, di stabilire la natura dell'anima senziente in quanto coscienza delle proprie modificazioni. Si tratta invece di trovare nell'esistenza del soggetto pensante, il cui essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l'efficacia dell'azione umana sul mondo. Non bisogna dimenticare che Cartesio ha elaborato la sua metafisica come fondamento e giustificazione della fisica: ha voluto cioè ritrovare nella stessa esistenza dell'uomo, in quanto io o ragione, la possibilità di una conoscenza che consenta all'uomo di dominare il mondo per i suoi bisogni.

Le discussioni intorno al cogito
I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, o per lo meno dall'originale ripresa di tale concetto, lo discussero ampiamente.
Qualcuno accusò il ragionamento cartesiano di essere un “circolo vizioso”, affermando che, se il principio del cogito viene accettato perché evidente, la regola dell'evidenza risulta anteriore allo stesso cogito, come fondamento della sua evidenza, per cui la pretesa di giustificarla in virtù del cogito diventa illusoria. Cartesio risponde affermando che non è vero che il cogito risulta evidente perché conforme alla regola dell'evidenza, in quanto il cogito è la stessa autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di se medesimo: il cogito è in se stesso chiaro e distinto. Esso non è certo perché rispetta i criteri della chiarezza e della distinzione, esso semmai li fornisce. In caso contrario essi sarebbero stati presupposti ancora una volta in modo dogmatico o stipulati con un accordo più o meno condiviso. Analogamente, all'accusa mossa da Gassendi, secondo cui il cogito sarebbe una forma di sillogismo abbreviato, del tipo “Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto”, e quindi risulterebbe infondato, in quanto il principio “Tutto ciò che pensa esiste” cade preliminarmente, come tutto il resto, con l'ipotesi del genio maligno, Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, ma un'intuizione immediata della mente. Nessuna dimostrazione potrebbe renderla più certa di quanto già non appaia.
Più insidiosa è l'osservazione di Hobbes, secondo il quale Cartesio avrebbe senz'altro ragione nel dire che l'io, in quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi su come esso esista, definendolo «uno spirito, un'anima». In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: «Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata». Infatti il quid, o la x, che pensa, la sostanza di quell'atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando:
1. che l'uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre, per cui il pensiero, per lui, risulta essenziale;
2. che il pensiero indica talvolta l'atto del pensiero, talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui si identifica tale facoltà. Pertanto, in quest'ultimo caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è appunto costituita dal pensiero.

4. Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane
Il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza ed evidenza, ma lascia ancora aperta la questione delle altre esistenze ed evidenze, sulle quali continua a gravare l'ipotesi del genio maligno. Infatti, io sono un essere pensante che ha idee (intendendo per idea ogni oggetto del pensiero). Ora, io sono sicuro del fatto che tali idee esistano nel mio spirito, perché esse, come atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto pensante. Non sono invece sicuro che a queste idee corrispondano realtà effettive fuori di me. Idee sono per me la terra, il cielo, gli astri e tutte le cose percepite dai sensi.
Queste idee esistono nel mio spirito, ma esistono anche le cose a esse corrispondenti, fuori di me?
Per rispondere a questa domanda, Cartesio divide tutte le idee in tre categorie:
Ø  quelle che mi sembrano essere innate in me (innate);
Ø  quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori (avventizie);
Ø  quelle formate o trovate da me stesso (fattizie).
Alla prima classe di idee appartiene la capacità di pensare e di avere idee; alla seconda classe appartengono le idee delle cose naturali; alla terza classe, infine, le idee delle cose chimeriche o inventate. Per scoprire se a qualcuna di queste idee corrisponda una realtà esterna, non c'è altro da fare che chiedersi la possibile causa di esse. (CFR L’innatismo, pag 196-197).

L'idea di Dio e le prove dell'esistenza di Dio
Per quel che riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose naturali, esse non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me.
Per quel che riguarda l’idea di Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna, onnisciente, onnipotente e creatrice, è invece difficile supporre che possa averla creata io stesso. Difatti io sono privo delle perfezioni che quell'idea rappresenta; e la causa di un'idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta è quella che l'idea stessa rappresenta. La causa dell'idea di una sostanza infinita non posso essere io che sono una sostanza finita; questa causa dev'essere una sostanza infinita la quale, pertanto, deve essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell'esistenza di Dio.
In secondo luogo, si può riconoscere l'esistenza di Dio partendo dal fatto che il mio io ha natura finita. lo sono finito e imperfetto, come è dimostrato dal fatto che dubito. Ma se fossi la causa di me stesso, mi sarei dato le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell'idea di Dio. È dunque evidente che non mi sono creato da me e che non può avermi creato che Dio, il quale mi ha creato finito pur dandomi l'idea dell'infinito.
A queste due prove Cartesio ne aggiunge una terza, che è la tradizionale prova antologica. Non è possibile concepire Dio come Essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perché l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie. Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. D'altronde l'esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza, giacché tutto ciò che non ha la causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse incessantemente a crearlo. La creazione è continua. (CFR Dio esiste e non mi inganna, pag 194 e 195; inoltre, Ulteriore prova dell’esistenza di Dio, pag 197).

Dio come garante dell'evidenza e la possibilità dell'errore
Una volta riconosciuta l'esistenza di Dio, il criterio dell'evidenza trova la sua ultima garanzia. Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio, che ho ricevuta da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale. Dio è dunque, per Cartesio, quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze, secondo lo schema di fondo della sua metafisica:
Ma com'è allora possibile, l'errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause, cioè dall'intelletto e dalla volontà. L'intelletto umano è limitato e noi possiamo infatti pensare un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell'intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, di ricercare o fuggire, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che l'intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione sufficienti. In questa possibilità di affermare o di negare ciò che l'intelletto non riesce a percepire chiaramente risiede la possibilità dell'errore.
L'errore non ci sarebbe mai, se io affermassi o negassi, cioè dessi il mio giudizio, solo intorno a ciò che l'intelletto mi fa concepire con sufficiente chiarezza e se mi astenessi dal dare il mio giudizio intorno a ciò che non è abbastanza chiaro. Ma poiché la mia volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi su ciò che non è evidente abbastanza, nasce la possibilità dell'errore. lo potrò indovinare per mero caso; e anche così avrò usato male della mia libertà. Ma potrò anche affermare quello che non è vero e in tal caso sarò senz'altro caduto in errore. L'errore dipende dunque unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all'uomo e si può evitare soltanto attenendosi alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell'evidenza.
L'evidenza, avendo ormai ottenuto ogni garanzia (in quanto è risultata fondata sulla stessa veridicità di Dio), consente di eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla realtà delle cose corporee. Io ho l'idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi. Quest'idea, essendo evidente, non può essere ingannevole: devono dunque esistere cose corporee corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo. (CFR Perché esiste l’errore, pag 195).

Le critiche alla concezione cartesiana di Dio
Anche il discorso cartesiano su Dio è stato tradizionalmente accusato di costituire un "circolo vizioso", perché il filosofo pretenderebbe di dimostrare Dio per mezzo dell'evidenza e l'evidenza per mezzo di Dio. Corrispondentemente, Cartesio è stato tacciato di "presunzione metafisica", poiché egli invoca Dio per giustificare ciò che, in fondo, ritiene già vero prima e indipendentemente da Dio: il criterio generale dell'evidenza e le evidenze particolari. Ma in tal modo la funzione di Dio all'interno del conoscere finisce per apparire inutile, o pleonastica, poiché serve a giustificare delle evidenze che in realtà vengono preliminarmente ammesse proprio in quanto evidenti. Ora, per giustificare ad esempio che il sole splende o che l'acqua bolle a cento gradi, è proprio necessario ricorrere a Dio? E siccome Cartesio, difendendosi dalle accuse dei suoi critici, afferma talvolta che Dio, più che il garante della verità in se stessa, è il garante della permanenza della verità, il suo richiamo alla divinità risulta anche epistemologicamente pericoloso, poiché rischia di dogmatizzare e eternizzare le verità umane, andando contro la metodologia della rivoluzione scientifica, la quale afferma che una cosa è vera in quanto e finché non risulta smentita, e non perché è garantita metafisicamente e "per sempre" da qualche principio superiore.
Per quanto riguarda le "prove" di Dio fornite dal filosofo francese, esse sono apparse, per lo più, abbastanza fragili. Ad esempio, le prime due si fondano sul presupposto, tutt'altro che scontato, della non-derivabilità empirica del concetto di perfezione assoluta. La terza prova è sostanzialmente una ripresa del tradizionale argomento ontologico, il quale, come si è già visto, non sembra possedere quel carattere di "verità incontrovertibile" che Cartesio vorrebbe attribuirgli. (CFR L’accusa di circolo vizioso, pag 198).

5. Il dualismo cartesiano
Accanto alla sostanza pensante, che costituisce l'io, si deve ammettere, come si è visto, la sostanza corporea, divisibile in parti, quindi estesa.
Tale sostanza estesa non possiede però tutte le qualità che noi percepiamo di essa. Cartesio fa sua la distinzione già stabilita da Galilei e che in realtà risale a Democrito. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, il numero (cioè tutte le determinazioni quantitative sono certamente qualità reali della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l'odore, il suono ecc. non esistono come tali nella realtà corporea e corrispondono in questa realtà a qualcosa che noi non conosciamo.
In tal modo, Cartesio ha spezzato la realtà in due zone distinte ed eterogenee:
Ø  da un lato la sostanza pensante (res cogitans), che è in estesa, consapevole e libera, da un lato;
Ø  dall'altro la sostanza estesa (res extensa), che è spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata.
Ma dopo aver tracciato questa divisione, Cartesio si trova di fronte al difficile problema di riunire le due sostanze, ovvero di spiegarne il rapporto scambievole, rendendo intelligibile, per quanto riguarda l'uomo, la relazione tra anima e corpo.
Cartesio pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (l'odierna epìfisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo doppia, può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso, i quali sono tutti doppi.
Come vedremo, questa soluzione apparirà pseudofilosofica e pseudoscientifica ai pensatori successivi, che cercheranno di sciogliere il nodo del dualismo cartesiano in modo diverso. (CFR La mente e il corpo, pag 198 e 199).

6. Il mondo fisico e la geometria[1]
La fisica cartesiana, sulla base della rigorosa separazione tra sostanza pensante e sostanza estesa, poté attuare finalmente la radicale eliminazione dei residui finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici che ancora infestavano la fisica agli inizi del Seicento.
Neppure Galileo seppe con altrettanta coerenza depurare la fisica dalle scorie del passato. E perciò appunto, sebbene i risultati di Cartesio nell'analisi dei singoli fenomeni fisici non potessero reggere il confronto con i successi conseguiti da Galileo, il meccanicismo cartesiano riuscì a incidere profondamente sulla formazione della mentalità scientifica dell'epoca, soprattutto in Francia, e il sistema elaborato dal filosofo, pur con le sue stravaganze, riscosse notevole successo, tanto da rivaleggiare per parecchi decenni con il sistema newtoniano. Nondimeno, l'interesse rivolto prevalentemente al problema metodologico e ai principi di carattere generale, congiunto al desiderio di elaborare un sistema fisico onnicomprensivo adatto a far da complemento alla metafisica, distoglieva solitamente Cartesio dall'indagine accurata dei fenomeni e induceva a sommarie generalizzazioni, che fornivano una visione gravemente riduttiva della complessità dei fenomeni naturali.
Meccanicismo significa, ovviamente, determinismo. Una spontaneità della natura o una sua intrinseca casualità non sono ammissibili, poiché i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale che, come abbiamo già visto, è uno dei temi qualificanti della rivoluzione scientifica.
Dobbiamo tuttavia aggiungere che, nel momento in cui la scienza fisica assume una struttura matematica, la necessità oggettiva si traduce inevitabilmente in una necessità logico-matematica, che ha il suo fondamento nelle leggi del pensiero; assunta, infatti, un'ipotesi, l'andamento di un fenomeno può essere dedotto matematicamente da quella. Noi siamo oggi consapevoli che la deduzione si limita a esplicitare ciò che è già implicito nell'ipotesi stessa, con tutto il margine di incertezza in essa contenuto, e non prescrive alla natura alcuna ulteriore legge del pensiero. Ma il successo del procedimento deduttivo generava l'illusione che l'evidenza soggettiva delle argomentazioni fosse di per sé garanzia della loro corrispondenza con la realtà esterna, indipendentemente da una conferma sperimentale.
Sicché Cartesio, indotto da tale illusione, tende a operare anche nella fisica, oltre che nella metafisica, quel salto dall'ordine logico all'ordine ontologico che costituisce da sempre l'aspirazione ultima del razionalismo. Egli di fatto procede non di rado guidato dalla convinzione di poter cavare dalla propria testa le leggi che governano il mondo.
D'altronde non le sole leggi, ma l'esistenza stessa della res extensa trova fondamento per Cartesio nell'evidenza della nostra idea dello spazio. Su questa base è ovvio, come abbiamo già accennato, che dal mondo della nostra esperienza possiamo assumere come oggettive solo quelle proprietà che siano suscettibili di una trattazione geometrica, mentre le restanti proprietà che attribuiamo al mondo sono di natura puramente soggettiva. La geometria è perciò l'unica scienza fisica.

La geometria analitica
La Geometria è la più importante delle tre appendici del Discorso sul metodo e costituisce in qualche modo l'atto di nascita della geometria analitica, la quale si colloca storicamente come punto di incontro tra i progressi dell'algebra realizzati nel corso del Cinquecento e il contemporaneo lento recupero della geometria classica.
Cartesio ha chiara consapevolezza dell'unità delle diverse scienze matematiche, le quali, «sebbene i loro oggetti siano differenti, tuttavia si accordano tutte, perché negli oggetti esse considerano soltanto i diversi rapporti o proporzioni». Ritiene pertanto possibile unificare la geometria degli antichi con l'algebra dei moderni; ma questa operazione richiede una revisione di ambedue le scienze.
Ø  La geometria degli antichi, malgrado i suoi incontestabili successi, è inficiata dal suo
procedere episodico, che costringe per ogni costruzione a ricercare una dimostrazione ad hoc; essa, infatti, rimanendo ancorata a un'immediata considerazione dei contenuti intuitivi, non riesce a cogliere i rapporti nella loro universalità e a sollevarsi al livello di generalità necessario a un'impostazione sistematica della scienza.
Ø D'altro canto, anche la nuova scienza algebrica appare a Cartesio "un'arte confusa e oscura", sia per l'uso di simboli inadeguati, dei quali talora non si intende appieno il significato, sia per il rapporto di sudditanza che la lega alla geometria.
Pertanto Cartesio riordina sistematicamente la simbologia algebrica (che risponde ormai quasi puntualmente a quella odierna) e abbandona l'immediata interpretazione geometrica dei procedimenti algebrici. L'algebra, riorganizzata così in un linguaggio autonomo, diviene idonea a riprodurre entro di sé in termini puramente formali la geometria, la quale a sua volta si offre come strumento di chiarificazione intuitiva dei procedimenti dell'algebra, quasi un'algebra applicata. Il numero e la forma divengono in tal modo traducibili l'uno nell'altra.
L'operazione, ormai ovvia per noi, richiede soltanto l'assunzione di un'unità di misura che consenta di interpretare un numero come una distanza e di una coppia di linee fondamentali, che oggi chiamiamo appunto "assi cartesiani", quale sistema di riferimento. Ciò posto, punti, rette e curve possono essere individuati univocamente sul piano, in relazione agli assi, attraverso procedimenti algebrici.

La fisica
Il mondo, come si è detto, si identifica con l'estensione e la fisica si riconduce perciò integralmente alla geometria, né è di ostacolo a tale riduzione l'esistenza del moto, giacché il tempo può assumere agevolmente i connotati di una dimensione geometrica. Dopo questa premessa, nell'accostarsi alle opere di fisica di Cartesio, sconcerta, per verità, constatare un'assenza quasi totale della matematica. Non è una contraddizione; a Cartesio interessa soltanto fornire della realtà fisica un'interpretazione che renda possibile la trattazione matematica, senza che con questo egli si senta obbligato a svolgerIa esplicitamente.
Di fatto la fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l'infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due soli ingredienti dell'estensione e del moto. L'una e l'altro hanno origine da Dio, al quale si deve non solo la creazione della res extensa, ma anche il conferimento a essa di una certa determinata quantità di moto, indistruttibile non meno della materia: due principi fondamentali di conservazione, del moto e della materia, sono immediatamente deducibili dall'immutabilità di Dio, dalla quale può derivarsi l'immutabilità di quanto egli opera. Altri interventi di Dio nel mondo, oltre al primo atto di creazione della materia e al primo impulso, non sono richiesti. Al Dio di Cartesio, come osserverà Pascal, basta aver dato il primo calcio al mondo; il resto va da sé.
L'identificazione della materia con l'estensione comporta alcune conseguenze di grande rilievo:
• lo spazio euclideo è infinito e pertanto infinita è anche la sostanza estesa;
• lo spazio geometrico è inoltre infinitamente divisibile, la materia perciò non può essere costituita di atomi;
• lo spazio è continuo, non ammette interruzioni, buchi, fenditure, di conseguenza non è concepibile il vuoto; l'estensione, d'altronde, è l'attributo di una sostanza. e pertanto non può sussistere senza una sostanza cui inerire;
• infine le qualità che attribuiamo alla materia in addizione all'estensione sono puramente soggettive, perché lo spazio è qualitativamente indifferenziato.
L'unico motore della grande macchina del mondo è costituito dall'originaria quantità di moto, che può distribuirsi in modi differenti tra i corpi attraverso gli urti. Il che significa che viene bandita ogni forza, attrattiva o repulsiva, e in particolare quelle forze che debbono manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali, o di qualsivoglia altra natura. Non era, d'altronde, del tutto ingiustificato questo ripudio delle forze esplicantisi a distanza, che richiamavano il finalismo aristotelico, l'astrologia, l'animismo.
Come può, infatti, un corpo esercitare un'azione là dove non è? Galileo stesso le aveva in sospetto, al punto da respingere come farneticazione astrologica l'antica tesi che riconduceva il fenomeno delle maree all'influenza della luna. 
Due sole leggi dominano l'universo fisico cartesiano: il principio di inerzia (che in Cartesio, pur diluito in due leggi distinte, trova finalmente una formulazione adeguata), e il principio della conservazione della quantità di moto.
La riduzione della fisica a geometria si scontra, a dire il vero, con difficoltà insormontabili ove si disponga dei soli strumenti matematici di cui disponeva Cartesio. Entro lo spazio euclideo perfettamente omogeneo non si riesce, infatti, a immaginare qualcosa che possa corrispondere a ciò che chiamiamo movimento. Secondo Cartesio è invece pensabile che frammenti di spazio si muovano rispetto ad altri frammenti di spazio, sebbene non si comprenda come il moto possa essere rilevato, se lo spazio è uniforme. Tuttavia l'aspetto meno convincente della teoria si coglie nel fatto che quel moto, poco chiaro proprio a causa dell'assoluta uniformità del tutto, divenga stranamente esso stesso origine delle disomogeneità presenti nella res extensa, che alla nostra percezione si manifesta come costituita di entità solide, o liquide, o areiformi, o infine in quella forma che interpretiamo come spazio vuoto. Ebbene, i differenti aspetti che presenta ai nostri sensi la res extensa dipendono esclusivamente dalle diverse condizioni inerziali dei vari frammenti di estensione. Coerenza e durezza di un corpo solido, ad esempio, sono soltanto l'effetto della comune condizione inerziale delle parti del corpo stesso, nel senso che non vi sono entro di esso moti relativi di alcune parti di estensione rispetto ad altre (condizione condivisa più o meno integralmente a seconda della maggiore o minor durezza del corpo).
Ovviamente Cartesio, avendo ripudiato ogni tipo di forza, non può fare appello a una coesione attiva delle parti di un corpo per spiegare la sua solidità. La materia sottile (o etere), che riempie tutto ciò che impropriamente chiamiamo vuoto, è costituita invece di corpuscoli, cioè di frammenti minutissimi di estensione, privi di ogni coerenza perché soggetti ciascuno a una differente condizione inerziale.
Sebbene il moto inerziale sia rettilineo, di fatto l'assenza del vuoto finisce inevitabilmente col produrre il chiudersi del moto in un circolo. Quando un corpo, infatti, si muove attraverso la materia sottile, è necessario che la materia sottile, che esso sposta davanti a sé, si richiuda sulla sua scia. Il che porta al costituirsi di un complesso sistema di vortici, che assumono una funzione fondamentale nella fisica cartesiana.
Da un vortice è avvolta la Terra, come pure ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la Terra e i singoli pianeti ruotano a loro volta entro un vortice più ampio, da cui è avvolto il sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio si lusinga di poter spiegare la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti senza far ricorso alle aborrite forze a distanza. Infatti la materia sottile in moto vorticoso spingerebbe verso il suolo terrestre i gravi e analogamente manterrebbe la Terra e i pianeti in orbita intorno al sole.
La teoria dei vortici, non suffragata, ovviamente, da alcuna prova sperimentale, e priva di ogni elaborazione matematica, ebbe un certo successo e fronteggiò per qualche tempo la teoria della gravitazione newtoniana; non le si può negare, comunque, un merito fondamentale: prima di Newton, unificava terra e cielo, riconducendo a una medesima causa la caduta dei gravi e il moto orbitale dei pianeti.
L'implacabile riduzionismo cartesiano non risparmiava neppure il mondo della vita. Le funzioni vitali non posseggono infatti alcunché di specifico che le differenzi dai fenomeni di natura meccanica: un essere vivente è solo una macchina, un automa, funzionante anch'esso in virtù dell'inerzia e della conservazione della quantità di moto. Cartesio riteneva di trovare conferme alla propria interpretazione meccanicistica della vita non solo negli studi di anatomia sviluppatisi già dal Rinascimento, che evidenziavano la funzione meccanica dello scheletro e della muscolatura, ma anche nella scoperta recente della circolazione del sangue fatta da Harvey. Lo stesso corpo dell'uomo è una macchina, di cui la res cogitans si serve come di un proprio strumento; e, sebbene Cartesio si affanni a dichiarare che tra anima e corpo esiste un'intima connessione, più profonda di quella che esiste tra il pilota e la sua nave, talora si riceve proprio l'impressione che il legame sia di tal natura che con la morte l'anima debba abbandonare il corpo, non più funzionante, un po' come un automobilista abbandona la sua macchina in panne. Ma la presenza di una res cogitans capace di agire sulla res extensa costituisce un ulteriore motivo di debolezza del sistema cartesiano.
Nell'insieme i contributi specifici di Cartesio ai progressi della scienza fisica non sono molto significativi; o almeno va detto che il loro apprezzamento risulta problematico, giacché il significato di alcuni principi di indubbia validità, come il principio d'inerzia e il principio di conservazione della quantità di moto, è alterato dal sistema entro cui i principi stessi sono inseriti. Ciò nonostante rimangono essenziali, nel processo di fondazione della fisica classica, il coerente richiamo all'esigenza di una razionalità matematica e la valorizzazione del modello meccanico. La visione meccanicistica, che pretende che la natura agisca sempre e soltanto secondo i procedimenti di cui facciamo uso nella costruzione delle macchine, appariva seducente in un'età in cui la scienza voleva essere in primo luogo uno strumento di dominio della natura; d'altronde i modelli meccanici continuarono ancora a lungo ad allettare gli scienziati, per altro mietendo successi in una molteplicità di campi, tanto nell'interpretazione di fenomeni fisici quanto nella progettazione di macchine.

7. La filosofia pratica
La morale "provvisoria"
Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare con il dubbio l'analisi metafisica, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria, allo scopo di evitare di rimanere «irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava ad esserlo nei suoi giudizi».
La prima regola provvisoria era di obbedire alle leggi e ai costumi del paese, conservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi. Con questa regola egli rinunciava preliminarmente a ogni estensione della sua critica nel dominio della morale, della religione e della politica. E in realtà questa regola esprime un aspetto, non provvisorio ma definitivo, della personalità di Cartesio, caratterizzata dal rispetto verso la tradizione religiosa e politica.
«Ho la religione del mio re», «Ho la religione della mia nutrice», egli rispose al ministro protestante Revius che l'interrogava in proposito. In realtà egli distingueva due domini diversi: l'uso della vita e la contemplazione della verità. Nel primo, la volontà ha l'obbligo di decidersi senza attendere l'evidenza; nel secondo ha l'obbligo di non decidere finché l'evidenza non è stata raggiunta. Nel dominio della contemplazione l'uomo non può contentarsi che della verità evidente; nel dominio dell'azione l'uomo può contentarsi della probabilità. La prima regola della morale provvisoria ha dunque per Cartesio, entro certi limiti, un valore permanente e definitivo.
La seconda regola era di essere il più fermo e risoluto possibile nell'azione e di seguire con costanza anche l'opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata. Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita che obbligano molte volte ad agire in mancanza di elementi sicuri e definitivi. Ma evidentemente la regola perde ogni carattere provvisorio se la ragione è già entrata in possesso del suo metodo. In tal caso, infatti, essa implica che «vi sia una ferma e costante risoluzione di seguire tutto ciò che la ragione consiglia senza che ci si lasci deviare dalle passioni o dagli appetiti» (Lettera a Elisabetta, 4 agosto 1645).
La terza regola era di cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna e di cambiare i propri desideri più che l'ordine del mondo. Cartesio sostenne costantemente che nulla è del tutto in nostro potere tranne i nostri pensieri, che dipendono solo dal nostro libero arbitrio; e ripose il merito e la dignità dell'uomo nell'uso che egli sa fare delle sue facoltà, uso che lo rende simile a Dio. Questa regola rimase il caposaldo fondamentale della morale di Cartesio. Essa esprime, nella formula tradizionale del precetto stoico, lo spirito del cartesianesimo, il quale esige che l'uomo si lasci condurre unicamente dalla propria ragione, e delinea l'ideale stesso della morale cartesiana, quello della saggezza.

Lo studio delle passioni
Alla sua morale "provvisoria" Cartesio, tutto preso dai prevalenti interessi metafisici e scientifici, non farà mai seguire una morale "definitiva". Tuttavia, come si è accennato, scriverà Le passioni dell'anima, che contengono anche spunti di etica.
In questo scritto, Cartesio distingue nell'anima azioni e affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, le affezioni sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causati nell'anima dagli spiriti vitali, cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo.
Evidentemente la forza dell'anima consiste nel vincere le emozioni e nell'arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro, sollecitano l'anima di qua e di là, portandola a combattere contro se stessa e riducendola nello stato più deplorevole. Ciò d'altronde non vuol dire che le emozioni siano essenzialmente nocive. Esse si rapportano tutte al corpo e sono date all'anima in quanto è congiunta con esso; sicché hanno la funzione naturale di incitare l'anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a conservare il corpo e a renderlo più perfetto.
In questo senso la tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali. Dalla prima infatti l'anima è avvertita delle cose che nuocciono al corpo e così prova l'odio verso ciò che le causa tristezza e il desiderio di liberarsene. Dalla gioia invece l'anima è avvertita delle cose utili al corpo e così prova amore verso di esse e il desiderio di acquistarle o di conservarle.
Alle emozioni va congiunto tuttavia uno stato di servitù da cui l'uomo deve tendere a liberarsi. Esse fanno quasi sempre apparire il bene e il male, che rappresentano assai più grandi e importanti di ciò che sono, però ci inducono a fuggire l'uno e a cercare l'altro con più ardore di quanto convenga. L'uomo deve lasciarsi guidare, per quanto è possibile, non da esse, ma dall'esperienza e dalla ragione: solo così potrà distinguere nel loro giusto valore il bene e il male ed evitare gli eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza; e la saggezza si ottiene estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto e separando, per quanto è possibile, questo dominio dai movimenti del sangue e degli spiriti vitali dai quali dipendono le emozioni e con i quali abitualmente è congiunto.
Proprio in questo progressivo dominio della ragione, che restituisce all'uomo l'uso intero del libero arbitrio e lo rende padrone della sua volontà, è il tratto saliente della morale cartesiana.

8. Cartesio nella filosofia moderna
Apprezzato subito per la sua statura intellettuale ed elevato ben presto a simbolo della modernità, Cartesio ha ispirato le filosofie più disparate. Tanto più che il suo essere una sorta di filosofo «mascherato» e ambivalente, come egli stesso sembra suggerire con l'espressione «larvatus prodeo» (procedo mascherato), ha fatto sì che del suo pensiero si siano sottolineati aspetti antitetici tra loro e che egli abbia potuto essere considerato, di volta in volta, come filosofo della coscienza o come filosofo della materia, come filosofo della libertà o come filosofo del meccanicismo, come filosofo cristiano o come filosofo che pone le basi dell'ateismo, come filosofo conservatore o come filosofo rivoluzionario.
Al di là di queste divergenti interpretazioni (alcune delle quali si contendono tuttora il campo), il razionalismo di Cartesio ha rappresentato una pietra miliare della filosofia moderna, di cui egli è solitamente considerato il fondatore.
Cartesio è innanzitutto il più importante protagonista della filosofia del Seicento. A lui si rifanno la metafisica religiosa di Malebranche come il panteismo naturalistico di Spinoza, il filosofare cristiano di Pascal come il pensiero "emancipato" dei libertini, il dinamismo monadologico di Leibniz come il meccanicismo materialistico di Hobbes ecc. Per questi e altri autori Cartesio si presenta infatti come un interlocutore obbligato e, al di là delle critiche, in alcuni casi particolarmente violente, ciascuno di essi riconosce un qualche debito nei confronti dell'innovato re della problematica filosofica, ritenuto, se non altro, un "idolo polemico" con cui risulta indispensabile fare i conti. Pertanto, in alcuni casi si può parlare di un vero e proprio "anticartesianesimo nel cartesianesimo".
L'autore del Discorso sul metodo è presente anche agli empiristi del Sei-Settecento, che, a cominciare da Locke, innestano il cartesianesimo sulla tradizione più tipica del pensiero inglese, elaborando sistemi che rivelano una forte influenza del pensatore francese, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello terminologico. L'uso cartesiano del termine "idea", intesa come ogni oggetto del pensiero in generale, e la relativa problematica del passaggio dall'idea alla realtà, ad esempio, è di tale rilevanza, negli empiristi, da condizionare gli esiti stessi della filosofia di Locke, dell'immaterialismo di Berkeley e dello scetticismo di Hume.
Cartesio ha un ruolo fondamentale anche all'interno dell'llluminismo, che da un lato vede in lui un tipico esponente dello "spirito di sistema", ma dall'altro ne apprezza l'impronta razionalistica, il dubbio metodico, il rifiuto del principio di autorità ecc. Inoltre il cosiddetto "cartesianesimo di sinistra", di tendenza radicalmente meccanicistica, rappresenta una componente di base delle correnti più estremistiche del materialismo francese.
Nel kantismo, Cartesio diviene il rappresentante di un idealismo problematico che rischia di chiudere l'io nel cerchio delle sue idee, aprendo le porte a Berkeley. Nello stesso tempo egli si configura come il teorico del cogito, che accompagna tutte le nostre rappresentazioni, e al cui interno va cercata l'origine della conoscenza.
Con l'idealismo tedesco Cartesio è celebrato come filosofo della soggettività, tramite il quale prende avvio il passaggio dalla metafisica dell'essere o dell'oggetto alla metafisica della mente o del pensiero, e per il quale si intuisce, grazie al cogito, l'identità tra essere e pensiero. Cartesio è anche uno degli ispiratori del filone spiritualistico della filosofia ottocentesca, in tutta la gamma variopinta delle sue forme. Con lui, visto come l'antesignano della svolta soggettivistica della filosofia moderna, ritengono di dover fare i conti autori italiani come Galluppi, Rosmini, Gioberti.
Nel Novecento, in particolare nella prima metà del secolo, l'influenza di Cartesio continua a essere notevole, soprattutto nell'ambito della cultura francese, che dal pensiero cartesiano ha tratto una tipica impostazione dualistica e coscienzialistica, cioè fondata sulla contrapposizione tra l’ “io” e le “cose”. Il caso dell'esistenzialismo coscienzialistico del primo Sartre risulta, a questo proposito, uno dei più emblematici. Ancora nel 1946, infatti, polemizzando con i marxisti, Sartre dichiarava: «Non vi può essere, all'inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che raggiunge se stessa. Ogni teoria che considera l'uomo fuori dal momento nel quale egli raggiunge se stesso è, anzitutto, una teoria che sopprime la verità, perché, fuori del cogito cartesiano, tutti gli oggetti sono soltanto probabili»[2].
La ripresa più esplicita e storicamente importante di Cartesio si trova, tuttavia, nella fenomenologia, che, nelle sue interpretazioni più coscienzialistiche e idealistiche, si è apertamente rifatta al filosofo del cogito. Non per nulla, Husserl intitola uno dei suoi capolavori Meditazioni cartesiane, dando modo di parlare, a proposito del suo sistema, di «neocartesianesimo husserliano».



[1] A cura di Carlo Barghini.
[2] L'existentialisme est un humanisme, Mursia, Milano 1968, p. 68.