IL BOOM DEGLI
ANNI VENTI E LA CRISI DEL '29
Espansione
economica e squilibrio dei redditi
Nell'immediato dopoguerra l'attività economica
statunitense - stimolata dalla domanda proveniente dall'Europa - ebbe un forte
incremento[1],
cui nel biennio 1920-1921 seguì una fase di recessione, determinata soprattutto
dal fatto che, colmati i più gravi guasti della guerra, la domanda europea era
bruscamente diminuita.
La ripresa fu però rapida e imponente: dal 1922 al
1929 la produzione industriale statunitense, già assai elevata in linea di
partenza, aumentò del 64%, la produttività del lavoro del 43%, i profitti del
76%, i salari del 30%.
L'enorme
differenza fra la crescita dei profitti e della produzione, da una parte, e la crescita dei salari, dall'altra, accentuò lo squilibrio nella distribuzione
dei redditi: si calcola infatti che solo il 20% della popolazione americana
traesse da essa reali vantaggi, accumulando ingenti fortune, spesso usate per
alimentare nuove speculazioni finanziarie; nel periodo considerato, il 5% della popolazione
statunitense percepiva un terzo dell'intero reddito nazionale, e in particolare
i 500 cittadini più ricchi si dividevano fra di loro una somma di redditi
equivalente a ben 600.000 salari degli operai dell'industria automobilistica,
che erano fra i meglio retribuiti. Per converso, il 60% della popolazione aveva
un reddito annuo medio procapite di circa 2000 dollari, appena sufficiente per
la sussistenza: per la «sussistenza», ovviamente, qual era intesa in un paese
ad alto sviluppo industriale. Sebbene il suo tenore di vita fosse migliorato, la
classe lavoratrice era ancora assai vulnerabile di fronte a eventuali crisi
economiche. La crisi arrivò improvvisa e devastante nel 1929.
Crisi dei
sindacati
La fortissima divaricazione tra profitti e salari
derivava in sostanza dall'indebolimento dei sindacati che perdettero in meno di
un decennio il 40% dei loro aderenti, e non poterono contrastare efficacemente
la tendenza padronale alla compressione dei salari. Ciò fu dovuto
Ø al taylorismo, che rendendo
più che mai ripetitivo e squalificato il lavoro degli operai spezzava la loro
forza contrattuale;
Ø alla prevalenza del partito
più strettamente legato agli ambienti del capitale, cioè del Partito
repubblicano, i cui esponenti tennero costantemente la presidenza dell'Unione
dal 1921 al 1933. I sindacati, in conclusione,
Squilibri
economici
Allo squilibrio nella distribuzione dei redditi fra
le classi sociali si aggiungeva lo squilibrio dei redditi complessivamente
percepiti dai diversi settori della produzione, in quanto fra il 1919 e il 1929
i redditi agricoli scendevano dal 23 al 13% dei redditi globali in via di
rapida espansione.
Da questo quadro risulta con evidenza che la capacità d'acquisto della grande
maggioranza della popolazione non cresceva affatto in misura proporzionale al
crescere della produzione. E poiché la produzione si orienta ovviamente in
modo da soddisfare la domanda solvibile, ne seguiva che
Ø la produzione di beni di consumo non durevoli (alimentari e vestiario,
nell'acquisto dei quali viene spesa una parte rilevante dei salari) cresceva solo del 2,8% all'anno;
Ø la produzione dei beni di consumo durevoli (mobili, abitazioni,
automobili e simili acquistati per lo più dai ceti abbienti), cresceva invece del 5,9% all'anno. Si
pensi che l'industria automobilistica passò da una produzione di un milione e
mezzo di veicoli nel 1921 a cinque milioni nel 1929;
Ø la produzione dei beni strumentali, macchine e impianti (acquistati in gran
parte dalle industrie stesse), cresceva
del 6,4%.
Come si vede, si investì troppo in industrie che producevano
beni di consumo durevoli senza considerare che in tali settori, soddisfatta la
domanda una prima volta, per un certo periodo di tempo essa si riduce
necessariamente, poiché il mercato giunge rapidamente a un punto di saturazione
e si arresta fino a quando il bene acquistato non è da sostituire.
Ne seguiva che un'eventuale flessione nella domanda
di beni di consumo durevoli o di beni strumentali avrebbe avuto, come ebbe
effettivamente, conseguenze gravissime.
Boom della
borsa
A questi squilibri oggettivi s'aggiungeva un fattore
soggettivo di precarietà: la
convinzione, largamente avallata dalla propaganda, che si aprissero per tutti
prospettive di rapido arricchimento. E «rapido arricchimento» non significa,
ovviamente, arricchimento legato al lavoro e alla produzione, ma arricchimento che viene da rischiose e fortunate attività
speculative. L'andamento della borsa di Wall Street (New York) esemplifica
con particolare chiarezza le conseguenze pratiche di questo mito[2].
Il volume delle contrattazioni azionarie al New
York Stock Exchange (la Borsa più importante del mondo) salì da 236 milioni
di azioni nel 1923 a 1125 milioni nel 1928; il mercato azionario era guidato
dalla domanda crescente e, quindi, il prezzo delle azioni aumentava
costantemente per ragioni puramente speculative. Lo sviluppo era "gonfiato"
dalla speculazione. Questa si dimostrò una mina vagante nel sistema e nessuno
strumento era previsto per combatterla.
Borsa ed economia reale: la
corsa all'acquisto
Infatti, per quanto produzione, produttività e
profitti crescessero a ritmo sostenutissimo, risulta chiaro da questi dati che
gli indici di borsa si erano del tutto sganciati dall'andamento dell'economia
reale[3].
Rovesciando una famosa massima del Galilei, diremo che chi comprava e vendeva
titoli aveva a che fare con «un mondo di carta e non con un mondo di cose»: non
si rappresentava cioè le fabbriche, gli impianti, i cantieri cui i titoli si
riferivano, ma solo le serie di numeri che apparivano nei bollettini di borsa.
D'altra parte la corsa all'acquisto, fin
che durava, avvalorava se stessa, in quanto era appunto la principale causa
delle quotazioni sempre crescenti. E
le quotazioni crescenti, a loro volta, attiravano nel vortice degli acquisti
anche strati della popolazione di reddito modesto, pronti a pagare alle
banche interessi del 14% e più, pur di acquistare titoli e di partecipare alla
festa dei rapidi guadagni. Tanto più che, per acquistare titoli, non era
necessario coprirne per intero il prezzo, ma bastava versarne in contanti circa
la metà, lasciando i titoli stessi in garanzia del debito che così si contraeva[4].
Per queste e per altre ragioni analoghe, il sistema era dunque costruito in
modo tale da accentuare ed esasperare le tendenze del mercato, sia che esse
volgessero all'acquisto, sia che esse, come sarebbe presto avvenuto, precipitassero
verso la vendita. La borsa, se ci si passa il paragone, funzionava come una
caldaia a vapore le cui valvole cui valvole si chiudessero al crescere della
pressione, e si aprissero al suo decrescere.
L'ora della verità
È però evidente che lo scavalcamento dell'economia reale (ossia dell'insieme delle
attività produttive che creano vera ricchezza e non pezzi di carta) non poteva durare all'infinito, e anzi
sarebbe bruscamente cessato quando i più avveduti fra i possessori di titoli,
avuto sentore che alla crescita degli indici di borsa corrispondeva in realtà
il ristagno o il calo della produzione, avrebbero cominciato a vendere per
sottrarsi all'imminente e prevedibile bufera. E fu appunto ciò che accadde
nell'ottobre del 1929.
LA CRISI E IL
CROLLO DELLA BORSA
Calo delle esportazioni
L'insufficienza della domanda statunitense interna,
dovuta alla squilibrata distribuzione dei redditi di cui si è detto, fu per
qualche anno compensata dalla domanda dall'estero, ossia dalle esportazioni.
Senonché, al termine delle ostilità, l'Europa si trovò costretta a pagare
contemporaneamente sia l'eccedenza di quanto importava rispetto a quanto
esportava, sia i debiti contratti durante la guerra con gli USA e i relativi
interessi. Fino a un certo punto il problema poteva essere rinviato grazie a
nuovi prestiti, ad alto tasso di interesse, contratti dai paesi europei nei confronti
di banche private statunitensi, e grazie al drenaggio di riserve auree
dall'Europa agli Stati Uniti (i paesi europei, in altre parole, potevano pagare
i propri debiti in oro, intaccando peraltro le proprie riserve auree, non certo
inesauribili). Ma il rimedio temporaneo era destinato ad accrescere il disavanzo
europeo. Né era possibile ristabilire realmente l'equilibrio aumentando le esportazioni
europee verso l'America, perché a ciò si opponevano le dogane protettive votate
dal Congresso statunitense. Era pertanto inevitabile, alla distanza, che
l'Europa non pagasse i debiti e riducesse le importazioni dagli Stati Uniti,
con conseguenze disastrose specie per l'agricoltura statunitense, che si
reggeva in larga misura sulle esportazioni di cotone, di tabacco e soprattutto
di grano.
Crisi agricola
e industriale
A partire dal giugno del 1929, mancato ogni compenso
all'insufficienza della domanda interna americana, la crisi di sovrapproduzione cominciò a colpire le industrie chiave,
specie siderurgiche, e anche più gravemente le attività agricole. Durante la
guerra la produzione europea di cereali si era molto ridotta e l'Europa aveva
importato grandi quantità di grano americano. Negli anni successivi, però,
l'agricoltura europea aveva recuperato e superato i livelli produttivi
prebellici, e le importazioni dall'America erano quindi diminuite. Nel 1929 il
raccolto fu particolarmente abbondante sia in America sia in Europa, e perciò i
prezzi dei cereali precipitarono, mettendo nelle più gravi difficoltà gli
agricoltori statunitensi.
Crollo della
borsa
Nel giro di pochi mesi la crisi dell'economia reale
si ripercuote sull'andamento della borsa. All'inizio del settembre 1929 la
corsa all'acquisto cessa e inizia un periodo di fluttuazioni, prevalentemente
orientate verso la vendita. La gente che ha investito in titoli comincia a
sospettare che sia giunto il momento di venderli «prima che sia troppo tardi».
E anche la tendenza a vendere esalta se stessa, in quanto determina il
decrescere delle quotazioni. Infine, dopo alcune settimane di oscillazioni e di
incertezze, si diffonde il panico e si scatena la corsa alle vendite: il 24
ottobre 1929 (giovedì nero) quasi tredici milioni di azioni vengono contrattate
a New York a prezzi che ovviamente precipitano. Diffusosi il panico, alla borsa
si scatenò una folle corsa alle vendite. La General
Electric in questo giorno perse 47,5 punti. Era il primo effetto del panico
diffuso dalla sensazione che la situazione non potesse più reggere, confermata
da una tendenza al realizzo, cioè alla vendita delle azioni, che iniziava a far
scendere le quotazioni di Borsa. I proprietari di azioni, in preda al panico,
pur di portare a casa qualcosa erano disposti a vendere a qualsiasi prezzo, per
quanto basso. A mezzogiorno i banchieri si riunirono e decisero di sostenere il
mercato per dare prova concreta del loro professato ottimismo comprando azioni
a prezzi superiori a quelli correnti. Ciò consentì solo temporanei recuperi o
battute d'arresto, ma non bastò a rovesciare la corsa alle vendite: il processo
era ormai incontrollabile[5]
e molte migliaia di persone erano già rovinate. Quattro giorni dopo, il 28
ottobre, si verificò un nuovo ribasso di una portata senza precedenti. Il 29
ottobre le perdite furono spaventose: fu questa la peggiore giornata della
storia della borsa di New York. Il 30 si decise la chiusura della borsa per due
giorni e mezzo. La crisi era cominciata. Un esempio limite: un'azione della United States Steel, quotata prima della
crisi 250 dollari, scese sino a toccare il minimo di dollari.
Tra il 24 ottobre e i primi di novembre del 1929 le
azioni della borsa di New York persero circa un terzo del loro valore, e la
tendenza al ribasso continuò sino al luglio del 1932.
Retroazione
sull'economia reale
Il crollo della Borsa si inseriva peraltro in una
situazione generale che aveva in sé le proprie ragioni di crisi. Il sistema
economico stava entrando in corto circuito per un eccesso di espansione. Le
imprese avevano errato nel valutare la capacità di assorbimento del mercato. Il
crollo della borsa, se non fu la causa della crisi, concorse certamente a
inasprirla, in quanto portò alla rovina parecchie centinaia di migliaia di americani
e privò di capacità d'acquisto e d'investimento anche una parte significativa
delle classi abbienti. La fiducia dell'opinione pubblica nella saggezza, nella
previdenza e nell'onestà degli uomini d'affari e dei finanzieri, funzionale al
sistema, ne uscì distrutta. Le «aspettative favorevoli», che inducono i
capitalisti agli investimenti, si mutarono nel loro contrario. Nell'economia
reale, perciò, la situazione, già compromessa, divenne anche più disastrosa.
Fra il 1929 e il 1932-1933 la produzione complessiva statunitense si ridusse di
circa un terzo; ma in alcuni settori le contrazioni furono anche più rilevanti,
tanto che, per esempio, nel 1932 le acciaierie utilizzavano solo un ottavo
delle loro capacità produttive. Il reddito nazionale annuo scese da 85 a 37
miliardi di dollari. I disoccupati salirono progressivamente, sino a
raggiungere nel 1933 la cifra massima di oltre 13 milioni (corrispondente al
25% circa della popolazione attiva[6]),
e soltanto nel 1937, grazie alla ripresa di cui parleremo più avanti, scesero
al di sotto degli 8 milioni (saliti di nuovo oltre i 10 milioni nel 1938).
DIFFUSIONE INTERNAZIONALE
DELLA CRISI
Ritiro dei capitali
Poiché gli Stati Uniti erano ormai il centro di
gravità del sistema economico mondiale (fatta eccezione per la Russia
Sovietica), la crisi coinvolse rapidamente tutti i paesi capitalisti. Nel
precedente periodo di espansione, l'eccedenza di capitali statunitensi aveva
trovato impiego in prestiti e in investimenti all'estero, sicché ora bastò il
ritiro di questi capitali per diffondere la depressione su scala
internazionale: particolarmente colpite furono la Germania e l'Austria, cioè i
paesi verso i quali il flusso dei prestiti privati americani era stato più
abbondante. La sovrapproduzione fece sentire i suoi peggiori effetti nel
settore primario (agricoltura) che produce generi a domanda anelastica[7],
esposti alle più brusche oscillazioni di prezzo. Gli agricoltori americani
furono infatti rovinati dal precipitare dei prezzi, e a uguale rovina furono
esposti quei paesi la cui economia era fondata sull'esportazione di derrate
derivanti dall'agricoltura e dall'allevamento, come l'Argentina, l'Uruguay e
l'Australia. Essi infatti non ebbero più alcun mezzo per pareggiare la propria
bilancia commerciale con l'estero, perdettero di credito e subirono i danni
conseguenti al deprezzamento delle rispettive monete.
Manovre monetarie e
protezionismo
Ma anche l'Inghilterra, per quanto ampiamente
industrializzata, non fu più in grado di compensare le importazioni con le
esportazioni, e dovette intaccare le proprie riserve auree. Fu pertanto
costretta ad abbandonare la base aurea[8]
e a svalutare la sterlina (1931) per rilanciare le esportazioni. Poiché gli
altri Stati (compresi gli Stati Uniti, che pure avevano le più abbondanti
riserve auree del mondo) seguirono l'esempio inglese e svalutarono a loro volta
le rispettive monete, si ritornò pressappoco alle condizioni di partenza, e la
semplice manovra monetaria risultò in sostanza inefficace. I governi ricorsero
allora ampiamente a dogane protettive, o stabilirono la quota massima dei vari
generi importabili, o ricorsero a scambi bilaterali di merci contro merci,
quasi evocando il baratto altomedievale: così per esempio la Germania scambiò
con la Iugoslavia macchine fotografiche contro maiali. In tal modo, sia la
crisi sia le misure adottate per contrastarla concorsero a spezzare l'unità
economica mondiale del primo Novecento, cui si sostituì un mosaico di singole
economie nazionalistiche in dura lotta fra di loro, mentre gli scambi
internazionali cadevano a un terzo del loro volume precedente.
Situazione europea
Per tutte queste ragioni la produzione industriale
europea subì un calo non meno rilevante degli Stati Uniti e il numero di
disoccupati salì a oltre 6 milioni in Germania, a 3 milioni in Inghilterra, a
oltre 1 milione in Italia, a quasi mezzo milione nella stessa Austria, che pure
i trattati di pace avevano ridotta a una popolazione di soli 6 milioni di
abitanti. Il nazionalismo economico e l'avvento del nazismo in Germania, grandemente
favorito dalla crisi, contribuiranno in misura determinante alla deflagrazione
della seconda guerra mondiale.
[1]
La produzione di massa
- dichiarava Henry Ford - non è, sostanzialmente, che un principio di
organizzazione sociale…. E in realtà, perché l'industria potesse prosperare, si
doveva organizzare una società in cui tutti fossero abbastanza ricchi per
acquistare i beni prodotti su scala industriale. Aveva così origine il
consumismo, cioè la «spinta, tipica delle economie caratterizzate da un alto
livello di benessere, e rafforzata dalle tecniche pubblicitarie, a un uso di
beni anche non necessari, i quali vengono proposti e assunti come simbolo di
prestigio sociale» (Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, 12a
edizione, Bologna, 1998). Denunciato dagli intellettuali di ogni rango e
persino dai parolieri delle canzonette (che notoriamente conducono vita
monastica...), il consumismo sarebbe la caratteristica deteriore saliente
dell'“inferno” contemporaneo.
[2]
Gli indici riportati
in quegli anni dal New York Times (fondati sulle quotazioni di 25 titoli
industriali particolarmente significativi) non hanno bisogno di commento: fine
maggio 1924, punti 106; fine dicembre 1924, punti 134; fine dicembre 1925,
punti 181; fine dicembre 1927 — dopo una lieve flessione nel corso del 1926 —
punti 245; fine dicembre 1928, punti 331; 3 settembre 1929 — giorno nel quale
l'indice raggiunse il livello più elevato —punti 452. In termini corposi, ciò
significa che chi avesse acquistato 1000 dollari di titoli alla fine del maggio
1924 e li avesse rivenduti il 3 settembre del 1929 avrebbe realizzato in media,
in poco più di cinque anni, un aumento di capitale di 3265 dollari (decurtato
delle sole spese di commissione e simili) senza svolgere altro lavoro che
quello di ordinare agli agenti di borsa di acquistare e di vendere. Mai,
né prima né dopo, tanta gente divenne così ricca in così breve tempo.
[3]
Il concetto di
economia reale è tutt'altro che facile a definirsi in termini economici
rigorosi. Intendiamo comunque per economia reale l'insieme delle attività che
producono non già semplici passaggi di danaro da una tasca all'altra ma
autentici beni: macchine, servizi, derrate a le, tessuti, abitazioni, eccetera.
[4]
Esemplifichiamo le possibili
conseguenze di queste facilitazioni di pagamento. Dispongo solo di 1500
dollari, ma con questi un operatore di borsa, a certe condizioni, mi vende 100
azioni Qualsiasi, valutate complessivamente 3000 dollari. Se gli indici di
borsa salgono rapidamente, sei mesi più tardi le 100 azioni per 5000 dollari;
pago il mio debito di 1500 dollari all'operatore che me le ha vendute, e mi
ritrovo con 2000 dollari. Se gli indici di borsa precipitano, si può dare
invece una sequenza di quest'altro tipo: compera alle stesse condizioni le 100
azioni Qualsiasi dopo sei mesi sono costretto a venderle per 2000 dollari; pago
il mio debito di 1500 dollari, e rimango con 500 dollari. In entrambi i casi
considerati dovrò inoltre pagare un certo interesse all'operatore che mi ha
inizialmente venduto per 1500 dollari azioni che ne valevano 3000.
[5]
Il lunedì, 28 ottobre,
il numero delle azioni contrattate supera i nove milioni, mentre l'indice del
New York Times segna un calo di altri 49 punti. Il giorno dopo, il disastro si
fa più completo: le azioni contrattate raggiungono la vetta insuperata di 16
410 000 e perdono altri 43 punti. Salvo brevi momenti di ripresa, il ribasso
continua fino all'8 luglio del 1932, quando tocca il fondo segnando un indice
di soli 58 punti. In concreto ciò significa che chi avesse acquistato titoli il
3 settembre 1929 (indice 452) e li avesse rivenduti 1'8 luglio 1932, avrebbe
perso mediamente più dell'87% del suo danaro: di cento dollari gliene
sarebbe-ro rimasti meno di tredici.
[6]
La popolazione attiva
comprende tutti coloro che svolgono o vorrebbero svolgere un lavoro remunerato:
comprende quindi, oltre a lavoratori occupati, anche i disoccupati, mentre non
comprende né i ragazzi minori di 16 anni, né gli studenti, né i pensionati, né
colore che vivono di rendita, né le casalinghe, né gli inabili al lavoro per
una ragione qualsiasi (l’età, malattia o grave menomazione).
[7]
Quando una variazione
del prezzo di un bene non ne fa variare più di tanto la domanda. La domanda è
perfettamente anelastica quando non varia mai, a qualunque prezzo. La domanda
invece si dice elastica quando reagisce più che proporzionalmente al variare
del prezzo del bene (in genere quando riguarda beni che hanno dei sostituti cui
ricorrere se quelli consumati abitualmente sono costosi). Quando invece è
elastica unitaria, la domanda reagisce in maniera perfettamente proporzionale
alla variazione del prezzo.
[8]
Adottano la base aurea
gli Stati che s'impegnano a convertire in oro la propria moneta cartacea
secondo rapporti stabiliti e fissi: fra le due guerre tutti gli Stati
l'abbandonarono.