venerdì 6 febbraio 2015

Il boom degli anni '20 e la crisi del '29



IL BOOM DEGLI ANNI VENTI E LA CRISI DEL '29

Espansione economica e squilibrio dei redditi
Nell'immediato dopoguerra l'attività economica statunitense - stimolata dalla domanda proveniente dall'Europa - ebbe un forte incremento[1], cui nel biennio 1920-1921 seguì una fase di recessione, determinata soprattutto dal fatto che, colmati i più gravi guasti della guerra, la domanda europea era bruscamente diminuita.
La ripresa fu però rapida e imponente: dal 1922 al 1929 la produzione industriale statunitense, già assai elevata in linea di partenza, aumentò del 64%, la produttività del lavoro del 43%, i profitti del 76%, i salari del 30%.
L'enorme differenza fra la crescita dei profitti e della produzione, da una parte, e la crescita dei salari, dall'altra, accentuò lo squilibrio nella distribuzione dei redditi: si calcola infatti che solo il 20% della popolazione americana traesse da essa reali vantaggi, accumulando ingenti fortune, spesso usate per alimentare nuove speculazioni finanziarie; nel periodo considerato, il 5% della popolazione statunitense percepiva un terzo dell'intero reddito nazionale, e in particolare i 500 cittadini più ricchi si dividevano fra di loro una somma di redditi equivalente a ben 600.000 salari degli operai dell'industria automobilistica, che erano fra i meglio retribuiti. Per converso, il 60% della popolazione aveva un reddito annuo medio procapite di circa 2000 dollari, appena sufficiente per la sussistenza: per la «sussistenza», ovviamente, qual era intesa in un paese ad alto sviluppo industriale. Sebbene il suo tenore di vita fosse migliorato, la classe lavoratrice era ancora assai vulnerabile di fronte a eventuali crisi economiche. La crisi arrivò improvvisa e devastante nel 1929.

Crisi dei sindacati
La fortissima divaricazione tra profitti e salari derivava in sostanza dall'indebolimento dei sindacati che perdettero in meno di un decennio il 40% dei loro aderenti, e non poterono contrastare efficacemente la tendenza padronale alla compressione dei salari. Ciò fu dovuto
Ø al taylorismo, che rendendo più che mai ripetitivo e squalificato il lavoro degli operai spezzava la loro forza contrattuale;
Ø alla prevalenza del partito più strettamente legato agli ambienti del capitale, cioè del Partito repubblicano, i cui esponenti tennero costantemente la presidenza dell'Unione dal 1921 al 1933. I sindacati, in conclusione,

Squilibri economici
Allo squilibrio nella distribuzione dei redditi fra le classi sociali si aggiungeva lo squilibrio dei redditi complessivamente percepiti dai diversi settori della produzione, in quanto fra il 1919 e il 1929 i redditi agricoli scendevano dal 23 al 13% dei redditi globali in via di rapida espansione.
Da questo quadro risulta con evidenza che la capacità d'acquisto della grande maggioranza della popolazione non cresceva affatto in misura proporzionale al crescere della produzione. E poiché la produzione si orienta ovviamente in modo da soddisfare la domanda solvibile, ne seguiva che
Ø la produzione di beni di consumo non durevoli (alimentari e vestiario, nell'acquisto dei quali viene spesa una parte rilevante dei salari) cresceva solo del 2,8% all'anno;
Ø la produzione dei beni di consumo durevoli (mobili, abitazioni, automobili e simili acquistati per lo più dai ceti abbienti), cresceva invece del 5,9% all'anno. Si pensi che l'industria automobilistica passò da una produzione di un milione e mezzo di veicoli nel 1921 a cinque milioni nel 1929;
Ø la produzione dei beni strumentali, macchine e impianti (acquistati in gran parte dalle industrie stesse), cresceva del 6,4%.
Come si vede, si investì troppo in industrie che producevano beni di consumo durevoli senza considerare che in tali settori, soddisfatta la domanda una prima volta, per un certo periodo di tempo essa si riduce necessariamente, poiché il mercato giunge rapidamente a un punto di saturazione e si arresta fino a quando il bene acquistato non è da sostituire.
Ne seguiva che un'eventuale flessione nella domanda di beni di consumo durevoli o di beni strumentali avrebbe avuto, come ebbe effettivamente, conseguenze gravissime.

Boom della borsa
A questi squilibri oggettivi s'aggiungeva un fattore soggettivo di precarietà: la convinzione, largamente avallata dalla propaganda, che si aprissero per tutti prospettive di rapido arricchimento. E «rapido arricchimento» non significa, ovviamente, arricchimento legato al lavoro e alla produzione, ma arricchimento che viene da rischiose e fortunate attività speculative. L'andamento della borsa di Wall Street (New York) esemplifica con particolare chiarezza le conseguenze pratiche di questo mito[2]. Il volume delle contrattazioni azionarie al New York Stock Exchange (la Borsa più importante del mondo) salì da 236 milioni di azioni nel 1923 a 1125 milioni nel 1928; il mercato azionario era guidato dalla domanda crescente e, quindi, il prezzo delle azioni aumentava costantemente per ragioni puramente speculative. Lo sviluppo era "gonfiato" dalla speculazione. Questa si dimostrò una mina vagante nel sistema e nessuno strumento era previsto per combatterla.

Borsa ed economia reale: la corsa all'acquisto
Infatti, per quanto produzione, produttività e profitti crescessero a ritmo sostenutissimo, risulta chiaro da questi dati che gli indici di borsa si erano del tutto sganciati dall'andamento dell'economia reale[3]. Rovesciando una famosa massima del Galilei, diremo che chi comprava e vendeva titoli aveva a che fare con «un mondo di carta e non con un mondo di cose»: non si rappresentava cioè le fabbriche, gli impianti, i cantieri cui i titoli si riferivano, ma solo le serie di numeri che apparivano nei bollettini di borsa. D'altra parte la corsa all'acquisto, fin che durava, avvalorava se stessa, in quanto era appunto la principale causa delle quotazioni sempre crescenti. E le quotazioni crescenti, a loro volta, attiravano nel vortice degli acquisti anche strati della popolazione di reddito modesto, pronti a pagare alle banche interessi del 14% e più, pur di acquistare titoli e di partecipare alla festa dei rapidi guadagni. Tanto più che, per acquistare titoli, non era necessario coprirne per intero il prezzo, ma bastava versarne in contanti circa la metà, lasciando i titoli stessi in garanzia del debito che così si contraeva[4]. Per queste e per altre ragioni analoghe, il sistema era dunque costruito in modo tale da accentuare ed esasperare le tendenze del mercato, sia che esse volgessero all'acquisto, sia che esse, come sarebbe presto avvenuto, precipitassero verso la vendita. La borsa, se ci si passa il paragone, funzionava come una caldaia a vapore le cui valvole cui valvole si chiudessero al crescere della pressione, e si aprissero al suo decrescere.

L'ora della verità
È però evidente che lo scavalcamento dell'economia reale (ossia dell'insieme delle attività produttive che creano vera ricchezza e non pezzi di carta) non poteva durare all'infinito, e anzi sarebbe bruscamente cessato quando i più avveduti fra i possessori di titoli, avuto sentore che alla crescita degli indici di borsa corrispondeva in realtà il ristagno o il calo della produzione, avrebbero cominciato a vendere per sottrarsi all'imminente e prevedibile bufera. E fu appunto ciò che accadde nell'ottobre del 1929.

LA CRISI E IL CROLLO DELLA BORSA

Calo delle esportazioni
L'insufficienza della domanda statunitense interna, dovuta alla squilibrata distribuzione dei redditi di cui si è detto, fu per qualche anno compensata dalla domanda dall'estero, ossia dalle esportazioni. Senonché, al termine delle ostilità, l'Europa si trovò costretta a pagare contemporaneamente sia l'eccedenza di quanto importava rispetto a quanto esportava, sia i debiti contratti durante la guerra con gli USA e i relativi interessi. Fino a un certo punto il problema poteva essere rinviato grazie a nuovi prestiti, ad alto tasso di interesse, contratti dai paesi europei nei confronti di banche private statunitensi, e grazie al drenaggio di riserve auree dall'Europa agli Stati Uniti (i paesi europei, in altre parole, potevano pagare i propri debiti in oro, intaccando peraltro le proprie riserve auree, non certo inesauribili). Ma il rimedio temporaneo era destinato ad accrescere il disavanzo europeo. Né era possibile ristabilire realmente l'equilibrio aumentando le esportazioni europee verso l'America, perché a ciò si opponevano le dogane protettive votate dal Congresso statunitense. Era pertanto inevitabile, alla distanza, che l'Europa non pagasse i debiti e riducesse le importazioni dagli Stati Uniti, con conseguenze disastrose specie per l'agricoltura statunitense, che si reggeva in larga misura sulle esportazioni di cotone, di tabacco e soprattutto di grano.

Crisi agricola e industriale
A partire dal giugno del 1929, mancato ogni compenso all'insufficienza della domanda interna americana, la crisi di sovrapproduzione cominciò a colpire le industrie chiave, specie siderurgiche, e anche più gravemente le attività agricole. Durante la guerra la produzione europea di cereali si era molto ridotta e l'Europa aveva importato grandi quantità di grano americano. Negli anni successivi, però, l'agricoltura europea aveva recuperato e superato i livelli produttivi prebellici, e le importazioni dall'America erano quindi diminuite. Nel 1929 il raccolto fu particolarmente abbondante sia in America sia in Europa, e perciò i prezzi dei cereali precipitarono, mettendo nelle più gravi difficoltà gli agricoltori statunitensi.

Crollo della borsa
Nel giro di pochi mesi la crisi dell'economia reale si ripercuote sull'andamento della borsa. All'inizio del settembre 1929 la corsa all'acquisto cessa e inizia un periodo di fluttuazioni, prevalentemente orientate verso la vendita. La gente che ha investito in titoli comincia a sospettare che sia giunto il momento di venderli «prima che sia troppo tardi». E anche la tendenza a vendere esalta se stessa, in quanto determina il decrescere delle quotazioni. Infine, dopo alcune settimane di oscillazioni e di incertezze, si diffonde il panico e si scatena la corsa alle vendite: il 24 ottobre 1929 (giovedì nero) quasi tredici milioni di azioni vengono contrattate a New York a prezzi che ovviamente precipitano. Diffusosi il panico, alla borsa si scatenò una folle corsa alle vendite. La General Electric in questo giorno perse 47,5 punti. Era il primo effetto del panico diffuso dalla sensazione che la situazione non potesse più reggere, confermata da una tendenza al realizzo, cioè alla vendita delle azioni, che iniziava a far scendere le quotazioni di Borsa. I proprietari di azioni, in preda al panico, pur di portare a casa qualcosa erano disposti a vendere a qualsiasi prezzo, per quanto basso. A mezzogiorno i banchieri si riunirono e decisero di sostenere il mercato per dare prova concreta del loro professato ottimismo comprando azioni a prezzi superiori a quelli correnti. Ciò consentì solo temporanei recuperi o battute d'arresto, ma non bastò a rovesciare la corsa alle vendite: il processo era ormai incontrollabile[5] e molte migliaia di persone erano già rovinate. Quattro giorni dopo, il 28 ottobre, si verificò un nuovo ribasso di una portata senza precedenti. Il 29 ottobre le perdite furono spaventose: fu questa la peggiore giornata della storia della borsa di New York. Il 30 si decise la chiusura della borsa per due giorni e mezzo. La crisi era cominciata. Un esempio limite: un'azione della United States Steel, quotata prima della crisi 250 dollari, scese sino a toccare il minimo di dollari.
Tra il 24 ottobre e i primi di novembre del 1929 le azioni della borsa di New York persero circa un terzo del loro valore, e la tendenza al ribasso continuò sino al luglio del 1932.

Retroazione sull'economia reale
Il crollo della Borsa si inseriva peraltro in una situazione generale che aveva in sé le proprie ragioni di crisi. Il sistema economico stava entrando in corto circuito per un eccesso di espansione. Le imprese avevano errato nel valutare la capacità di assorbimento del mercato. Il crollo della borsa, se non fu la causa della crisi, concorse certamente a inasprirla, in quanto portò alla rovina parecchie centinaia di migliaia di americani e privò di capacità d'acquisto e d'investimento anche una parte significativa delle classi abbienti. La fiducia dell'opinione pubblica nella saggezza, nella previdenza e nell'onestà degli uomini d'affari e dei finanzieri, funzionale al sistema, ne uscì distrutta. Le «aspettative favorevoli», che inducono i capitalisti agli investimenti, si mutarono nel loro contrario. Nell'economia reale, perciò, la situazione, già compromessa, divenne anche più disastrosa. Fra il 1929 e il 1932-1933 la produzione complessiva statunitense si ridusse di circa un terzo; ma in alcuni settori le contrazioni furono anche più rilevanti, tanto che, per esempio, nel 1932 le acciaierie utilizzavano solo un ottavo delle loro capacità produttive. Il reddito nazionale annuo scese da 85 a 37 miliardi di dollari. I disoccupati salirono progressivamente, sino a raggiungere nel 1933 la cifra massima di oltre 13 milioni (corrispondente al 25% circa della popolazione attiva[6]), e soltanto nel 1937, grazie alla ripresa di cui parleremo più avanti, scesero al di sotto degli 8 milioni (saliti di nuovo oltre i 10 milioni nel 1938).

DIFFUSIONE INTERNAZIONALE DELLA CRISI

Ritiro dei capitali
Poiché gli Stati Uniti erano ormai il centro di gravità del sistema economico mondiale (fatta eccezione per la Russia Sovietica), la crisi coinvolse rapidamente tutti i paesi capitalisti. Nel precedente periodo di espansione, l'eccedenza di capitali statunitensi aveva trovato impiego in prestiti e in investimenti all'estero, sicché ora bastò il ritiro di questi capitali per diffondere la depressione su scala internazionale: particolarmente colpite furono la Germania e l'Austria, cioè i paesi verso i quali il flusso dei prestiti privati americani era stato più abbondante. La sovrapproduzione fece sentire i suoi peggiori effetti nel settore primario (agricoltura) che produce generi a domanda anelastica[7], esposti alle più brusche oscillazioni di prezzo. Gli agricoltori americani furono infatti rovinati dal precipitare dei prezzi, e a uguale rovina furono esposti quei paesi la cui economia era fondata sull'esportazione di derrate derivanti dall'agricoltura e dall'allevamento, come l'Argentina, l'Uruguay e l'Australia. Essi infatti non ebbero più alcun mezzo per pareggiare la propria bilancia commerciale con l'estero, perdettero di credito e subirono i danni conseguenti al deprezzamento delle rispettive monete.

Manovre monetarie e protezionismo
Ma anche l'Inghilterra, per quanto ampiamente industrializzata, non fu più in grado di compensare le importazioni con le esportazioni, e dovette intaccare le proprie riserve auree. Fu pertanto costretta ad abbandonare la base aurea[8] e a svalutare la sterlina (1931) per rilanciare le esportazioni. Poiché gli altri Stati (compresi gli Stati Uniti, che pure avevano le più abbondanti riserve auree del mondo) seguirono l'esempio inglese e svalutarono a loro volta le rispettive monete, si ritornò pressappoco alle condizioni di partenza, e la semplice manovra monetaria risultò in sostanza inefficace. I governi ricorsero allora ampiamente a dogane protettive, o stabilirono la quota massima dei vari generi importabili, o ricorsero a scambi bilaterali di merci contro merci, quasi evocando il baratto altomedievale: così per esempio la Germania scambiò con la Iugoslavia macchine fotografiche contro maiali. In tal modo, sia la crisi sia le misure adottate per contrastarla concorsero a spezzare l'unità economica mondiale del primo Novecento, cui si sostituì un mosaico di singole economie nazionalistiche in dura lotta fra di loro, mentre gli scambi internazionali cadevano a un terzo del loro volume precedente.

Situazione europea
Per tutte queste ragioni la produzione industriale europea subì un calo non meno rilevante degli Stati Uniti e il numero di disoccupati salì a oltre 6 milioni in Germania, a 3 milioni in Inghilterra, a oltre 1 milione in Italia, a quasi mezzo milione nella stessa Austria, che pure i trattati di pace avevano ridotta a una popolazione di soli 6 milioni di abitanti. Il nazionalismo economico e l'avvento del nazismo in Germania, grandemente favorito dalla crisi, contribuiranno in misura determinante alla deflagrazione della seconda guerra mondiale.


[1] La produzione di massa - dichiarava Henry Ford - non è, sostanzialmente, che un principio di organizzazione sociale…. E in realtà, perché l'industria potesse prosperare, si doveva organizzare una società in cui tutti fossero abbastanza ricchi per acquistare i beni prodotti su scala industriale. Aveva così origine il consumismo, cioè la «spinta, tipica delle economie caratterizzate da un alto livello di benessere, e rafforzata dalle tecniche pubblicitarie, a un uso di beni anche non necessari, i quali vengono proposti e assunti come simbolo di prestigio sociale» (Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, 12a edizione, Bologna, 1998). Denunciato dagli intellettuali di ogni rango e persino dai parolieri delle canzonette (che notoriamente conducono vita monastica...), il consumismo sarebbe la caratteristica deteriore saliente dell'“inferno” contemporaneo.

[2] Gli indici riportati in quegli anni dal New York Times (fondati sulle quotazioni di 25 titoli industriali particolarmente significativi) non hanno bisogno di commento: fine maggio 1924, punti 106; fine dicembre 1924, punti 134; fine dicembre 1925, punti 181; fine dicembre 1927 — dopo una lieve flessione nel corso del 1926 — punti 245; fine dicembre 1928, punti 331; 3 settembre 1929 — giorno nel quale l'indice raggiunse il livello più elevato —punti 452. In termini corposi, ciò significa che chi avesse acquistato 1000 dollari di titoli alla fine del maggio 1924 e li avesse rivenduti il 3 settembre del 1929 avrebbe realizzato in media, in poco più di cinque anni, un aumento di capitale di 3265 dollari (decurtato delle sole spese di commissione e simili) senza svolgere altro lavoro che quello di ordinare agli agenti di borsa di acquistare e di vendere. Mai, né prima né dopo, tanta gente divenne così ricca in così breve tempo.
[3] Il concetto di economia reale è tutt'altro che facile a definirsi in termini economici rigorosi. Intendiamo comunque per economia reale l'insieme delle attività che producono non già semplici passaggi di danaro da una tasca all'altra ma autentici beni: macchine, servizi, derrate a le, tessuti, abitazioni, eccetera.
[4] Esemplifichiamo le possibili conseguenze di queste facilitazioni di pagamento. Dispongo solo di 1500 dollari, ma con questi un operatore di borsa, a certe condizioni, mi vende 100 azioni Qualsiasi, valutate complessivamente 3000 dollari. Se gli indici di borsa salgono rapidamente, sei mesi più tardi le 100 azioni per 5000 dollari; pago il mio debito di 1500 dollari all'operatore che me le ha vendute, e mi ritrovo con 2000 dollari. Se gli indici di borsa precipitano, si può dare invece una sequenza di quest'altro tipo: compera alle stesse condizioni le 100 azioni Qualsiasi dopo sei mesi sono costretto a venderle per 2000 dollari; pago il mio debito di 1500 dollari, e rimango con 500 dollari. In entrambi i casi considerati dovrò inoltre pagare un certo interesse all'operatore che mi ha inizialmente venduto per 1500 dollari azioni che ne valevano 3000.

[5] Il lunedì, 28 ottobre, il numero delle azioni contrattate supera i nove milioni, mentre l'indice del New York Times segna un calo di altri 49 punti. Il giorno dopo, il disastro si fa più completo: le azioni contrattate raggiungono la vetta insuperata di 16 410 000 e perdono altri 43 punti. Salvo brevi momenti di ripresa, il ribasso continua fino all'8 luglio del 1932, quando tocca il fondo segnando un indice di soli 58 punti. In concreto ciò significa che chi avesse acquistato titoli il 3 settembre 1929 (indice 452) e li avesse rivenduti 1'8 luglio 1932, avrebbe perso mediamente più dell'87% del suo danaro: di cento dollari gliene sarebbe-ro rimasti meno di tredici.
[6] La popolazione attiva comprende tutti coloro che svolgono o vorrebbero svolgere un lavoro remunerato: comprende quindi, oltre a lavoratori occupati, anche i disoccupati, mentre non comprende né i ragazzi minori di 16 anni, né gli studenti, né i pensionati, né colore che vivono di rendita, né le casalinghe, né gli inabili al lavoro per una ragione qualsiasi (l’età, malattia o grave menomazione).
[7] Quando una variazione del prezzo di un bene non ne fa variare più di tanto la domanda. La domanda è perfettamente anelastica quando non varia mai, a qualunque prezzo. La domanda invece si dice elastica quando reagisce più che proporzionalmente al variare del prezzo del bene (in genere quando riguarda beni che hanno dei sostituti cui ricorrere se quelli consumati abitualmente sono costosi). Quando invece è elastica unitaria, la domanda reagisce in maniera perfettamente proporzionale alla variazione del prezzo.
[8] Adottano la base aurea gli Stati che s'impegnano a convertire in oro la propria moneta cartacea secondo rapporti stabiliti e fissi: fra le due guerre tutti gli Stati l'abbandonarono.

domenica 25 gennaio 2015

Lo Spirito oggettivo


Lo Spirito oggetivo


I temi trattati nel momento dello Spirito oggettivo sono presenti oltre che nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, anche nei Lineamenti della filosofia del diritto. Nel momento oggettivo, lo Spirito si realizza non più a livello individuale ma meta individuale, cioè come realtà storica, come istituzione.
L’uomo si realizza nel DIRITTO ASTRATTO, cioè mediante qualche cosa di esteriore, dandosi una serie di leggi che sono eteronome. Nella filosofia hegeliana il diritto dev’essere inteso in senso lato come l’insieme di norme che regolano le relazioni tra gli individui di una comunità. Il diritto non è altro che il volere individuale che si oggettiva attraverso due ambiti che, considerati unitariamente, formano un sistema coerente e razionale: le norme esplicite, che costituiscono il diritto positivo, e le norme implicite, che vengono seguite sulla base della tradizione e che costituiscono il costume. Il fondamento del diritto è per Hegel la proprietà [1]: l’uomo cerca di affermarsi, esercita la sua libertà e si dà un’esistenza proiettandosi all’esterno, espandendosi attraverso cioè il possesso e l’uso delle cose, perché grazie ad esse l’individuo entra in relazione con gli altri.  Il diritto quindi inizialmente nasce per stabilire la proprietà delle cose o la loro alienazione (il liberarsi delle proprie cose per cederle ad altri). Infatti, l’acquisizione o la cessione devono essere regolate dal diritto mediante il contratto, con il quale i soggetti sottoscrivono un accordo col quale si diventa proprietari di beni. Tuttavia, se c’è il diritto è perché esiste la possibilità della violazione delle norme. In altre parole, il contratto può essere negato dal delitto: il delitto è la negazione di quel cardine del diritto che è il contratto. Il delitto ha varie gradazioni: va dal torto semplice alla violenza fino al delitto. Il diritto contro il torto, mediante la pena, ristabilisce il diritto originario mediante la punizione del reo. La pena per Hegel non ha un carattere preventivo o riparatorio né tanto meno vendicativo (in tal caso diventerebbe a sua volta “torto” in un processo infinito che vede affermarsi soltanto il punto di vista della “volontà soggettiva” in quanto “volontà particolare”) ma è vista come ripristino dell’ordine giuridico e razionale violato e riabilita il delinquente come essere razionale. Pertanto, lo Stato dev’essere inflessibile nell’infliggere le pene e lo stesso reo, resosi conto che il delitto commesso lo ha degradato a livello animale, deve riconoscere interiormente la razionale necessità delle pene.
A questo punto si supera il limite principale del diritto astratto, cioè il rispetto formale, esteriore, per timore della pena, senza un consenso intimo (pagare le tasse, per evitare una multa senza essere convinti intimamente dell’opportunità di pagarle). Il diritto, essendo quindi un insieme di norme esteriori, è parziale e dà luogo alla sua antitesi: la sfera della MORALITÀ. La volontà si eleva al livello dell’universale e si fa volontà morale. Si raggiunge così un livello più maturo di affermazione della personalità. La libertà, quando è affermata nel possesso di cose esteriori, non è piena libertà: se si dipende da cose esteriori, come nel diritto, non si è pienamente liberi. Nella moralità si afferma un momento superiore: qui si dipende solo dalla voce della coscienza, da norme che si ritrovano nella propria interiorità, quindi si è liberi in se stessi. Con la moralità si raggiunge un livello più alto di libertà in quanto si seguono le norme morali come si sentono nella propria coscienza: si recupera l’interiorità. L’interiorità però implica l’intenzione: si aderisce a norme morali, si vorrebbe fare il bene, però, per un impedimento esteriore, spesso non ci si riesce. Hegel riconosce che la morale è intenzionale: essa costituisce un passo in avanti perché è interiore, quindi è più vicina alla libertà, ma a volte, come sosteneva Kant, rimane puramente intenzionale e formale, non trasforma veramente i contenuti dell’esistenza, non traduce la concezione del bene sul piano reale, divenendo vuota “retorica del dovere per il dovere”. In sintesi, Hegel rimprovera a Kant di aver circoscritto la morale e la nozione di “dovere” all’ambito individuale, all’interno del quale non possono trovare un contenuto concreto, una specificazione, e restano unilaterali e astratte.
Per questo Hegel vede un terzo momento risolutivo nella sfera dell’ETICITÀ: il bene, che è il fine universale, non deve restare semplicemente all’interno, cioè restare ad un livello puramente soggettivo e interiore, come nella morale, ma deve anche realizzarsi nell’esistenza esterna. Il bene non deve rimanere un dover essere a cui poi l’essere non corrisponde, deve tradursi in realtà (come sempre nella visione monistica di Hegel: il reale è razionale). Quindi moralità e diritto formale sono due astrazioni la cui verità è solamente l’eticità. Infatti, diritto e moralità implicano ancora un riferimento all’individuo, che ha rapporti esteriori o rapporti con la propria interiorità, ma rimane individuo; invece la vera realtà non è l’astrazione dell’individuo, bensì la concretezza dello Stato. Hegel usa i termini “astratto” e “concreto” all’inverso di come si fa nel linguaggio ordinario. Per Hegel “astratto” è tutto ciò che è individuale, cioè che è “tratto fuori” dal contesto totale, il “concreto’ (da “cum” latino) è quello che, invece, è unito con tutto il resto, è unito alla totalità. Per Hegel il tutto prevale sulla parte. L’individuo è astratto: non esiste in quanto tale, bensì solo nel contesto dello Stato. L’eticità comprende in sé l’esteriorità del diritto e l’interiorità della morale: è quell’insieme di comportamenti che legano l’individuo agli altri, ma cui si aderisce spontaneamente perché li sente come propri anche se sono regolati in istituzioni. Hegel è d’accordo con Aristotele sul fatto che l’uomo è un animale politico: l’uomo non vive isolato, esso, dice Hegel, è destinato alla vita comunitaria.  L’eticità è intesa come sentire comune, come morale collettiva che si incarna nelle istituzioni. È sostanza etica che acquista una dimensione sociale, ma è vissuta dall’individuo anche come propria realtà interiore. Con l’espressione “sostanza etica”, Hegel intende dire che la moralità non è una dimensione individuale ma storica e sociale (in questo senso si parla di “Spirito oggettivo”). La “sostanza etica” va considerata separatamente dagli individui e anzi li determina e li forma moralmente oggettivandosi storicamente nelle istituzioni.
Il primo momento dell’eticità, è la famiglia che si basa sul vincolo dell’amore, sullo jus sanguinis. La famiglia ha la propria base nella naturalità ma in essa la naturalità è elevata a momento spirituale, perché essa rappresenta una fusione sostanziale e non solo fisica tra i coniugi. In essa, dice Hegel, l’individuo è una sola cosa con gli altri membri di questa istituzione: la famiglia è un’unica persona, nel significato giuridico del termine, ed è una sola sostanza dal punto di vista etico, una piccola totalità basata sul sentimento, sul consenso e sulla fiducia reciproca. Quindi non è un mero contratto ma un’unione spirituale e morale che si scioglie solo quando i singoli membri tornano ad essere persone separate. L’istituzione familiare si articola in matrimonio, patrimonio e educazione dei figli. L’unione matrimoniale dà bene il senso del vincolo etico in quanto è fondato sul libero consenso, su un’adesione sulla base di una scelta libera che richiede la volontaria rinuncia a una parte della propria libertà per dedicarsi al coniuge e alla prole. Questi obblighi, questi doveri, contratti spontaneamente, per libero consenso, non si avvertono però come un’esteriorità. La famiglia è un organismo etico proprio in quanto implica vincoli accettati volontariamente, liberamente. Il patrimonio è la fonte per il soddisfacimento delle necessità fisiche e educative dei membri. Soprattutto è molto suggestiva la parte in cui Hegel parla della “seconda nascita”, cioè quella spirituale, che è data dall’educazione dei figli di cui i genitori si assumono la responsabilità. Il bambino, quando nasce, la trova preesistente, ne fa parte senza essersela scelta. Hegel vuol mettere in guardia dall’astrattismo individualistico: l’individuo già da quando nasce fa parte della piccola comunità della famiglia, che apre la strada alle comunità più ampie. Attraverso l’educazione, la famiglia rende possibile la trasmissione di sostanza etica ai nuovi individui e quindi svolge un ruolo di mediazione che garantisce continuità, non solo biologica, alla società stessa. I figli, infatti, non sono proprietà dei genitori, come nel mondo romano, ma, divenuti adulti, lasciano la famiglia di origine e ne formano un’altra con altri interessi. La famiglia insomma prende consapevolezza che non è autosufficiente: non tutti i bisogni che si presentano all’interno della famiglia si possono soddisfare al suo interno, nasce quindi l’esigenza del passaggio verso una forma di aggregazione più vasta, superiore, che è la società civile, vale a dire al mondo dell’economia, della produzione.
“Società civile” è un neologismo che Hegel ha fondato quasi simultaneamente ad Haller, un filosofo politico suo contemporaneo. Questa nuova locuzione che Hegel ha inventato viene oggi adoperata in maniera spesso erronea: si usa il termine “società civile” come se indicasse qualche cosa di positivo contro la barbarie, invece la parola “civile” per Hegel ha il senso che viene da civis latino, vuol dire abitante della città, della polis (infatti in tedesco “società civile” si dice bürgerlische Gesellschaft, da “borghese”, “abitante del borgo”). Perché Hegel ha inventato questo neologismo? Da Aristotele fino a Kant, lo Stato o la polis, città-Stato, implica anche la società civile, si parla cioè di cittadino, di membro dello Stato e di membro della società come se fossero la stessa cosa. Hegel invece è il primo che distingue nettamente la società civile dalla società politica: “società civile” non è locuzione intesa in contrapposizione a società barbarica, a barbarie, bensì vuol indicare l’uomo nella sua sfera privata, soprattutto nella sfera dei rapporti economici che conduce a forme di aggregazioni (sindacato, corporazione) con i propri compagni di lavoro, per difendere i propri interessi, la sfera dei suoi bisogni. L’espressione “società civile” in Hegel ha un connotato negativo, perché Hegel la definisce come “lo stato della necessità e dell’intelletto”. Lo stato (“stato” nel senso di “condizione”) della necessità è la sfera dei bisogni, è la sfera in cui entrano in contatto le famiglie e quindi gli individui che ne fanno parte, per soddisfare i loro bisogni economici, i loro bisogni materiali. La società civile è il luogo dell’incontro-scontro di interessi particolaristici: ciascuno è fine a se stesso e l’alterità è vista come rivalità. È la sfera dell’intelletto in quanto, per Hegel, l’intelletto è una funzione analitica: l’intelletto, nel vedere le cose come separate le une dalle altre, corrisponde all’individualismo. Ora, la società civile per Hegel è come l’intelletto, poichè consta di individui o gruppi di individui separati tra di loro.
La società civile si identifica con la sfera economico-sociale, che si interessa della produzione e degli scambi dei beni, e la sfera giuridico-amministrativa, predisposta per realizzare e ricomporre l’armonia sociale. La società civile si articola in tre momenti. Il sistema dei bisogni, per il cui soddisfacimento nasce il lavoro, con la specializzazione e la suddivisione in tre classi sociali: classe sostanziale (agricoltori e allevatori), classe formale (artigiani, operai e industriali) e classe universale (che si occupa degli interessi pubblici attraverso funzionari, impiegati, ecc.). L’amministrazione della giustizia, che attraverso i giudici espleta il potere giudiziario; essa sovrintende al rispetto delle leggi senza richiedere l’adesione interiore e il consenso personale. La polizia e le corporazioni: la prima volta alla sicurezza sociale che garantisce la coesione esterna, la seconda si presenta come una sorta di seconda famiglia e realizza una certa unità tra le volontà del singolo lavoratore e la sua categoria professionale di appartenenza instaurando una solidarietà di gruppo. Le corporazioni, quindi, consentono al cittadino di uscire fuori dall’egoismo per giungere ad una dimensione universale e sovraindividuale. Insomma, la società civile media gli interessi particolari ma non arriva ad una identità comune che si raggiungerà solo nello Stato.
Come all’intelletto, che è per sua natura analitico, succede una facoltà superiore, la ragione, che è sintetica (non vede le parti e gli individui ma il tutto come prevalente, opera cioè la sintesi), così alla società civile succede lo Stato, che è l’equivalente della totalità, che è superiore alla somma degli individui: non è equivalente alla società, è qualche cosa di più. Lo Stato è sostanza etica consapevole di sè, incarnazione suprema della morale sociale e del bene comune. Con una terminologia usata a suo tempo da Hobbes, Hegel definisce lo Stato anche come Dio in terra. Hegel riprende spesso non solo espressioni ma anche concetti di filosofie precedenti alla sua, attribuendo ad essi nuovi significati e questo, del resto, è in piena sintonia con l'idea hegeliana dello sviluppo dialettico secondo cui solo alla fine le cose acquistano vero significato; pertanto, le espressioni coniate dai pensatori del passato finiscono per assumere nella filosofia hegeliana un significato più compiuto di quello che rivestivano nella filosofia di provenienza. Ad esempio, l'espressione secondo cui lo Stato è Dio in terra in Hobbes riveste una valenza esclusivamente politica, mentre in Hegel si colora metafisicamente: se per Hobbes l'espressione voleva semplicemente dire che i beni maggiori l'uomo può aspettarseli in primo luogo da Dio, poi dallo Stato, per Hegel, invece, il Dio della religione è l'Assoluto della filosofia, il quale si manifesta dialetticamente come natura, Dio e, soprattutto, Spirito. Lo Stato, nota Hegel, è Dio in terra perchè rappresenta il culmine dello spirito oggettivo che giunge alla sua massima manifestazione in istituzioni, delle quali lo Stato rappresenta l'apice. Nello Stato, l'individuo torna in una famiglia più grande, indirizzando i particolarismi della famiglia e della società verso il bene collettivo. In esso avviene la conciliazione dei conflitti e la fondazione di una comunità veramente etica, capace di realizzare quell'unità e armonia che nella famiglia avevano un carattere naturale, inconsapevole e immediato, basato sul mero sentimento dell'amore. Questo passaggio è stato reso possibile grazie al momento conflittuale e negativo della società civile da cui era immune la famiglia. 
Hegel non intende delineare un modello ideale di Stato, quasi esso fosse il frutto della volontà degli uomini. Ciò che lo Stato è, è ciò che deve essere. Contrario al contrattualismo, per Hegel lo Stato non nasce da un accordo tra gli individui: ciò infatti legittimerebbe la superiorità di questi ultimi e la subordinazione dello Stato. Al contrario, lo Stato viene prima degli individui sia cronologicamente, in quanto gli uomini nascono all'interno di istituzioni ad essi preesistenti, sia idealmente e assiologicamente, cioè dal punto di vista valoriale.
Lo Stato è più di un'entità  politico-istituzionale, esso ha un carattere metafisico: non nasce dalla volontà dei singoli ma è incarnazione dello Spirito di un popolo che si raggiunge quando maturano quelle condizioni spirituali che costituiscono l'humus sostanziale della comunità stessa, cioè quell'insieme di valori spirituali che fondano gli individui nello Stato, unendoli da vincoli spirituali. Lo Stato, quindi, ha un carattere spirituale, culturale. Nella sua totalità, lo Stato è un soggetto unitario razionale, in cui gli individui sono momenti. In quanto sintesi della famiglia (momento soggettivo) e della società civile (momento oggettivo), lo Stato è adesione interiore dei cittadini a un'eticità. L'individuo risulta completamente subordinato allo Stato ma non per un processo di costrizione bensì per identificazione. La sovranità dello Stato non nasce quindi dagli individui ma esso riceve legittimazione dalle sue stesse forme di organizzazione, in altre parole da se stesso.
In questa prospettiva, Hegel rifiuta il giusnaturalismo e quindi nega che l'individuo abbia diritti naturali prima e oltre lo Stato. Tuttavia Hegel, conformemente ad una tradizione che va da Hobbes a Rousseau, accetta la supremazia della legge, che è l'ambito entro cui lo Stato stesso agisce; pertanto lo Stato hegeliano non si configura come uno stato dispotico, cioè illegale. Di conseguenza, secondo George H. Sabine, lo stato hegeliano si configura come "quello che la giurisprudenza tedesca chiamò più tardi Rechstaat, cioè "Stato di diritto", fondato sul rispetto delle leggi e sulla salvaguardia della libertà "formale" dell'individuo e della sua proprietà (da ciò l'ammirazione hegeliana per la codificazione napoleonica). I tre momenti dello Stato sono il diritto interno, il diritto esterno e la storia del mondo.
Per quanto riguarda il Diritto interno, Hegel ritiene che l'organizzazione di uno Stato si basa sulla costituzione. Coerente con la sua ottica storicistica, la costituzione non è frutto di un accordo a tavolino, non è un patto convenzionalmente stabilito tra gli individui ma qualcosa che nasce necessariamente dalla vita collettiva e storica di un popolo: è una sola cosa con lo Spirito del popolo. Dunque non ha senso chiedersi chi debba essere il suo autore perchè non c'è costituzione che sia stata elaborata da alcuno ma essa si solge contemporaneamente allo svolgimento dello Spirito. Pertanto, è vano tentare di imporre una costituzione ad un popolo (come fece Napoleone con gli spagnoli), anche se si trattasse della migliore costituzione del mondo. Lo Stato costituzionale prevede tre poteri divisi ma non distinti tra loro: il potere legislativo, il potere governativo o esecutivo e il potere principesco. Per Hegel la forma istituzionale migliore è la monarchia costituzionale, in cui i tre poteri sono connessi dialetticamente e in cui lo l'unità dello Stato è garantita dal sovrano.
Il potere legislativo consiste nel potere di determinare e di stabilire l'universale attraverso le leggi. Esso è esercitato da una Camera alta e una Camera bassa. La prima è formata dai rappresentanti della nobiltà terriera, cioè dei ceti agricoli, e pertanto assicura la continuità con il passato; la seconda è formata dai deputati delle corporazioni, cioè del ceto industriale, è portatrice delle istanze di progresso e innovazione. La rappresentanza è per Hegel l'elemento essenziale dello Stato moderno in quanto concretizzazione dell'idea di libertà, tuttavia non si può parlare nel pensiero hegeliano di sovranità popolare in senso stretto. Pur insistendo sull'importanza mediatrice dei ceti, che, come nei Lineamenti Hegel sostiene,  stanno tra il governo in genere da un lato, e il popolo dissolto in individui e sfere particolari dall'altro, di fatto si mostra diffidente nei confronti del loro agire politico, ritenendo che essi, per loro natura, siano inclini a far prevalere gli interessi particolari a discapito dell'interesse generale. Esplicitando chiaramente la propria distanza dal pensiero democratico, per Hegel, come dice nei Lineamenti, il popolo non sa ciò che vuole mentre i membri del governo possono fare ciò che è il meglio senza i ceti. Coerentemente con queste premesse, Hegel dichiara che l'assemblea dei ceti è soltanto una parte, tra l'altro quella meno determinante, del potere legislativo, poichè a quest'ultimo concorrono in modo preminente gli altri due poteri.
Il potere governativo, che comprende in sè i poteri giudiziari e di polizia operanti a livello di società civile, consiste nello sforzo di tradurre in atto, cioè in casi specifici, l'universalità delle leggi. E' questo il compito dei funzionari dello Stato.
Il potere del principe è affidato ad un monarca costituzionale, che è il culmine e il principio della totalità. Egli rappresenta l'incarnazione stessa dell'unità dello Stato, cioè il momento in cui la sovranità di quest'ultimo si concretizza in un'individualità reale, cui spetta la decisione ultima circa gli affari della collettività. Tuttavia, al di là dell'enfasi posta da Hegel sulla figura-simbolo del monarca, la sua funzione consiste, in ultima istanza, come si afferma nei Lineamenti, nel dire sì, e mettere i puntini sulle i. Pertanto, nel modello costituzionale hegeliano, il potere è di fatto esercitato dal governo, cioè dai ministri e dai pubblici funzionari.
Circa il DIRITTO ESTERNO, Hegel, diversamente da Kant che sogna una federazione di stati che garantisca la pace perpetua, è contrario a qualsiasi forma di diritto internazionale o magistratura sovranazionale in grado di regolare i rapporti inter-statali. Hegel rifiuta il cosmopolitismo illuministico e kantiano, considera vacui i discorsi sui diritti naturali nonchè assurde fantasticherie i progetti di federazione internazionale e di pace perpetua. Quale concretizzazione dello spirito di un popolo, ogni Stato si pone di fronte agli altri come un organismo indipendente e sovrano che cerca il proprio riconoscimento. Ogni Stato è dunque un individuo che fronteggia altri individui sulla base di certi interessi. Si possono stipulare trattati e convenzioni internazionali ma in caso di divergenza inconciliabile  il solo  giudice o arbitro è lo spirito universale, cioè la STORIA DEL MONDO, la quale ha come suo momento strutturale la guerra. Questa per Hegel non solo è necessaria e inevitabile, quando non è possibile alcun accomodamento, ma addirittura possiede un alto valore morale. Con un famoso paragone, Hegel sostiene nei Lineamenti che come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole, così la guerra preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace durevole o perpetua. Lungi dall'essere potenza, violenza, cieco destino, la guerra è una modalità di sviluppo della storia. Questa è manifestazione razionale dello Spirito: anche gli eventi recalcitranti, quelli che l'intelletto definisce "male", in realtà sono preparazione a un bene superiore successivo.
Hegel non nega che la storia possa apparire come un insieme di fatti contingenti, insignificanti e mutevoli cioè priva di una razionalità e divinità ma piuttosto da disordine, distruzione e male. Questa visione è propria dell'intelletto finito, cioè di coloro che misurano la storia alla stregua dei propri personali, seppur rispettabili, ideali e non sa elevarsi al punto di vista puramente speculativo della ragione assoluta. La storia invece è tutta razionale perchè guidata dalla ragione. Tale concezione non è dissimile dalla fede religiosa nella Provvidenza, solo che nel pensiero hegeliano la Provvidenza è portata alla forma di sapere che la sottrae dal limite di genericità proprio della fede. Di questa storia sono protagonisti inconsapevoli singoli popoli e singoli uomini: lo spirito del mondo infatti si incarna negli spiriti dei popoli che si succedono all'avanguardia della storia. In ogni epoca solo un popolo, con la sua cultura, le sue istituzioni, la sua dimensione etico-politica, incarna adeguatamente lo spirito del mondo; solo un popolo, quello che rappresenta l'espressione più compiuta dell'autocoscienza dello spirito del tempo (Zeitgeist), può aspirare al predominio culturale, politico, economico e spirituale. Tale predominio di un popolo è legittimo fino al momento in cui, per il mutamento della situazione oggettiva, quel popolo non sarà più in grado di esprimere al meglio lo spirito universale. A quel punto, l'egemonia passerà a un altro, al quale toccherà di trainare in avanti la storia del mondo. Altri mezzi della storia del mondo sono gli individui e le loro passioni. Queste sono semplici mezzi che conducono alcuni uomini, gli "individui cosmici", a fini diversi da quelli a cui essi esplicitamente aspirano o immaginano (Cristoforo Colombo cercava le Indie ma scoprì l'America). L'azione dell'individuo sarà tanto più efficace quanto più sarà conforme allo spirito del popolo cui l'individuo appartiene. Questi individui sono una sorta di veggenti: sanno qual è la verità del loro mondo, del loro tempo, sono consapevoli che è giunta l'ora perchè l'avvenire si realizzi e imprimono nella storia svolte decisive. Apparentemente questi individui (Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone) non fanno che seguire la propria passione e ambizione; ma per Hegel, si tratta di un'astuzia della ragione che si serve degli individui e delle loro passioni come mezzi, come meri fantocci, per attuare i propri fini. Raggiunto il proprio scopo, la ragione abbandona l'individuo che perisce o è condotto a rovina dal suo stesso successo.
Il fine ultimo della storia del mondo è la LIBERTA' dello spirito che si realizza nello Stato, che si configura come il fine supremo. La storia del mondo è storia di libertà e si configura quindi come la successione di forme statali che costituiscono momenti di un divenire assoluto. Nella sua analisi delle diverse culture via via egemoni sulla scena del mondo, Hegel è influenzato certamente dal grande quadro storico tracciato da Herder a fine '700 e dalle teorie di Montesquieu intorno all'influenza del clima e delle condizioni ambientali sullo sviluppo delle civiltà.
I tre momenti della storia del mondo sono: il mondo orientale, patriarcale e teocratica, il cui sovano incarnava sia il potere politico che quello spirituale. In questo mondo la libertà era ancora solo un'idea, in quanto uno solo, il sovrano, era libero e la sua libertà era puro arbitrio e dispotismo. Il mondo greco e romano: nel mondo greco già ritroviamo l'unità sostanziale di finito e infinito di cui aveva parlato gli scritti giovanili. La libertà, che è prerogativa di alcuni, vi compare per la prima volta, anche se in modo astratto e ancora non giunto all'autocoscienza. Infatti le attività dirette alla soddisfazione dei bisogni, cioè le attività economiche, sono affidate ad agenti non liberi: gli schiavi. In altre parole, la cultura greca realizza un'eticità spirituale libera, che ha come correlato sociale la permanenza della schiavitù; il mondo romano, che prosegue la cultura greca, è ancora più astratto e formale. E' decadente e corrotto. L'immagine drammatica della fine del mondo antico culmina nell'infelicità universale e nella morte della vita etica. Infine, il mondo cristiano-germanico al quale Hegel affida il compito di uscire dalla generale negatività della fine del mondo antico, portando in auge il principio dell'interiorità e dell'individualità. La figura di Cristo mostra il suo valore assoluto quando, attraverso l'incarnazione, giunge all'oggettività. In questo modo Hegel vede tutti i presupposti per una realizzazione compiuta della libertà. Attraverso fasi storiche successive, tra le quali sono decisive la Riforma protestante e la Rivoluzione francese, la libertà diviene nella modernità una realtà concreta per tutti. Infatti, la monarchia moderna, abolendo i privilegi dei nobili e pareggiando i diritti dei cittadini, fa libero l'uomo in quanto uomo. Ovviamente, questa libertà, che viene rivendicata dall'uomo e accomuna gli individui nel riconoscimento della loro comune dignità, secondo Hegel si può realizzare soltanto nello "Stato etico", che risolve l'individuo nell'organismo universale della comunità, e non certo in uno Stato di tipo liberale, in cui il singolo pretende di far valere il suo arbitrio e i suoi bisogni particolari. Non è chiaro se Hegel ritenesse che in tal modo la storia fosse giunta al massimo compimento, in particolare nel Regno di Prussia o se essa avesse in serbo nuove fasi. Egli è stato accusato di aver visto nello Stato prussiano la massima realizzazione dello spirito. Indubbiamente alcuni passi dei suoi scritti possono essere letti in questo senso ma le interpretazioni su questo punto non sono unanimi. La portata etica e ideale del criterio della libertà crescente va ben oltre gli esempi storici addotti da lui stesso. Soprattutto su questo punto e sulle sue evidenti implicazioni politiche, si aprirà fra i suoi allievi un dibattito che porterà alla contrapposizione tra una "destra" e una "sinistra" hegeliana.



[1] È importante sottolineare che “proprietà” non significa “patrimonio”: nella Filosofia del diritto di Hegel viene distinta la proprietà, che serve a fini di utilità personale, dal patrimonio, che può diventare qualche cosa di rilevanza anche sociale. Hegel sostiene che quando la proprietà diventa patrimonio e acquisisce un’influenza sociale, deve essere messa sotto controllo dallo Stato: per questo aspetto si può addirittura dire che Hegel apre la strada al socialismo.