venerdì 28 febbraio 2014

Il Capitale (da Abbagnano)


Il Capitale

Il Capitale rappresenta il capolavoro di Marx e il testo-chiave della sua dottrina. Non è soltanto un libro di economia perché cerca di mettere in luce i meccanismi strutturali della società borghese. Marx vede nella sfera economica la chiave di spiegazione della società nel suo insieme, pertanto l'opera non intende porsi come studio di un segmento della vita reale, isolato dagli altri, ma come una fotografia critica della civiltà capitalistica intesa come struttura complessiva.
A motivo del suo metodo storicistico-dialettico, Marx si contrappone ai teorici dell’economia borghese, Smith e Ricardo, sostenendo che non esistono leggi universali dell’economia: ogni società ha caratteri e leggi storiche specifiche, per cui, ad es., quelle che valgono per il feudalesimo non valgono per il capitalismo. Marx sostiene, inoltre, che la società borghese porti in se stessa le contraddizioni strutturali che ne determineranno la fine.

Merce, lavoro e plusvalore
La caratteristica specifica del modo di produzione capitalistico, rispetto a quello delle società precedenti, è secondo Marx di essere produzione generalizzata di merci. Di conseguenza, la prima parte del Capitale è dedicata all'analisi del fenomeno "merce".
Innanzi tutto, una merce deve possedere un «valore d'uso», in quanto deve poter servire a qualcosa, ossia essere utile, poiché nessuno acquista qualcosa che non soddisfi determinati suoi bisogni, sia che tali bisogni «provengano dallo stomaco o dalla fantasia ».
In secondo luogo, una merce, per essere veramente tale, deve possedere un «valore di scambio», che le garantisca la possibilità di essere scambiata con altre merci. Ma in che cosa risiede il valore di scambio di una merce? Marx, sulla scia degli economisti classici e dell'equazione "valore = lavoro", risponde che esso discende dalla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre la merce in questione: più lavoro è necessario per produrla, più essa vale[1]. Si noti che, con l'espressione «socialmente necessaria», il filosofo si riferisce alla produttività sociale media di un determinato periodo storico: una merce che oggi vale x, infatti, domani potrebbe valere y, appunto in virtù di un mutamento della produttività sociale media.
Secondo Marx, tuttavia, il valore di una merce non si identifica del tutto con il suo prezzo. Su quest'ultimo, infatti, influiscono altri fattori contingenti, come ad esempio l'abbondanza o la scarsità della merce stessa: ciò significa che il prezzo di una singola merce può superare il suo valore reale o stare al di sotto di esso[2].  Di conseguenza, sebbene nelle relazioni di mercato il valore non si presenti mai allo stato puro, ma sempre come prezzo, quest'ultimo non è il valore, ma ha il valore alla propria base.
Secondo Marx, la caratteristica peculiare del capitalismo è costituita dal fatto che in esso la produzione non è finalizzata al consumo, bensì all'accumulazione di denaro. Di conseguenza, il ciclo capitalistico non è quello "semplice”, prevalente nelle società preborghesi e descrivibile con la formula schematica M.D.M. (merce-denaro-merce). Tale formula, infatti, allude al doppio processo per cui una certa quantità di merce viene trasformata in denaro e una certa quantità di denaro viene ri-trasformata in merce (come nel caso di un contadino che vende del grano per acquistare un vestito). Il ciclo economico peculiare del capitalismo è piuttosto descrivibile con la formula D.M.D'. (denaro-merce-più denaro), in quanto nella società borghese abbiamo un soggetto (il capitalista) che investe denaro per la produzione di una merce. Una parte di D viene speso in capitale variabile (così chiamato perché coincide con il capitale mobile investito nei salari) in parte in capitale costante (che coincide con il capitale investito nelle macchine e in tutto ciò di cui la fabbrica ha bisogno per funzionare efficacemente). Alla fine del processo, il capitalista si ritrova con più denaro di quanto ne avesse investito (D'>D).

Da dove deriva questo "più" monetario, questo plusvalore?
A prima vista il processo di generazione del plusvalore appare una sorta di "mistero". Infatti il plusvalore (D') non può provenire né dal denaro in se stesso, che è un semplice mezzo di scambio, né dallo scambio, poiché, in termini di statistica sociale, gli scambi hanno sempre luogo tra valori equivalenti. Per questa ragione Marx è convinto che l'origine del plusvalore non debba essere cercata al livello dello scambio delle merci, bensì al livello della produzione capitalistica delle medesime. Nella società borghese, infatti, il capitalista ha la possibilità di "comprare" e "usare" una merce particolare, che ha come caratteristica peculiare quella di produrre valore: si tratta della «merce umana», ossia, fuor di metafora, dell'operaio. Il capitalista compra la sua forza-lavoro pagandola come una qualsiasi merce, ovvero secondo il valore corrispondente alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla: tale valore, nel caso dell'operaio, è pari a quello dei mezzi che gli sono necessari per vivere, lavorare e generare, ossia al cosiddetto "salario". Tuttavia l'operaio - ed è questa la fonte del plusvalore - ha la capacità di produrre con il proprio lavoro un valore ben maggiore di quello che gli è corrisposto con il salario. Il plusvalore discende quindi dal pluslavoro dell'operaio e si identifica con l'insieme del valore da lui gratuitamente offerto al capitalista.
Con questa teoria Marx intende fornire una spiegazione "scientifica" dello sfruttamento capitalistico, che egli identifica con la possibilità, da parte dell'imprenditore, di utilizzare la forza lavoro altrui a proprio vantaggio. Ciò avviene in quanto il capitalista dispone dei mezzi di produzione, mentre il lavoratore dispone unicamente della propria energia lavorativa ed è costretto, per vivere, a "vendersi" sul mercato in cambio del salario.
Dal plusvalore deriva il profitto. Plusvalore e profitto, per Marx, non sono tuttavia la medesima cosa, come talvolta impropriamente si afferma, in quanto il profitto, pur presupponendo il plusvalore, non coincide totalmente con esso. Poiché il plusvalore nasce solo in relazione ai salari, ossia al capitale variabile (in quanto più aumenta il pluslavoro, più cresce il plusvalore), il saggio (o il tasso) del plusvalore risiede nel rapporto, espresso in percentuale, tra il plusvalore e il capitale variabile:

Cerchiamo di chiarire quanto detto con un esempio. Se il capitale variabile è 6 e il plusvalore è 4, il saggio del plusvalore sarà 4/6, ovvero 2/3. Moltiplicando questo rapporto per 100 otterremo 66,6% (2/3 x 100 = 200/3 = 66,6%), cifra che esprime appunto, in percentuale, il plusvalore conseguito in rapporto al capitale variabile investito.
Ma il capitalista, per poter dirigere la fabbrica, è costretto a investire non solo in salari (capitale variabile), ma anche in impianti (capitale costante). Pertanto il saggio del profitto non coincide con il saggio del plusvalore, ma scaturisce dal rapporto, espresso in percentuale, tra il plusvalore da un lato e la somma del capitale variabile e del capitale costante dall'altro:

Ad esempio, se il plusvalore è 4, il capitale costante 1 e il capitale variabile 6, il saggio del profitto sarà 4/(1 + 6) = 4/7 = 57,1 %.
Di conseguenza, il saggio del profitto è sempre minore del saggio del plusvalore (come appare in modo evidente dalla maggior grandezza del denominatore) ed esprime in modo più preciso il guadagno del capitalista.


[1] La convinzione che alla radice di tutto ciò si trovi il lavoro porta Marx a contestare il cosiddetto "feticismo delle merci", che consiste nel considerare le merci come delle entità aventi valore di per sé, dimenticando che esse sono invece il frutto dell'attività umana e di determinati rapporti sociali.
[2] Anche se Marx è convinto che in condizioni normali, la somma complessiva dei prezzi delle merci esistenti in una determinata società equivalga alla somma complessiva del lavoro contenuto in esse, ossia alloro valore.