sabato 15 dicembre 2012

Fichte: la missione del dotto


Fichte: la missione del dotto

Quella appena descritta è la missione dell'uomo, considerato come un individuo isolato. Ma l'uomo non è mai solo, perché è un essere che vive con gli altri e ha la missione di contribuire alla formazione di tutti gli uomini, facendo prendere loro consapevolezza della legge morale che è in ognuno. Rientra tra gli istinti fondamentali dell’uomo l'ammettere che esistano fuori di sé altri esseri ragionevoli a lui simili, e che egli debba entrare in un rapporto di socialità con essi. L'istinto sociale è, dunque, un istinto fondamentale dell'uomo: L'uomo - scrive il filosofo - ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società; se vive isolato, non è un uomo intero e completo, anzi contraddice a se stesso[1].
L’uomo, sentendosi un "io finito", ma aspirando all'infinito, cerca di superare la propria limitatezza partecipando alla vita degli altri esseri finiti a lui simili per natura, perché dotati di ragione, e in tal modo realizza la società.
Rivolgendosi ai suoi giovani studenti universitari di Jena, nelle celebri Lezioni sulla missione del dotto, Fichte pronuncia le seguenti ispirate e impegnative parole:
Voi giovani siete a vostra volta destinati a operare potentemente sull'umanità, a diffondere un giorno in una cerchia più o meno larga, sia con l'insegnamento che con l'azione, sia in entrambi i modi, la cultura che voi stessi avete ricevuta e così a innalzare beneficamente, per ogni dove, i nostri comuni fratelli a un grado più elevato di cultura; e io ora, operando per la vostra formazione spirituale, contribuisco probabilmente all'educazione di milioni di uomini ancora non nati[2].
Gli uomini devono vivere in società e tendere - questo è il fine supremo della società - alla completa unità di tutti i suoi membri. Tale finalità si basa sul presupposto che gli altri uomini sono esseri ragionevoli simili a noi, con i quali dobbiamo, dunque collaborare in vista del perfezionamento morale di tutti. Infatti, dato che la ragione presente in me richiede che io mi comporti in modo ragionevole nella vita morale, posso esser certo che tale ragione, presente in ogni uomo, richieda il medesimo impegno a tutti. E io stesso, essere dotato di ragione, voglio che la ragione trionfi non soltanto in me - il che sarebbe poca cosa - ma anche negli altri uomini.
Guardando più da vicino il tipo di relazione che gli uomini devono stabilire tra di loro, osserviamo che essi, in quanto dotati di ragione, devono obbedire a una duplice norma, una negativa e l'altra positiva. Innanzi tutto, non devono trattare gli altri uomini come mezzi, ma sempre solo come fini, come aveva già detto Kant. Se, infatti, io calpesto la libertà dell'altro, per ciò stesso distruggo la mia stessa libertà, rendendomi schiavo delle passioni e dell'egoismo. In secondo luogo, la legge morale ci impone di tendere non solo al nostro perfezionamento, ma anche a quello altri, attraverso l'educazione. E ciò si dimostra dal fatto che il fine della società è l’unità di tutti gli individui, un’unità che si consegue soltanto qualora tutti ricerchino la perfezione morale che, pur essendo irrealizzabile, va tuttavia perseguita con tutto l'impegno possibile.
Dalle considerazioni precedenti, Fichte fa discendere un'importante distinzione, quella tra società e Stato. Il vivere nello Stato non rientra tra le finalità assolute dell'uomo, a differenza del vivere in società, che invece si riferisce alla sua stessa natura. Lo Stato è per Fichte qualcosa di meramente empirico, che ora esiste, ma che potrebbe anche scoprire qualora gli uomini fossero migliori. Lo Stato, infatti, è detentore dei poteri della costrizione e della repressione grazie ai quali riporta l'ordine tra gli uomini. Esso è, dunque, uno strumento in vista della migliore organizzazione possibile, ma non è un fine. Al pari delle stesse istituzioni umane, che sono semplici mezzi, esso deve proporsi come proprio obiettivo quello di diventare inutile: scopo di ogni governo è quello di rendersi superfluo, come scopo di ogni buon padre è quello di far crescere il figlio in autonomia e dunque di lasciarlo sviluppare in autonomia. Oggi non è arrivato ancora tale momento, osserva il filosofo, né è possibile dire quando si verificherà, ma è sicuro che su quella via di progresso che è tracciata a priori all'umanità, è segnato un tal momento, in cui tutte le costrizioni esercitate dallo Stato saranno superflue[3]. La società perfetta, infatti, è quella in cui regna la libera collaborazione tra gli e in cui tutte le volontà riescono a trovare liberamente il reciproco accordo, in una superiore e razionale armonia di intenti. Abbandonandosi all'utopia, Fichte sogna, dunque, un futuro non meglio determinato, in cui l’uomo, libero dagli egoismi e dalle passioni, si farà guidare soltanto dalla ragione, la quale saprà porre rimedio agli errori (sempre possibili), senza bisogno di ricorrere all'autorità coercitiva dello Stato:
È quel momento in cui sarà universalmente riconosciuta, come giudice supremo, la pura ragione in luogo della forza o dell'astuzia. Dico sarà riconosciuta, poiché anche allora gli uomini porranno errare e per errore danneggiare i loro simili; ma essi allora avranno tutti necessariamente la volontà pronta a lasciarsi convincere dell'errore e, appena convinta di ciò, a ritrarsene e a risarcire il danno. Prima che questo momento sia giunto, noi non siamo ancora (universalmente considerati) neppure veri uomini[4].
Per quanto utopistica, questa pagina del filosofo rappresenta, però, la spia più eloquente della sua prospettiva idealistica, che vede l'uomo come caratterizzato dallo sforzo continuo di raggiungere una perfezione che, spostandosi sempre in avanti, non viene mai davvero raggiunta. E al perfezionamento infinito dell'umanità, grazie alla missione del dotto, Fichte dedica le pagine più belle delle sue celebri Lezioni.
Il dotto è la figura dell'intellettuale che ancor più degli altri uomini, non può vivere da solo, incurante delle sorti degli altri. Al contrario, il dotto è destinato in modo specialissimo alla vita sociale, avendo il compito di condurre tutti gli altri alla consapevolezza dei veri bisogni e di indicare i mezzi più adatti per raggiungere tale obiettivo. La missione del dotto è la più alta di tutte, ma ciò non significa che egli debba insuperbirsi, anzi il dotto ha motivi per essere il più modesto di tutti, perché resterà sempre lontano dalla meta che gli è assegnata, quella di realizzare un ideale di umanità assai nobile, che di solito non si riesce a guardare se non da lontano. Ma che cosa deve fare il dotto? Deve provvedere all’eguale sviluppo di tutte le facoltà dell'uomo e stimolare l’umanità a perseguire tale ideale. A tal fine, il dotto deve avere innanzi tutto la conoscenza scientifica dei bisogni umani, intesa però dal punto di vista filosofico, ossia come conoscenza dei doveri spirituali e morali dell'uomo. Da questa prospettiva, Ficthe ritiene che la filosofia sia la scienza suprema, perché è quella che più di tutte, riesce a determinare la vera natura dell'uomo. In secondo luogo, tocca al dotto indicare i mezzi più idonei al raggiungimento della suddetta perfezione spirituale, perché una filosofia in grado di fare ciò sarebbe inesorabilmente pessimistica e inutile. A tale scopo, la filosofia deve farsi coadiuvare dalla storia, che guarda indietro e registra i dati e gli stadi del perfezionamento morale che lo Spirito ha raggiunto nelle epoche del passato. La storia, dunque, è importante perché ci fa cogliere i fatti, ma senza la filosofia è incapace di interpretarli e orientarci verso il futuro. Storia e filosofia, dunque, rappresentano i contenuti essenziali del patrimoni conoscitivo del dotto, un patrimonio che Fichte denomina dottrina del dotto e deve riuscire utile alla società:
Lo scopo di tutte queste conoscenze - scrive Fichte - è dunque, quello di procurare che per mezzo di esse siano sviluppate in modo uniforme, però con costante progresso, tutte le attitudini proprie dell'umanità; e di qui si ricava, allora, la vera missione che è assegnata alla classe colta: essa consiste nel sorvegliare dall'alto il progresso effettivo del genere umano in generale e nel promuovere costantemente questo progresso[5].
Attribuendo al dotto la missione di sorvegliare "dall'alto" il progresso umano, l'autore non intende porre l'intellettuale su un piedistallo che lo separi dagli altri uomini, ma vuole riferirsi alla più profonda cultura del dotto che lo mette in grado di comprendere ciò che gli altri trascurano e, per conseguenza, di guidare il processo della storia. Il dotto, dunque, deve vegliare sui progressi delle altre classi sociali, ma per adempiere a tale gravoso ufficio, deve sforzarsi di progredire egli stesso, poiché dal suo progredire dipendono tutti progressi possibili negli altri campi della cultura. Egli deve essere sempre innanzi agli altri – dice il filosofo - per aprir loro la strada, esplorarla innanzi a loro e fare da guida[6]. Per quanto tali parole oggi possano sembrare fuori luogo, non si dimentichi il contesto storico in cui il filosofo le aveva pronunciate, quando la cultura non era diffusa e l'istruzione muoveva i primi passi nella direzione dell'alfabetizzazione di massa proprio grazie alle intuizioni di Fichte e del suo amico, il grande pedagogista svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827), che dedicò tutta la sua vita alla causa dell'educazione, aprendo in campagna una scuola elementare per i bambini poveri, in un terreno di sua proprietà.
Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Vol II, Paravia, pp. 628-631.

La missione del dotto (sintesi)

Ogni epoca storica presenta determinati aspetti del non-io perché, come detto, superati certi ostacoli, ne nascono di nuovi. Lo scopo principale diviene farsi liberi e rendere liberi gli altri in vista della completa unificazione del genere umano. Si richiede, pertanto, secondo Fichte, la mobilitazione di coloro che possiedono la maggior consapevolezza teorica, cioè dei “dotti”. Infatti, Fichte, nelle Lezioni sulla missione del dotto (1794), sostiene che gli intellettuali non devono essere degli individui isolati e chiusi nella torre della loro scienza, ma devono essere delle persone pubbliche e con precise responsabilità sociali: Il dotto è il modo specialissimo destinato alla società; in quanto tale egli esiste propriamente mediante e per la società…..deve condurre gli uomini alla  coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti a soddisfarli. Si delinea in questo passo la funzione di guida spirituale del dotto che, quale maestro ed educatore, quale uomo moralmente migliore del suo tempo, deve condurre gli uomini alla consapevolezza dei loro veri bisogni e i mezzi per conseguirli. Si tratta non dei bisogni materiali, ma di quelli spirituali. Il dotto, col suo lucido intelletto, deve guardare più lontano, deve scorgere prima degli altri quali sono gli ostacoli che il non-io pone nell’epoca storica in cui vive e indicare la rotta del progresso, per aiutare l’uomo a elaborare la strategia migliore, atta a superare questi ostacoli che si frappongono all’ulteriore liberazione dell’umanità. L’uomo di cultura deve costituire l’avanguardia dell’umanità che combatte per la propria libertà. Il fine supremo di ogni singolo uomo, come della società tutta intera, e – per conseguenza – di tutta l’operosità sociale del dotto è il perfezionamento morale di tutto l’uomo. Per esercitare la sua funzione di guida, il dotto non deve essere chiuso nell’orizzonte del presente, ma deve guardare al futuro, un futuro visto in modo utopistico dal filosofo come la realizzazione finale dello Spirito assoluto del mondo. Certo, Fichte riconosce in tutti gli uomini il “senso del vero”, ossia quella capacità naturale di riconoscere verità naturali semplici e comuni, che possano costituire le premesse per il riconoscimento della verità come tale, ma tale sentimento del vero da solo non basta: esso dev’essere sviluppato, saggiato, raffinato. In altri termini, il dotto, come già ricordato, deve farsi maestro ed educatore del genere umano.
Sintesi da:
Domenico Massaro, La Comunicazione Filosofica, Vol II, Paravia, pp. 645-647. Abbagnano-Fornero, Itinerari di Filosofia, Vol II B, Paravia, p. 852.
Lezione di Antonio Gargano, preside Istituto Italiano Per Gli Studi Filosofici di Napoli.



[1] Fichte, La missione del dotto, La Nuova Italia, Firenze 1939 e 1973, p. 41.
[2] Idem, p. 25.
[3] Idem, pp. 42-43.
[4] Idem, p. 43.
[5] Idem, pp. 91-92.
[6] Idem, p. 94.

Hegel: idea, natura e spirito. La partizione della filosofia. La dialettica.


Idea, Natura e Spirito.    La partizione della filosofia.

Il disegno complessivo dell'Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade dialettica in cui l’Assoluto, cioè la ragione, nella sua verità, deve giungere a riconoscersi come reale e ciò compare solo alla fine del processo, quale risultato conclusivo. Ciò non significa che l’Assoluto non sia compiuto già all’inizio, ma la verità è tale solo se confermata dalla totalità dello sviluppo. Il reale è già razionale e la ragione è già reale, solo che essa non ne è pienamente consapevole. Per giungere a questa consapevolezza deve percorrere un itinerario, deve compiere un processo che è tutt’altro che scevro di difficoltà: per riconoscersi nel reale, la ragione deve scontrarsi innanzi tutto con ciò che non si lascia ridurre ad essa, con qualcosa che la nega. Si tratta della già nota dialettica idealistica, presente anche in Fichte e Schelling, tra limite e superamento di esso da parte dello spirito che riconduce ogni realtà all’identità con sé.
Quindi, anche Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso tre momenti: l’Idea in sé e per sé (tesi), l’Idea fuori di sé (antitesi) e l’Idea che ritorna in sé (sintesi). Solo realizzando il ricongiungimento del primo e dell’ultimo momento, l’Assoluto giunge al proprio maturo compimento, mostrandosi come soggetto autoconsapevole delle proprie forme e delle proprie manifestazioni. La verità deve dunque superare la prova del fuoco della realtà. La dialettica è il percorso che l’Assoluto compie per giungere alla sua verità; è il percorso attraverso cui l’Assoluto, inizialmente inconsapevole e puro essere in sé, si appropria delle sue stesse manifestazioni, che prima esperisce come qualcosa di estraneo, come un essere fuori di sé, acquisendo quell’autoconsapevolezza che Hegel esprime attraverso la nozione riflessiva di essere per sé.
Nella fase matura del pensiero hegeliano questo schema dialettico generale articolerà i contenuti di un sistema completo di filosofia, secondo tre momenti principali: logica (tesi), natura (antitesi) e spirito (sintesi). A questi tre momenti strutturali dell'Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in cui si divide il sapere filosofico:




1. dottrina dell'essere
        Logica
2. dottrina dell'essenza

3. dottrina del concetto


1. meccanica
Filosofia della natura
2. fisica

3. organica



a) antropologia

1. soggettivo
b) fenomenologia

c) psicologia



a) diritto              
Filosofia dello Spirito
2. oggettivo
b) moralità


c) eticità


a) arte
3. assoluto
b) religione


c) filosofia
1) la logica, che è la scienza dell’Idea in sé e per sé, cioè dell’Idea “pura”, considerata in se stessa (= in sé) a prescindere dalla sua concreta realizzazione nella natura. Da questo angolo prospettico, l’Idea, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è assimilabile a Dio prima della creazione della natura e di uno spirito finito, ovvero, in termini meno equivocanti (visto che l'Assoluto hegeliano è un infinito immanente, che non crea il mondo, ma è il mondo) è assimilabile al programma, all’impalcatura, all’ossatura logico‑razionale della realtà. L'Idea rappresenta l'insieme organico di tutte le determinazione logiche del reale. Questa idea tutta compiuta e perfetta in sé ha bisogno però di ritrovarsi nella realtà, di vedere cioè fino a che punto essa informa veramente di sé la realtà effettiva, e soprattutto ha bisogno di rispecchiarsi, per giungere alla coscienza di sé. Comincia così il cammino dell'idea alla ricerca di se stessa nella realtà, passando per la natura e per lo spirito.
 2) la filosofia della natura, che è la scienza dell’Idea nel suo alie­narsi da sé, l’Idea fuori di sé o Idea nel suo essere altro: è la Natura, cioè l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio‑temporali del mondo. Nella natura però essa trova solo una realizzazione parziale, a causa dei limiti propri di quella, e comincia a ritrovarsi, a riflettersi in modo omogeneo e adeguato solo quando incontra la realtà umana. Ma non tutta la realtà umana è adeguata all'idea,    giacché l'uomo è anche parte della natura.
3) la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’Idea che, dal suo alienamen­to, ritorna in sé. È lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna presso di sé nell’uomo. L'idea si riflette dunque solo nell'uomo inteso come spirito e come produttore di cultura, di prodotti cioè spirituali quali il diritto, la storia, l'arte, la religione, la filosofia. Solo in queste realtà spirituali l'idea si troverà realizzata in un modo adeguato alla sua costituzione ideale. Perciò Hegel può dire: «L'assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell'assoluto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, tomo II, p. 375).
Ovvia­mente, questa triade non è da intendersi in senso cronologico, come se prima ci fosse l’Idea in sé e per sé, poi la Natura e infine lo Spirito, ma in senso ideale. Infatti, ciò che concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la Natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma logico rappresentato dall’Idea pura (la tesi). 
I due elementi strutturali del procedere del pensiero hegeliano, ma più in generale del processo che l'assoluto deve compiere, sono: la dialettica, cioè confronto e superamento del limite, e la circolarità, cioè identità di inizio e fine.

La Dialettica
Come si è visto, l'Assoluto, per Hegel, è fondamentalmente divenire, cioè il percorso che l'Assoluto in generale, ma in modo più capillare anche ogni sua parziale manifestazione, effettua per giungere alla sua verità.
La legge che regola tale divenire è la dialettica, che rappresenta, al tempo stesso, la legge (ontolo­gica) di sviluppo della realtà e la legge (logica) di comprensione della realtà. Hegel non ha offerto, della dialettica, una teoria sistematica, limitandosi, per lo più, ad utilizzarla nei vari settori della filosofia. Ciò non esclude la possibilità di fissare qualche tratto generale di essa.
Nel par. 79 dell'Enciclopedia Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero: a) l'astratto o intellettuale; b) il dialettico o negativo‑razionale; c) lo speculativo o positivo­-razionale.
Il momento astratto o intellettuale è quello in cui “l’intelletto determina e tiene ferme le determinazioni”. Esso porta a concepire l’esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In altri termini, il momento intellettuale (che è il grado più basso della ragione) è quello per cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerar­le nelle loro differenze reciproche e secondo il principio di identità e di non‑contraddizio­ne (secondo cui ogni cosa è se stessa ed è assolutamente diversa dalle altre). L’intelletto costituisce un importante momento della ricerca scientifica, ma la filosofia non può fermarsi qui, aprendo a nuovi sviluppi. La filosofia esprime, infatti, il bisogno di andare oltre, esprime il bisogno di unificazione, di totalità, di assoluto, tanto più forte quanto più la potenza dell’intelletto divide e analizza, precisa e definisce, circoscrive e classifica. La filosofia deve produrre una nuova unificazione che non lasci fuori di sé quegli elementi di scissione e di lacerazione, ma li comprenda come elementi costitutivi.
Il momento dialettico o negativo‑razionaledissolve in nulla le determinazioni dell’intelletto”; esso consiste nel mostrare come le sopraccitate determina­zioni siano unilaterali ed esigano di essere messe in movimento, ovvero di essere rela­zionate con altre determinazioni. Il pensiero è processo, è movimento continuo e questo movimento è reso possibile dalle differenze, o “opposizione”, e dal loro superamento in un’unità superiore, che genera altre opposizioni e unificazioni, e così via.  Infatti, poiché ogni affermazione sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è bisogna implicitamente chiarire ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte (ad es. il concetto di “uno”, non appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e manifesta uno stretto legame con esso. E così dicasi di ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale il disuguale, il bene il male ecc.).
Il momento speculativo o positivo‑razionale consiste quindi nel cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali determinazio­ni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ri‑comprende o sintetizza entram­bi (ad es., esso “genera l’universale e in esso comprende il particolare” così come la realtà vera non è né l’unità in astratto né la molteplicità in astratto, bensì un’unità che vive solo attraverso la molteplicità). Quindi, se l’intelletto fissa i concetti distinguendo rigidamente le cose le une dalle altre, la ragione, che per Hegel è uno strumento superiore di conoscenza, riesce a rendere “fluidi” i concetti, negandoli, rovesciandoli nella loro antitesi, togliendo loro la finitezza, affrancandoli dall’isolamento a cui condannava il primo momento intellettuale. La dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il compito di unificare il molteplice, conciliare le opposizioni, pacificare i conflitti, ridurre ogni cosa all’ordine e alla perfezione del Tutto. Molteplicità, opposizione, conflitto sono senza dubbio reali secondo Hegel, ma solo come momenti di passaggio. In altri termini, il negativo, per Hegel, sussiste solo come un momento del farsi del positivo e la tragedia, nella sua filosofia, è solo l’aspetto superficiale e transeunte di una sostanziale comme­dia (nel senso letterale di vicenda avente un epilogo positivo).
Globalmente e sintetica­mente considerata, la dialettica consiste quindi: 1) nell’affermazione o posizione di un concetto “astratto e limitato”, che funge da tesi; 2) nella negazione di questo concetto come alcunché di limitato o di finito e nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi; 3) nella unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi positiva comprensiva di entrambe. La sintesi si configura come una ri‑affermazione potenziata dell’affermazione iniziale (tesi), ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia (antitesi). Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine tecnico di Aufhebung il quale esprime, analogamente al tollere latino, l’idea di un superamento che è, al tempo stesso, un togliere (l’opposizione fra tesi ed antitesi) ed un conservare (la verità della tesi, dell’antitesi e della loro lotta). In altri termini, l’Aufhebung descrive il movimento dialettico con cui una figura concettuale, nel suo sorgere, rimuove e supera la precedente lasciandola alle proprie spalle, ma al tempo stesso ne conserva l’esperienza, di modo che la figura rimossa continui a vivere, come figura deposta, nella successiva:
La parola togliere ha nella lingua [tedesca] il doppio senso, per cui val quanto conservare, ritenere, e nello stesso tempo quanto far cessare, metter fine. [. . .]. Così il tolto è insieme un conservato, il quale ha perduto soltanto la sua immediatezza, ma non perciò è annullato.                                                                G.W.F. Hegel, Scienza della logica, p. 100
La dialettica non fa che illustrare il principio fondamentale della filosofia hege­liana: la risoluzione del finito nell’infinito. Infatti essa ci mostra come ogni finito, cioè ogni spicchio di realtà, non possa esistere in se stesso (poiché in tal caso sarebbe un Assoluto, ovvero un infinito autosufficiente) ma solo in un contesto di rapporti. Infatti, per porre se stesso il finito è obbligato ad opporsi a qualcos’altro, cioè ad entrare in quella trama di relazioni che forma la realtà e che coincide con il tutto infinito di cui esso è parte o manifestazione. E poiché il tutto di cui parla Hegel, ovvero l’Idea, è una entità dinamica, la dialettica esprime appunto il processo mediante cui le varie parti o determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza, si fluidificano e diventano “momenti” di un’Idea unica ed infinita. Detto altrimenti, la dialettica rappresenta la crisi del finito e la sua risoluzione necessaria nell’infinito: “ogni finito ha questo di proprio, che sopprime se medesimo. La dialettica forma, dunque, l’anima motrice del progresso scientifico... in essa, soprattutto è la vera, e non estrinseca elevazione sul finito”.

Una filosofia circolare e concentrica
Adesso occorre evidenziare il carattere circolare dell'andamento dialettico del pensiero hegeliano, o meglio, del procedere dell'Assoluto, visto che la filosofia non fa altro che rintracciarne la presenza, senza aggiungere nulla di personale: Hegel, sin dall'inizio, precisa che ciò che egli espone non è la propria filosofia, ma la filosofia dell'Assoluto che egli s'incarica solo di ricostruire ed esporre.
Pensare dialetticamente significa pensare la realtà come una totalità processuale che procede secondo lo schema triadico di tesi, antitesi e sintesi. Si tratta di un andamento circolare in quanto si parte dall'idea per giungere ad essa in una forma potenziata (concreta) come spirito; il punto di partenza e il punto d'arrivo coincidono in quanto in entrambi i casi si ribadisce l'identità di pensiero e realtà, di ideale e reale: identità che nel caso dell'idea è ancora astratta, virtuale; nel caso dello spirito effettiva, concreta, realizzata. Questa circolarità ha carattere graduale e ascendente, costituendo nell'insieme un organismo di cerchi concentrici di sempre maggiore ampiezza. Concentrici in quanto la circolarità e la dialetticità (la successione e reciproca implicazione di tesi-antitesi-sintes) non riguardano solo i tre momenti principali del sistema (idea-natura-spirito), ma anche i singoli e parziali momenti al di sotto, o meglio, all'interno di queste tre circolarità principali.
Ogni momento si articola così, a sua volta, in momenti triadici, entro i quali la sintesi costituisce anche il momento per una nuova tesi, una relativa antitesi e una successiva sintesi, fino al momento principale e di progressivamente con andamento sempre dialettico all'assoluto.
Il sistema hegeliano è perciò un sistema che cresce su di sé in modo circolarmente concentrico, assimilando in sé via via tutto il reale, allo scopo di ricondurlo all'assoluto, di conquistare tutte le regioni del reale sotto il suo dominio, ovvero di far sì che esso si riconosca in tutta la realtà che gradualmente fagocita, dimostrando come non ci sia porzione di realtà che non sia spirituale, identica ad esso ma in un modo diversamente proporzionale: per cui vi saranno realtà che lo rispecchiano maggiormente (le realtà spirituali appunto) e altre meno (quelle naturali). Le realtà spirituali saranno dunque le più concrete non solo in quanto le più adeguate ad accogliere e a riflettere l'assoluto spirituale, ma anche in quanto rappresentano l'ultima e massima dilatazione circolare del sistema, comprendendo cioè al proprio interno tutte le precedenti realtà attraversate e assimilate dallo spirito.
Ci si può chiedere se la dialettica hegeliana sia a sintesi aperta o a sintesi chiusa. Infatti, poiché ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di un’altra antitesi, cui succede un’ulteriore sintesi e così via, sembrerebbe, a prima vista, che la dialettica esprima un processo costitutivamente aperto. In verità, Hegel pensa che in tal caso si avrebbe il trionfo della “cattiva infinità” ossia un processo che, spostando indefinitamente la me­ta da raggiungere, toglierebbe allo spirito il pieno possesso di se medesimo. Di conse­guenza, egli opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, cioè per una dialettica che ha un ben preciso punto di arrivo: il circolo si chiude, esiste cioè un circolo di tutti i circoli che tutti li ricomprende entro di sé e che rappresenta il punto in cui lo spirito si riflette completamente nella realtà, e quindi è il punto di chiusura ovvero di ricongiungimento con l'inizio dell'idea.
La crescita concentrica ha termine quando la realtà è stata tutta riassorbita nello spirito o, inversamente, quando essa si è dimostrata, in verità, spirituale: in questo punto si registra anche il momento massimo di autocoscienza che l'assoluto ha di sé, in quanto sa di essere tutta la realtà e che nulla sfugge ad esso o gli si oppone. Massima identità autocosciente che, idealisticamente, coincide con la libertà assoluta, in quanto lo spirito nulla trova più di fronte a sé a limitarlo.
“Mentre nei gradi intermedi della dialettica prevale la rappresentazione della spirale, nella visione complessiva e finale del sistema prevale la rappresentazione del circolo chiuso, che soffoca la vita dello spirito, dando al suo progresso un termine, al di là del quale ogni attività creatrice si annulla, perché, avendo lo spirito realizzato pienamente se stesso, non gli resta che ripercorrere il cammino già fatto... L’impetuosa corrente sfocia in uno stagnante mare, e nell’immobile specchio trema la vena delle acque che vi affluiscono ... ” (Guido De Ruggiero).
In effetti, tutti i filosofi che si sono rifatti in qualche modo all’hegelismo (da Engels a Croce e ai neomarxisti) hanno criticato l'idea di uno “stagnante epilogo” della storia del mondo, recuperando invece l’idea di un processo che risulta costitutivamente aperto. Inoltre, più che sul momento della “conciliazione” o “sintesi”, tali filosofi hanno insistito sul momento dell’“opposizione” e della “contraddizione ”, ossia su ciò che Hegel, nella Fenomenologia, chiama “il travaglio del negativo”.
L'andamento dialettico e circolare della vita dell'Assoluto procede dunque in modo graduale. Se il vero è l'intero edificio o organismo, allora ciò che è parziale o iniziale non è la verità. La verità non è immediata, non si dà tutta subito, d'un colpo, ma mediatamente, gradualmente. L'immediato non è vero, essendo il grado iniziale è il più povero di determinazioni, di caratteristiche: esso non è la verità in quanto nulla esiste o è vero nel suo isolamento, ma solo in quanto si confronta con il suo opposto che non lo nega assolutamente, non lo assoggetta, ma lo aiuta a determinarsi (omnis determinatio est negatio: ogni determinazione è una negazione), cioè a precisarsi nella sua verità: che viene riconfermata a un grado di verità superiore, a un circolo più ampio.
Si ha in questo modo anche una revisione del principio di non contraddizione della logica classica, perché secondo Hegel da due opposti non scaturisce una contraddizione che si autovanifica, ma sorge la verità. Il principio d’identità (A=A) non riesce a spiegare la differenza. Si deve dunque usare un’altra formula, che contenga nello stesso tempo l’identità e la differenza: A=B. in questa il soggetto e l’oggetto, a partire dalla loro differenza, vengono espressi nel loro convergere (rappresentato dal segno dell uguaglianza). L’identità, così, non esclude la molteplicità: si ha una sintesi di identità e differenza. Ogni individualità, ogni essere A, porta già dentro di sé la sua ombra, la sua negazione, il fatto che non è altro; così, la determinazione dell’altro, di B, trova in A la sua contraddizione. Ciò che esiste non può quindi essere pensato con il vecchio principio di contraddizione. In altre parole, una cosa non è mai semplicemente quello che è, ma è anche, insieme, quello che non è. Ciò significa che quello che “non è” non è solo un fattore esterno, ma è una dimensione interna. È come se fosse una ferita nel tessuto connettivo dell’essere: ogni cosa che esiste è segnata, è ferita dalla negatività. In un punto estremamente difficile ma nel contempo bello della Fenomenologia dello spirito, Hegel scrive che la realtà deve mirare a “comprendersi come inquietudine”. Quando dunque Hegel dice che «il vero è il tutto» intende proprio questo, e cioè che la verità non è propria di una realtà nel suo isolamento, nella sua astratta parzialità, ma in quanto è connessa organicamente con tutto il resto, con tutti i gradi precedenti e con tutti quelli successivi che innalzano alla verità in tutta la sua interezza, cioè sotto tutti gli aspetti, anche quelli che la determinano solo implicitamente. Per esempio, la bontà in sé (tesi), isolata da ciò che potrebbe negarla, non è vera. Il vero uomo buono è colui che almeno una volta è stato tentato o si è imbattuto nella cattiveria (antitesi), e però l'ha sconfitta, le ha resistito. Il vero buono dunque è quello che contempla in sé la possibilità della cattiveria, per negarla, è cioè colui che nega la negazione della bontà (sintesi).
Provando ancora a esemplificare, un cittadino onesto era già tale nel primo momento (idea), prima che si affacciasse la possibilità o la tentazione di rubare, ed è onesto anche dopo che ha superato la tentazione (spirito): ma che differenza tra i due momenti! Una cosa è infatti dire a priori (prima di gestire del denaro altrui), in astratto e dunque in modo poco convinto o fermo: “io non rubo”; un altro valore, più solido e concreto, ha la medesima affermazione “io non rubo” detta da uno che avrebbe la possibilità di rubare, ma si astiene.
Allo stesso modo, l'identificazione di reale e razionale nell'idea (tesi) ha valore solo astratto e formale; un valore più concreto ed effettivo ha tale identificazione nello spirito (sintesi), in cui la negazione, rappresentata dalla natura (antitesi), ha confermato e non negato tale identificazione iniziale solo astratta. Solo nello spirito (assoluto) il razionale (idea) è reale (realtà naturale e spirituale) e viceversa, perché lo spirito è l'idea che non è stata negata dalla natura o dalla realtà storico-mondana, ma che le ha attraversate vittoriosamente, e perciò solo ora si può dire sensatamente tutto è spirito, tutto è razionale, e non prima di superare la prova del confronto con tali realtà che avrebbero potuto smentire tale dichiarazione.
Ma dire che solo il risultato sia “il vero” significa anche che tutto è vero: Hegel non butta via niente, tutto è giustificato, tutto è razionale; ciò che non è razionale, semplicemente non è. Tutto è vero, anche se occorre precisare, in proporzioni diverse, concentricamente ampliantisi, per cui i momenti iniziali del sistema avranno un grado di verità inferiore rispetto a quelli finali, in quanto avranno inglobato in sé meno realtà dei successivi, avranno ricondotto alla razionalità porzioni meno estese di reale.
La negazione è dunque mediazione, che significa da un lato confronto e dall’altro passaggio graduale:
Ø  confronto con ciò che (in quanto antitesi) potrebbe negare (la tesi), ma che in realtà viene negato (sintesi come negazione della negazione) rafforzando così il punto di partenza ancora astratto;
Ø  passaggio graduale da una circolarità (composta dialetticamente dai tre momenti di tesi, antitesi e sintesi) più povera (di essere), inferiore, meno spirituale, a una più ricca, superiore, più spirituale: in questo caso mediazione è gradualità, e gradualità è concatenazione.
La sintesi come momento culminante e più ricco di una circolarità precedente (ricordiamo, circolarità in quanto la sintesi ritorna alla tesi, ma è una tesi rafforzata) si pone poi come tesi, come punto di partenza e più povero di una circolarità successiva. Ad esempio: l'uomo è il punto culminante e più ricco dello sviluppo dialettico della natura, in quanto cerchio che racchiude concentricamente in sé le precedenti e inferiori circolarità della natura; ma l'uomo inteso ancora solo come natura (come quella specie animale in cui culmina l'evoluzione della natura) è il punto di partenza più povero per il processo dialettico dello spirito, le cui categorie iniziali, meno determinate, coincidono con l'emergere dell'attività spirituale all'interno di un individuo considerato ancora come prevalentemente naturale.

La critica alle filosofie precedenti
Dopo aver definito in positivo i capisaldi dell’hegelismo, è venuto il momento di illu­strarli in negativo, ossia di vedere a quali filosofie esso storicamente si contrapponga.
a) Hegel e gli illuministi
La filosofia di Hegel implica un oggettivo rifiuto della maniera illuministica di rapportarsi al mondo. Infatti gli illuministi ritengono che il reale non è razionale, dimenticando così che la vera ragione (= lo Spirito) prende corpo nella storia ed abita in tutti i momenti di essa. Quindi, la ragione degli illuministi è puramente soggettiva: esprime solo le esigenze e le aspira­zioni degli individui; è una ragione esterna al reale, finita, parziale e dunque astratta. Per Hegel questa ragione si dovrebbe chiamare “intelletto”, intendendo con questo termine una ragione che pretende di dare lezione alla realtà e alla storia, stabilendo come dovrebbe essere e non è. Per Hegel la realtà è sempre necessariamente ciò che deve essere: il reale è già razionale e non necessita di alcuna correzione da parte dell’intelletto.
b) Hegel e Kant
Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, e l’antitesi fra il fenomeno e il noumeno, fra il dover essere e l’essere, tra la ragione e la realtà, fa parte integrante di una tale filosofia. La distinzione tra fenomeno (la realtà per noi in sede teoretica) e noumeno, o tra essere e dover essere (in sede pratica), dimostra proprio il mancato riconoscimento per cui l’essere, cioè la realtà, è già attualmente tutto ciò che deve essere, in quanto già identica con la ragione che quindi non le si impone normativamente dall’esterno come ideale a cui ci si può sempre avvicinare, ma mai avvicinare. Ad esempio, le idee della ragione sono soltanto ideali regolativi, che spingono la ricerca scientifica all’infinito, verso una compiutezza che essa non può raggiungere mai; così come in campo morale, la santità, cioè la perfetta conformità della volontà alla legge della ragione, è il termine di un progresso all’infinito.  In una parola, l’essere non si adegua mai al dover essere, la realtà alla razionalità. A Kant Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà di conoscere prima di procedere a conoscere: pretesa che egli assimila all’assurdo proposito “di imparare a nuotare prima di entrare nell’acqua”.
c)Hegel e i romantici
Il dissenso di Hegel nei confronti dei romantici verte essenzialmente su due punti.
In primo luogo Hegel contesta il primato del sentimento, dell’arte o della fede, sostenendo che la filosofia, in quanto scienza dell’Assoluto, non può che essere una forma di sapere mediato e razionale. L’Assoluto non si attinge immediatamente, come con un “colpo di pistola”, ma gradualmente, attraverso catene di mediazioni progressive. Da escludere quindi è l’accesso intuitivo all’Assoluto in tutte le sue modalità: modalità che vengono invece celebrate e rinvenute dai romantici nella via sentimentale, nell’intuizione artistica o nella religione.
In secondo luogo, Hegel contesta gli atteggiamenti individualistici dei romantici (o, per meglio dire, di una parte dei romantici), affermando che l’intellettuale non deve narcisisticamente ripiegarsi sul proprio io, ma tener d’occhio soprattutto l’oggettivo “corso del mondo”, cercando d’integrarsi nelle istituzioni socio-politiche del proprio tempo.
In realtà Hegel, pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, risulta profondamente partecipe del clima culturale romantico, del quale oltre a numerosi motivi particolari (il concetto della creatività dello Spirito, dello sviluppo provvidenziale della storia, della spiritualità incosciente della natura ecc.) condivide soprattutto il tema dell’infinito, anche se ritiene che ad esso si acceda speculativamente e non attraverso vie “immediate”.
d) Hegel e Fichte
Hegel muove a Fichte due rilievi. In primo luogo il soggettivismo di Fichte non assimila adeguatamente l’oggetto, lo riduce, insomma, a semplice ostacolo esterno dell’Io, con il rischio di un nuovo dualismo, di tipo kantiano, fra spirito e natura, fra libertà e necessità. In altri termini, la natura, schiacciata dalla signoria del soggetto, perde ogni autonoma giustificazione del proprio essere, finendo per apparire, sia nell’attività conoscitiva che in quella pratica, come una mera forma dell’Io. 
Hegel, inoltre, accusa Fichte di aver ridotto l’infinito a semplice meta ideale dell’io finito. Ma in tal modo il finito, per adeguarsi all’infinito e ricongiungersi con esso, è lanciato in un progresso all’infinito che non raggiunge mai il suo termine. Un infinito incompiuto che non giunge mai a termine, una circolarità eternamente aperta che non conosce requie o chiusura definitiva. Ora questo progresso all’infinito è, secondo Hegel, il "falso" o “cattivo infinito” (nel senso di imperfetto e di inadeguato) o infinito negativo; non supera veramente il finito perché lo fa continuamente risorgere, ed esprime soltanto l’esigenza astratta del suo superamento. Di conseguenza, Fichte si troverebbe ancora, dal punto di vista di Hegel, in una filosofia incapace di giungere a quella piena coincidenza, che costituisce la sostanza dell’idealismo, tra finito e infinito, razio­nale e reale, essere e dover‑essere, senza lasciare nulla di esterno da assorbire, in cui cioè non può comparire più alcun limite.
e) Hegel e Schelling
Alla filosofia di Schelling, Hegel riconosce il primo reale superamento dell’opposizione fra soggetto e oggetto, superamento che avrebbe potuto portare ad un sistema filosofico che sia effettivamente espressione dell’intero, della totalità. Tuttavia, Hegel critica il carattere a-dialettico del Assoluto schellinghiano, inteso come unità indifferenziata e statica da cui derivano in modo inesplicabile la molteplicità e la differenziazione delle cose. Infatti nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel ravvisa nell’Assoluto schellinghiano un “abisso vuoto” nel quale si perdono tutte le determinazioni concrete della realtà e lo paragona alla notte nella quale tutte le vacche sono nere. In altri termini, l’Assoluto di Schelling è un’unità astratta incapace di spiegare la molteplicità delle cose.
Inoltre, Hegel non condivide la tesi schellinghiana (e romantica in generale) per cui la natura sia una sede adeguata della manifestazione dell’Assoluto. Per Hegel, la natura coincide con l’antitesi, con il momento della negazione dell’idea, che ritroverà se stessa solamente nello spirito.