Il
Capitale
Il Capitale rappresenta il capolavoro di Marx e il
testo-chiave della sua dottrina. Non è soltanto un libro di economia perché
cerca di mettere in luce i meccanismi strutturali della società borghese. Marx
vede nella sfera economica la chiave di spiegazione della società nel suo
insieme, pertanto l'opera non intende porsi come studio di un segmento della
vita reale, isolato dagli altri, ma come una fotografia critica della civiltà
capitalistica intesa come struttura complessiva.
A motivo
del suo metodo storicistico-dialettico, Marx si contrappone ai teorici
dell’economia borghese, Smith e Ricardo, sostenendo che non esistono leggi
universali dell’economia: ogni società ha caratteri e leggi storiche
specifiche, per cui, ad es., quelle che valgono per il feudalesimo non valgono
per il capitalismo. Marx sostiene, inoltre, che la società borghese porti in se
stessa le contraddizioni strutturali che ne determineranno la fine.
Merce,
lavoro e plusvalore
La caratteristica specifica del modo di produzione capitalistico, rispetto
a quello delle società precedenti, è secondo Marx di
essere produzione generalizzata di merci. Di conseguenza, la prima parte del Capitale è dedicata all'analisi del fenomeno
"merce".
Innanzi tutto, una merce deve possedere un «valore d'uso», in quanto deve poter servire a qualcosa, ossia
essere utile, poiché nessuno acquista qualcosa che non soddisfi determinati suoi
bisogni, sia che tali bisogni «provengano dallo stomaco o dalla fantasia ».
In secondo luogo, una merce, per essere veramente tale, deve possedere un «valore di scambio», che le
garantisca la possibilità di essere scambiata con altre merci. Ma in che cosa risiede il valore di scambio di una merce?
Marx, sulla scia degli economisti classici e dell'equazione "valore = lavoro",
risponde che esso discende dalla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre la merce in questione: più lavoro è necessario per produrla, più essa vale[1].
Si noti che, con l'espressione «socialmente necessaria», il filosofo si riferisce alla produttività sociale media di un
determinato periodo storico: una merce che oggi vale x, infatti, domani
potrebbe valere y, appunto in virtù di un mutamento della produttività sociale media.
Secondo Marx, tuttavia, il valore di una merce non si identifica del tutto con il suo prezzo. Su quest'ultimo,
infatti, influiscono altri fattori contingenti, come ad esempio l'abbondanza o
la scarsità della merce stessa: ciò significa che il prezzo di una singola merce può superare il suo valore
reale o stare al di sotto di esso[2].
Di conseguenza, sebbene nelle
relazioni di mercato il valore non si presenti mai allo stato puro, ma sempre
come prezzo, quest'ultimo non è il valore, ma ha il valore alla propria base.
Secondo
Marx, la caratteristica peculiare del capitalismo è costituita dal fatto che in
esso la produzione non è finalizzata al
consumo, bensì all'accumulazione di denaro. Di conseguenza,
il ciclo capitalistico non è quello
"semplice”, prevalente nelle società preborghesi e descrivibile con la
formula schematica M.D.M.
(merce-denaro-merce). Tale formula, infatti, allude al doppio processo per cui
una certa quantità di merce viene trasformata in denaro e una certa quantità di
denaro viene ri-trasformata in merce (come nel caso di un contadino che vende
del grano per acquistare un vestito). Il ciclo economico peculiare del
capitalismo è piuttosto descrivibile con la formula D.M.D'. (denaro-merce-più
denaro), in quanto
nella società borghese abbiamo un soggetto (il capitalista) che investe denaro per
la produzione di una merce. Una parte di D
viene speso in capitale variabile
(così chiamato perché coincide con il capitale mobile investito nei salari) in
parte in capitale costante
(che coincide con il capitale investito
nelle macchine e in tutto ciò di cui la fabbrica ha bisogno per funzionare
efficacemente). Alla fine del processo, il capitalista si ritrova con più
denaro di quanto ne avesse investito (D'>D).
Da
dove deriva questo "più" monetario, questo plusvalore?
A
prima vista il processo di generazione del plusvalore appare una sorta di
"mistero". Infatti il plusvalore (D') non
può provenire né dal denaro in se stesso, che è un semplice mezzo di scambio, né dallo scambio, poiché, in termini di
statistica sociale, gli scambi hanno sempre luogo tra valori equivalenti. Per questa
ragione Marx è convinto che l'origine del plusvalore non
debba essere cercata al livello dello scambio delle merci, bensì al livello
della produzione capitalistica delle medesime. Nella società borghese, infatti,
il capitalista ha la possibilità di "comprare" e "usare"
una merce particolare, che ha come caratteristica peculiare quella di produrre valore: si tratta della «merce umana», ossia,
fuor di metafora, dell'operaio. Il capitalista compra la sua forza-lavoro
pagandola come una qualsiasi merce, ovvero secondo il valore corrispondente alla quantità di lavoro
socialmente necessario a produrla: tale valore, nel caso dell'operaio, è pari a
quello dei mezzi che gli sono necessari per vivere, lavorare e generare, ossia
al cosiddetto "salario". Tuttavia l'operaio - ed è questa la fonte
del plusvalore - ha la capacità di produrre con il proprio lavoro un valore ben
maggiore di quello che gli è corrisposto con il
salario. Il plusvalore discende
quindi dal pluslavoro dell'operaio
e si identifica con l'insieme del valore
da lui gratuitamente offerto al capitalista.
Con
questa teoria Marx intende fornire una spiegazione "scientifica"
dello sfruttamento capitalistico, che egli identifica con la possibilità, da
parte dell'imprenditore, di utilizzare la forza lavoro altrui a proprio
vantaggio. Ciò avviene in quanto il capitalista dispone dei mezzi di produzione, mentre il lavoratore dispone unicamente
della propria energia lavorativa ed è costretto, per vivere, a "vendersi" sul mercato in cambio del salario.
Dal
plusvalore deriva il profitto. Plusvalore e profitto,
per Marx, non sono tuttavia la medesima cosa, come talvolta impropriamente si
afferma, in quanto il profitto, pur presupponendo il plusvalore, non coincide
totalmente con esso. Poiché il plusvalore nasce solo in relazione ai salari,
ossia al capitale variabile (in quanto più aumenta il pluslavoro, più cresce il
plusvalore), il saggio (o il tasso)
del plusvalore risiede nel rapporto,
espresso in percentuale, tra il plusvalore e il capitale variabile:
Cerchiamo
di chiarire quanto detto con un esempio. Se il capitale variabile è 6 e il
plusvalore è 4, il saggio del plusvalore sarà 4/6, ovvero 2/3. Moltiplicando
questo rapporto per 100 otterremo 66,6% (2/3 x 100 = 200/3 = 66,6%), cifra che
esprime appunto, in percentuale, il plusvalore conseguito in rapporto al
capitale variabile investito.
Ma
il capitalista, per poter dirigere la fabbrica, è costretto a investire non
solo in salari (capitale variabile), ma anche in impianti (capitale costante).
Pertanto il saggio del profitto
non coincide con il saggio del plusvalore, ma scaturisce dal rapporto, espresso in percentuale, tra il
plusvalore da un lato e la somma del
capitale variabile e del capitale costante dall'altro:
Ad
esempio, se il plusvalore è 4, il capitale costante 1 e il capitale variabile
6, il saggio del profitto sarà 4/(1 + 6) = 4/7 = 57,1 %.
Di
conseguenza, il saggio del profitto è
sempre minore del saggio del plusvalore (come appare in modo evidente dalla
maggior grandezza del denominatore) ed esprime in modo più preciso il guadagno
del capitalista.
[1] La convinzione che alla radice di tutto ciò si trovi
il lavoro porta Marx a contestare il cosiddetto "feticismo delle
merci", che consiste nel considerare le merci come delle entità aventi
valore di per sé, dimenticando che esse sono invece il frutto dell'attività
umana e di determinati rapporti sociali.
[2] Anche se Marx è convinto che in
condizioni normali, la somma complessiva dei prezzi delle merci esistenti in una
determinata società equivalga alla somma complessiva del lavoro contenuto in
esse, ossia alloro valore.